Pizza di scarola

Questa è la ricetta napoletana di una pizza rustica da consumare tiepida o fredda. Si può quindi preparare con anticipo e lasciare pronta per quando, famelici, rientrate a casa  per pranzo o cena. Con le stesse dosi, invece della pizza,  è possibile preparare dei calzoni ripieni di scarola . La mia variante prevede l’aggiunta di formaggio grattugiato e semi di finocchietto .

 Ingredienti

 Per la pasta

 400g di farina

mezzo bicchiere di olio di oliva

un bicchiere di acqua

1 cucchiaino di sale

un cubetto di lievito di birra

 Disporre la farina a fontana e nell’ incavo centrale versare il lievito sciolto in acqua tiepida. Iniziare a impastare prendendo dai lati altra farina. Aggiungere pian piano l’olio, il sale  e l’acqua necessaria per ottenere un impasto piuttosto consistente .Lavorare la pasta in modo che risulti elastica e liscia. (esercizio tonificante per i bicipiti di ogni età). Lasciare lievitare per  un’ora circa.

 In alternativa  si può usare la pasta di pane già lievitata

 

 Per il ripieno

 3-4 scarole (piccole), altrimenti 2 grandi

1 spicchio di aglio

100g di olive ( 50g di olive verdi e 50g di olive  Gaeta)

1-2  acciughe salate

50 g  di capperi

70 g di uvetta sultanina

50g di pinoli

una manciata  di pecorino romano grattugiato

alcuni semi di finocchietto ( se piacciono)

olio di oliva

 

Preparazione

 Ammorbidire l’uvetta in acqua tiepida ,sciacquare e strizzare i capperi, snocciolare le olive, spezzettare le acciughe.

Lavare  le scarole, lessarle in una pentola larga e coperta con poca acqua ( la verdura rilascerà la propria) e scolarle bene. In un tegame dai bordi alti  versare l’olio d’oliva e soffriggere l’ aglio schiacciato , che sarà estratto e sostituito dai capperi, olive snocciolate, pinoli ,uvetta sultanina, acciughe. Lasciarli per pochi minuti sul fuoco, aggiungere le scarole stufate, i semi di finocchietto e il pecorino grattugiato. Mescolare per  amalgamare i sapori.

 In una teglia, unta con un filo di olio,  adagiare una sfoglia di pasta, versare il ripieno di scarole e ricoprire con un’altra sfoglia, bucherellata in  superficie. Cuocere al forno a 200° fino a quando risulterà dorata.

  Se preferite un piatto più semplice, potete “affogare” le scarole con gli stessi ingredienti (eccetto il formaggio) e servirle come contorno.

Pasta aumm aumm

  Non è la ricetta tradizionale delle penne aumm aumm con melanzane e mozzarella. Il nome è stato adottato dalla mammà del consorte, cuoca provetta. Aumm aumm in napoletano significa di nascosto. Un piatto non proprio nascosto visto che occorre mobilitare una pentola con  tre-quattro padelle ed impegnare tutti i fornelli del piano di cottura. Io lo associo a quel verso che si fa per dire “uhm che buono!” oppure all’ aaaaaùùmmm emesso dalla mammina esausta nel tentativo di fare spalancare la bocca al bebè inappetente. In tal caso dubito molto che un bebè  possa gradire la pasta  con peperoni e melanzane.

 In termini di tempi di  preparazione la ricetta  è di media velocità, ma si consideri che vale come piatto unico e quindi si risparmia il tempo necessario per preparare un secondo. A riguardo dei tempi  di strafogamento e digeribilità…  beh tutto dipende dalla voracità del commensale e dal suo metabolismo. 

Ingredienti per 4 persone:

  400 g di mezzi fusilli (in alternativa cavatappi o  reginette)

 1-2  melanzane

 1 peperone

 una dozzina di pomodorini

aglio e  basilico
 una cipolla

 400g circa di salsiccia

 olio di oliva

Lavare e asciugare gli ortaggi. Mettere a bollire l’acqua per la pasta.
Friggere separatamente  le melanzane tagliate in piccoli pezzi e i peperoni tagliati a listarelle sottili. In un’altra padella versare i  pomodorini spezzettati, un po’ di aglio tritato, basilico e le melanzane fritte. Lasciare insaporire per qualche minuto fino a quando il sughetto di pomodori si sia tirato.Cuocere la pasta. 

In un tegame largo imbiondire una cipolla, tagliata finemente, in  un filo di olio di oliva. Aggiungere e cuocere la salsiccia sbudellata e frantumata in piccoli pezzi. Aggiungere poi  i peperoni e la salsiccia nel sugo di melanzane. Lasciar cuocere insieme per pochi minuti perché si amalgamino i sapori. Volendo si può aggiungere un peperoncino piccante. Condire la pasta  col sugo aum aum.

 Buon appetito!

 

La mitica pastiera

La pastiera è un dolce di antiche e leggendarie origini, tipico della cucina napoletana e del periodo pasquale.

Si narra che in primavera la sirena Partenope emergesse dalle acque del Golfo di Napoli  per salutare con canti di gioia le genti della costa. Un giorno sette belle fanciulle furono inviate per omaggiarla  con  preziosi e semplici prodotti della terra e del lavoro dell’uomo: farina, ricotta, uova ( simbolo della vita), grano, inebriante acqua di fiori d’arancio, seducenti spezie del lontano Oriente e  infine zucchero. Partenope  pose questi doni ai piedi degli dei che la ringraziarono amalgamandoli magicamente in una pastiera, più  dolce del suo canto che incantava uomini e dei.

“L’antica pastiera dall’apparenza casalinga, onesta, sincera, color del legno stagionato, decorata col suo modesto traliccio incrociato di pasta frolla. Intanto è un dolce a metà. Il suo sapore è delicatissimo, composto come è dai chicchi di grano primaticcio ammorbiditi e ammollati, da una buona ricotta, da pezzetti di cedro, umida e fragrante d’acqua di fior d’arancio. È un dolce che sa di primavera e di nozze, di innocenza e d’infanzia, di sole e di serenità, un dolce d’altri e forse più felici, almeno più tranquilli tempi (da “Breviario della cucina napoletana” di Mario Stefanile)

 

Un dolce talmente  squisito, da ridare  il sorriso a tutti…

A Napule regnava Ferdinando

Ca passava e’ jurnate zompettiando;

Mentr’ invece a’ mugliera, ‘Onna Teresa,

Steva sempe arraggiata. A’ faccia appesa

O’ musso luongo, nun redeva maje,

Comm’avess passate tanta guaje.

“A Napoli regnava Ferdinando (Ferdinando II di Borbone) che passava le giornate “zampettando”; mentre invece sua moglie, donna Teresa ( Maria Teresa d’Austria) stava sempre arrabbiata. La faccia triste, il muso lungo, non rideva mai, come se avesse passato tanti guai…”( e ci credo… dopo 12 figli e un consorte allegramente zampettante al fianco)

 Finchè un giorno la cameriera propose alla regina un dolce nuovo, che piaceva a uomini , donne e bambini. La pastiera addolcì la regina tanto da strapparle un sorriso. Il re esclamò:

“E che marina!

Pe fa ridere a tte, ce vò a Pastiera?

Moglie mia, vien’accà, damme n’abbraccio!

Chistu dolce te piace? E mò c’o saccio

Ordino al cuoco che, a partir d’adesso,

Stà Pastiera la faccia un pò più spesso.

Nun solo a Pasca, che altrimenti è un danno;

pe te fà ridere adda passà n’at’ anno!”

“E che marina! Per farti ridere ti ci vuole una pastiera? Moglie mia, vieni qua, abbracciami. Questo è il dolce che ti piace? E ora che lo so, ordino al cuoco che, a partir da oggi, faccia più spesso ‘sta pastiera. Non solo a Pasqua, chè altrimenti è un danno: per farti ridere deve passare un anno!”

 Probabilmente la pastiera, come la conosciamo oggi, nacque dall’estro culinario di un’ignota suora, una delle tante dedite alla preparazione di dolci che allietavano le tavole imbandite  di nobili e ricchi borghesi.

 I piatti tipici della tradizione napoletana hanno il pregio o il difetto di non rispecchiare mai un’unica ricetta: sono spesso “insubordinati” nelle dosi e negli ingredienti. Non solo, ma ogni famiglia custodisce gelosamente quella variante che rende il piatto speciale e diverso dalla ricetta base. Come ad esempio la pastiera di cui si trovano ricette con uova e ricotta, con crema pasticcera oppure  con i tagliolini.

 La pastiera mi è cara perché l’ associo a mia madre. Premetto che a tutt’oggi non si cimenta nei dolci se non negli struffoli e nella pastiera, che merita effettivamente un plauso anche per le irregolari strisce incrociate di pastafrolla che sono la sua inconfondibile firma.Mamma dedica un’uscita speciale solo per acquistarne gli ingredienti. Qualche giorno prima di prepararla, mette il grano a mollo nell’ acqua. Il giorno successivo lo cuoce nel latte. E al terzo giorno assisto alla vera resurrezione di mamma. Per soddisfare le richieste di amici e conoscenti, per un giorno intero inforna e sforna dolci di vario diametro, e non vuole essere assolutamente  disturbata in un rituale che le appartiene e al quale ha rinunciato solo due volte in vita sua, a causa del  terremoto e di un grave lutto familiare.

Alla pastiera sono legati aneddoti indimenticabili nella storia della mia  famiglia.Una volta mamma mi telefonò chiedendomi  di ritirare la spesa nel negozio di fronte casa sua e la cosa mi parve alquanto strana perché ha sempre, ma sempre fatto tutto da sola. Non appena mi vide, il salumiere esclamò: “Signora, ho preparato le uova per sua madre. Mi scusi , ma a che cosa servono 60 uova?” Ignara di tutto, capii che erano iniziate le grandi manovre pasquali da pastiera. Fu così che anche il salumiere si guadagnò il suo piccolo e dolce tributo pastieresco.

Poiché le specialità gastronomiche di famiglia si trasmettono ancora di generazione in generazione  (ebbene sì), per anni le ho chiesto la ricetta  della pastiera. In effetti non l’ho mai ricevuta perché lei, come mia suocera, dosa tutto ad occhio e  io non potevo permettermi, in tempo e disponibilità, di cimentarmi in un dosaggio da 60 uova.

Finalmente un giorno ho scoperto la ricetta della bisnonna Sofia e ho imparato a cucinarla, finchè un  bel giorno mio padre in buona fede osò dire che la mia pastiera era buona quasi come quella di mamma. Non l’avesse mai detto! Si sfiorò un incidente coniugale dopo circa 40 anni di matrimonio perché  lei si adombrò; da allora le lasciai volentieri il primato e ancor più volentieri la fatica.Di recente ho ripreso a prepararla con  quel piccolo segreto di mamma che la rende speciale.

Per noi tutti,  la pastiera rappresenta un po’ l’energia, la sostanza e la dolcezza di mia madre. 

Pastiera della bisnonna Sofia.

  Ingredienti:

 

500 g di grano

½  l. di latte

100 g. burro

3 cucchiai di zucchero

1 bastoncino di cannella

100 g di cedro candito tagliato a pezzetti

1 kg di zucchero

1 kg di ricotta

12 uova

buccia  di limone grattugiata

un bastoncino di cannella

essenza di fior d’arancio (una fialetta)

 

Mettere il grano in acqua tiepida e sale per almeno mezza giornata, dopo averlo pulito e sciacquato a lungo.Calarlo in un litro e mezzo d’acqua fredda e lasciarlo bollire (altrimenti comprare il grano già ammorbidito).Cuocere a fuoco lento il grano, già ammorbidito, nel latte, burro, cannella, zucchero e un po’ di sale finchè non si scuoce .

In due terrine battere separatamente i tuorli e gli albumi d’uovo, poi unirli.In un’altra terrina lavorare la ricotta con lo zucchero e versarvi poi il grano cotto nel latte.Aggiungere le uova sbattute, il cedro a pezzetti, il bastoncino di cannella e la fiala di fior d’arancio. Lasciare riposare un po’.

 

Ingredienti per la crema pasticcera

 

300g zucchero

2 uova intere + 4 rossi d’uovo

1 l di latte

120 gdi farina o amido

 un bastoncino di vaniglia ( in alternativa uso una bustina di vanillina)

 buccia grattugiata di limoni verdi .

 

In una pentola lavorare le uova con lo zucchero.Aggiungere un po’ alla volta la farina continuando a mescolare, poi il latte, la buccia di limone e la vaniglia e amalgamare.Cuocere a  fuoco basso mescolando di continuo con un cucchiaio di legno per evitare che la crema si attacchi e si formino grumi. Fare addensare la  crema .

Versare  la crema nell’impasto precedente, lasciar raffreddare  e infine unirvi anche mezzo bicchierino di whisky e qualche goccia di angostura ( variante mia e di mamma che dà un po’ di colore). Mescolare delicatamente. Togliere i bastoncini di cannella.

 Pastafrolla ( ma di solito uso quella surgelata).
 250-300 g di farina

125-150 g di 

zucchero a velo

150 g di burro o strutto

3 tuorli d’uovo

un bicchierino di rum

Mescolare  e lavorare la  farina,lo zucchero e il burro. Aggiungere i tuorli e il rum, comprimendo delicatamente.Foderare una teglia con la pasta frolla, versare l’impasto della pastiera.Preparare strisce di pasta frolla, larghe1-2 cm, da incrociare sull’impasto.

Cuocere a 180° C per un’ora e un quarto circa. Lasciare raffreddare la pastiera e infine cospargere di zucchero a velo.

La colomba

Il re longobardo Alboino, fu un guerriero valoroso ma spietatissimo. Si pensi che durante una serata  di bagordi nella reggia di Verona,  bevve vino in una coppa ottenuta dal cranio del padre di Rosmunda ( un tale  Cunimondo) e costrinse perfino la moglie a imitarlo pronunziando  la storica frase “Bevi Rosmunda dal teschio di tuo padre!” 

Firmò così la sua condanna a morte: infatti l’amata Rosmunda ordì una congiura per vendicarsi . Come? Legò al suo fodero la spada del marito, che all’arrivo dei congiurati cercò invano di difendersi con uno scranno…fu poi sepolto a Verona e allora, secondo me, nacque il detto  “chi è causa del suo mal, pianga se stesso”.L’orda dei barbari, guidati da Alboino, calò nell’Italia settentrionale nel 568 d.C.  In  fretta e furia i  longobardi, con famiglie e  mandrie di bestiame al seguito ( insomma una sorta di migrazione …ma all’ epoca  non c’era ancora Borghezio),  conquistarono prima Aquileia, Vicenza e Verona, poi nel 569 d. C.  Milano e Pavia. 

 

Si narra che la città di Milano dovesse  rendere al conquistatore un considerevole tributo: oro, gioielli, stoffe pregiate, oggetti dell’artigianato locale, cibi prelibati e dieci giovani fanciulle, scelte tra  le più belle, di cui il re potesse disporre a suo piacimento ( mica scemo!). A Pasqua però, dopo la consueta offerta dei preziosi doni, i milanesi offrirono al re un dolce nuovo, inventato poco tempo prima da un fornaio. Il dolce era simile al panettone ma con l’aggiunta di mandorle e granella di zucchero e aveva la forma di una colomba, simbolo cristiano della pace. Il re apprezzò molto quella squisitezza e proclamò che si sarebbe impegnato a rispettare e far rispettare la colomba come simbolo della pace e della Santa Pasqua. Poi impaziente attese la presentazione dell’ultimo dono: le dieci leggiadre giovinette che sarebbero state sacrificate, come  agnelli, alle sue voglie di lupo famelico e zozzone. Le ragazze dovettero sfilare dinanzi ai dignitari di corte, convenuti per l’occasione. Erano  state  ornate con vesti finissime e profumate con essenze , perché riuscissero gradite al re marpione. Alboino si avvicinò alla prima  fanciulla e, accarezzandole la guancia, le chiese come si chiamasse. La fanciulla, intuendo il suo destino ingrato dallo sguardo bramoso del re, prontamente rispose: “Colomba!”…e così fecero anche tutte le altre. Alboino, che nonostante tutto era un re, non potè  venir meno all’impegno poco prima proclamato. Non solo, ma liberò  le fanciulle dopo averle premiate con una cospicua dote. Quell’anno potè assaporare solo la colombella candita e zuccherata, che diventò il prelibato e tipico dolce  di Pasqua  prima a Milano poi in tutta Italia.

La lunga e incerta storia della pizza

E chi l’avrebbe mai detto che la pizza si ricollega alla guerra tra il bene e il male nell’antica mitologia greca? Quando  il dio delle tenebre Ade rapì la bella Persefone, figlia di Cerere, la dea afflitta  iniziò a cercarla e giunse in  incognito ad Eleusi. Qui il re Celeo e sua moglie Metanira piangevano per la triste sorte del loro  figlioletto Trittolemo che stava per morire perché privo del latte materno. Cerere donò  forza, vigore e immortalità  al piccolo per ricambiare dell’ospitalità ricevuta e, quando Metanira  le offrì una coppa di dolcissimo vino, chiese una bevanda fatta di farina e acqua aromatizzata con basilico.

 Pare che nel corso dei secoli questi ingredienti siano stati usati in dosi diverse e, con l’aggiunta di olio, abbiano poi dato origine alla plax , una sorta di focaccia.

Nell’antico Egitto si usava festeggiare il compleanno del faraone consumando una schiacciata condita con erbe aromatiche; nell’antica Grecia schiacciate e una sorta di focaccia di farina d’orzo, la cosiddetta maza, erano alimenti molto diffusi, come  nell’antica Roma focacce lievitate e non, tra le quali la placenta e l’offa impastata con acqua e farro. Proprio nelle botteghe di via dell’Abbondanza a Pompei furono scoperte scodelle per il cacio e la cuccuma per l’olio e addirittura una statuina del « placentario » conservata nel museo archeologico di Napoli. 

 In verità la pizza ha una lunga, complessa e incerta storia. La parola “pizza” risale al latino volgare di Gaeta nel 997 e di Penne nel 1200; nel ‘500 a Napoli si chiamava “ pizza” un pane schiacciato, dalla storpiatura della parola “pitta”. Tra il Cinquecento e il Seicento a Napoli si faceva una pizza soffice “alla mastunicola”, preparata con strutto, formaggio, basilico e pepe,  più tardi quella con i “cecenielli”, cioè bianchetti; mentre fu condita con il pomodoro forse a metà Settecento.

Più controverso ancora è l’arrivo dei bufali in Italia:per alcuni essi furono  importati  dall’Africa dai Romani e si ambientarono facilmente nella piana del Volturno e del Sele, per altri furono portati dai saraceni ma solo i longobardi li sfruttarono al meglio. Il pomodoro sbarcò a Napoli solo dopo la scoperta dell’America e presumibilmente nel 1550, in cucina anni dopo.

Sulle origini della pizza esistono diverse versioni, a volte un po’ fantasiose. In verità la pizza non ha un’unica paternità: si sa che è nata a Napoli dalle esperienze trasmesse di porta in porta, di vicolo in vicolo. Nel ‘700 la pizza veniva cotta in forni a legna per essere quindi venduta nelle strade e nei vicoli della città: un garzone di bottega, che portava in equilibrio sul capo una piccola stufa, consegnava a domicilio le pizze variamente condite, preannunciando il proprio arrivo con versi e richiami tipici. Tra il ‘700 e l’800 la pizza diventò un alimento largamente diffuso e apprezzato e quindi si affermò sempre più l’abitudine di gustarla presso i forni oltre che per strada o in casa. Nacquero quindi le pizzerie ove si cimentarono dinastie di pizzaioli. 

Prime notizie documentate sulle pizzerie risalgono alla fine del 1700: nel 1762 esisteva a Napoli, nella salita di santa Teresa degli Scalzi,  la pizzeria di “Ntuono Testa” frequentata anche dai  re Ferdinando I e Ferdinando II di Borbone.

Nel 1780 sorse nella salita S.Anna di Palazzo  la pizzeria “Pietro e Basta Così”, divenuta poi pizzeria Brandi , che ancora oggi è  una delle più famose pizzerie della città. Si trovava di fronte al palazzo Reale e da qui il cuoco Raffaele Esposito guardava spesso il tricolore con lo stemma sabaudo che sul balcone del palazzo informava della presenza dei reali. Il pizzaiolo, come l’intera città, si sentiva onorato della nascita del  piccolo Vittorio Emanuele III a Napoli ,voluta dal re Vittorio Emanuele II, e così decise di fare un dono alla regina Margherita  mettendo a frutto  la sua creatività gastronomica. Ispirato dai colori  del tricolore pensò di usare  il verde basilico, la bianca mozzarella e il rosso pomodoro  per condire  una pizza patriottica  alla quale diede il nome di  Margherita in onore della prima regina d’Italia.

Nel giugno del 1889 il pizzaiolo fu invitato alla reggia di Capodimonte perché preparasse le sue famose pizze alla regina che desiderava qualcosa di  nuovo. Una splendida occasione per fare conoscere la sua pizza margherita. Don Raffaele con la moglie Maria Giovanna Brandi si recò alla reggia su un carretto trainato da un asinello portando tutto il necessario per la sua nuova specialità. Preparò tre pizze: una bianca, con olio, formaggio e basilico, una con i cecenielle (pesciolini) e infine  una con mozzarella, pomodoro e basilico.

Tra lo stupore dei cuochi, inebriati dal profumo dei semplici e comuni ingredienti, la regina gradì molto la pizza tricolore, che in suo onore fu battezzata pizza margherita. Questa ottenne un certificato d’onore e ancor oggi la pizzeria Brandi in via Chiaia espone un documento firmato da Camillo Galli, capo dei servizi di tavola della reale casa dei Savoia, ove si attesta il merito della famosa pizza margherita.

 La più semplice e gustosa delle pizze, destinata a entrare nella tradizione culinaria di Napoli, nata per sopperire alla cronica fame del popolo napoletano conquistò ben presto una fama mondiale.

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Sulla storia della pasta

Il gâteau di patate

Il “gattò” di patate non è un gatto al forno- giammai!-, ma uno sformato di patate, tipico della  Campania e della Sicilia, il cui nome deriva dal francese gâteau che significa torta .

 

Quando nel 1768 Maria Carolina d’Austria, figlia di Maria Teresa Lorena – Asburgo, sposò  il re delle Due Sicilie Ferdinando I di Borbone, Napoli divenne luogo di confronto delle grandi cucine europee. L’energica regina introdusse nella capitale il gusto francese ricorrendo  a cuochi d’alto rango, detti “monsieurs” che i napoletani ben presto chiamarono “monzù'” ed i siciliani “monsù”. Di conseguenza  alcuni piatti tipici assunsero denominazioni francesi,  come il succitato gattò , ma anche  i crocchè (da croquettes) e il  ragù(da ragoût).

Soltanto nella seconda metà del XVIII secolo nel “Traitè sur la culture et les usages des pommes de terre, de la patate et du topinambour”  di Antoine Augustin Parmentier e risalente al 1789 si propose, e quindi poi si diffuse, il vario uso delle patate in cucina al posto dei cereali.

Ecco la mia ricetta del “gattò”.

 

Ingredienti

 

1,5 Kg di patate

2-3 bicchieri di latte

100 g di burro

4 cucchiai di parmigiano grattugiato

2 cucchiai di pecorino grattugiato

4 uova

250 g di mozzarella ben sgocciolata

pangrattato

sale

pepe

 Volendo si può rendere più sostanzioso questo piatto unico aggiungendo alla mozzarella anche pezzetti di mortadella, salame  o prosciutto cotto, sia congiuntamente, sia usando un solo tipo di salume. In alternativa si può sostituire la  mozzarella con  la provola affumicata ( o usare entrambe, half and half), e il latte con  200 ml di  panna da cucina .

 

 Preparazione

 Accendere il forno a 180°.

Lessare le patate e passarle nello schiacciapatate.

Aggiungere un po’ alla volta il latte, il burro, il sale, il pepe, i formaggi grattugiati, i tuorli d’uovo e infine gli albumi, separatamente  montati a neve.

Mescolare  bene per amalgamare tutti gli ingredienti. Aggiungere il latte; se il composto risulta troppo consistente aggiungerne ancora.

Imburrare una pirofila e spolverizzare con pangrattato.

Versare metà del composto formando un  primo strato, distribuire la  mozzarella tagliata a dadini e  ricoprire con un altro strato di composto.

Livellare con un coltello.  Con i rebbi di una forchetta tracciare delle linee parallele ( se volete 😉 , giusto per dare un po’ di movimento alla piatta superficie ) .

Cospargere con qualche fiocchetto di burro e un velo di pangrattato.

Infornare a 200°   finchè non si forma una crosta dorata.

Lasciarlo  rapprendere e intiepidire  per circa 15 minuti prima di servire in tavola.

Le frittelle di Carnevale alla veneziana

Carnevale è principalmente una festa pubblica, che si svolgeva e si svolge in comunità e  all’aperto ove  condividere nuove maschere  o l’abbandono di quelle più usuali.Come ogni festa prevede  dolci tradizionali, quasi sempre fritti e facili a farsi perché in origine si preparavano in strada. Essi richiamano un po’ le “frictilia”, dolci fritti nel grasso, conditi poi con miele e  offerti dai Romani al dio  Saturno .

Le frittelle di Carnevale imperversano in ogni regione d’ Italia, hanno diverso nome  e varia forma: sono  palline, a volte ripiene, come le castagnole, i tortelli , le fritole, oppure  a forma di ciambelle o più comunemente di nastro e ricordano un po’ pezzetti di stelle filanti, dette chiacchiere, bugie, frappe, fiocchi, stracci, cenci ecc…

 

Durante le  feste  rinascimentali del Carnevale veneziano, riservate ai nobili, non mancavano le frittelle alla veneziana , la cui ricetta ufficiale risale a Bartolomeo Scappi, cuoco del papa Pio V e autore di un corposo e famoso trattato di gastronomia del XVI secolo intitolato “Opera”. Solo nel Settecento le frittelle divennero dolce nazionale della Repubblica veneziana, grazie anche alla corporazione dei fritoleri che le cuocevano e  le vendevano , dopo averle esposte  su piatti di stagno o di peltro ben decorati  con a fianco  gli  immancabili ingredienti, cioè  i pinoli, l’uvetta, i pezzetti di cedro .

Frìtoe a la venessiana 

Ingredienti:

500g farina

2 bicchieri di latte

2 uova

130g uvetta

50g cedrini canditi

50g pinoli

100g zucchero

20g lievito di birra

½ bicchiere di grappa

 buccia grattugiata di un’arancia

1 bustina di vanillina

Sale q.b.

Zucchero a velo

Olio per frittura

 

Preparazione

Ammorbidire l’uvetta nella grappa per circa mezz’ora .

In una  ciotola fare un impasto morbido con la farina, un po’ di latte, le uova, lo zucchero; aggiungere poi un po’ di sale, il lievito sciolto nell’acqua tiepida, l’uvetta asciugata, i cedrini, i pinoli e la scorzetta di arancia e amalgamare bene  tutti gli ingredienti. Lasciare  lievitare il composto  per circa due ore in un luogo tiepido, lavorarlo  di nuovo, aggiungendo un po’ di latte, se poco fluido.  Friggerlo a cucchiaiate in abbondante olio bollente, facendo attenzione alla cottura. Asciugare bene  le frittelle su carta assorbente da cucina, spolverarle con zucchero a velo e servirle calde su un bel vassoio.

Il Carnevale a Napoli ovvero come le allegre usanze dai salotti sconfinarono nelle piazze.

La festa di Carnevale ha radici molto antiche, che si diramano un po’ ovunque, sia in Italia che all’estero.

A Napoli il 17 gennaio segnava l’ingresso del Carnevale e, in occasione della festa di Sant’Antonio Abate, si dava fuoco- pratica molto diffusa- a cataste di roba vecchia ( i cippi).Al più comune Carnevale, immaginato come un personaggio grasso e dedito a grandi abbuffate , si affiancava la “ Vecchia ‘o Carnevale”, dalle giovani e prorompenti curve, che trasportava a cavalcioni o sulla gobba un piccolo Pulcinella.

 Giovan Battista del Tufo racconta le tradizioni carnevalesche di Napoli in “Ritratto o modello delle grandezze, delle letizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli”. All’epoca degli aragonesi il Carnevale era sontuosamente festeggiato dai nobili che ambivano gareggiare in tornei e giostre e partecipare a  grandiosi ricevimenti, indossando sfarzosi costumi e fulgide armature. Nel XVI secolo il gaudente popolo partenopeo si appropriò di questa festa, inscenando sguaiati canti e rappresentazioni in maschera lungo Via Toledo e nel Largo di Palazzo (l’attuale piazza Plebiscito). La festa, sovvenzionata dai nobili che vi si intrufolavano volentieri, era organizzata dalle Corporazioni delle Arti e mestieri. Ben presto l’allegra usanza di mascherarsi  scavalcò barriere sociali e sconfinò nelle strade e nelle piazze. Memorabile fu la mascherata promossa dal principe di Tarsia che per le vie della città fece sfilare accanto ai paggi, riccamente vestiti, la corporazione dei pescivendoli ornati di gioielli, prestati dagli orefici in cambio di pesce fresco.

Nel 1656 si allestirono carri allegorici, addobbati anche con prodotti mangerecci. Usanza molto gradita che si perpetrò negli anni successivi, grazie alla generosità del re e delle Corporazioni. I carri – cuccagna, che accompagnavano le cavalcate e le quadriglie dei baroni, dei cavalieri e delle Corporazioni delle Arti, venivano poi presi d’assalto dal sempre affamato popolo napoletano. Le maschere al seguito dei carri si esibivano in cartelli carnevaleschi propri, cioè canzoni dialettali scritte su pezzi di carta o di stoffa che scherzosamente decantavano le attività e i  prodotti delle corporazioni e infine venivano lanciati al pubblico e al re.

 

Poiché a volte il saccheggio dei carri provocò gravissimi incidenti, nel 1746  re Carlo di Borbone stabilì che i carri –cuccagna, invece di attraversare la città, fossero allestiti nel largo di Palazzo e fossero presidiati da truppe armate fino all’inizio dei  festeggiamenti.  I carri furono poi sostituiti da  più stanziali  cuccagne, allestite in sei giorni da una schiera di architetti e artigiani e, addobbate con caciocavalli, prosciutti, pollastri, capretti, quarti di bue, agnelli e vino, venivano poi offerte alla plebe durante le quattro domeniche di Carnevale. Dopo pochi minuti dallo sparo del cannone che dava il via all’arrembaggio, delle cuccagne ovviamente non rimaneva nulla. Nel 1764 ci fu una grave carestia , e la cuccagna fu una tentazione troppo forte per il deperito popolo che quindi assalì i soldati e portò via ogni cosa prima dell’inizio dei festeggiamenti. Si rese necessario l’intervento della cavalleria  per riportare l’ordine dopo un inevitabile spargimento di sangue. Così la cuccagna fu sospesa fino al 1773; l’ultima festa si ebbe nel 1778  con saccheggi e tumulti a volte qualche ora, a volte giorni prima dell’inizio. L’anno dopo la Gazzetta Universale annunciò che l’eletto del popolo D. Ferdinando Lignola aveva deciso di abolire questa forma di divertimento rivelatasi troppo pericolosa. Il re pensò bene di devolvere per il matrimonio di  venti povere ragazze la somma destinata al Carnevale.

  Al tempo dei Borboni la festa era annunciata al popolo con il prolungato suono di grosse conchiglie, dette tofe. E via per le strade si riversavano festosi e baldanzosi cortei che danzavano al ritmo di strani e rumorosi strumenti  detti  ‘o putipù,  ‘o triccaballacche e  ‘o scetavaiasse ( quest’ultimo- come dice il nome-poteva addirittura svegliare le volgari vaiasse, che pare sprofondassero in un sonno ristoratore dopo estenuanti fatiche).Una folla chiassosa di uomini,donne e scugnizzi invadeva ogni luogo, circondava le carrozze e ossequiava con coriandoli e uova piene di farina  i malcapitati nobili o abati. Gli aristocratici quindi si limitavano a lanciare coriandoli e fiori da balconi addobbati a festa. I signori preferivano festeggiare partecipando al ballo e al pranzo nel teatro San Carlo, che veniva trasformato per l’occasione . In verità alcune dame e cavalieri approfittavano del Carnevale per travestirsi e mescolarsi al popolo e poter  compiere, indisturbati, lascive trasgressioni.

Nell’800 l’allegra fantasia carnevalesca straripò in idee e costruzioni originali. Basti ricordare  l’insolita e divertente cavalcata di struzzi, che annunciavano il passaggio dei carri allegorici in Via Toledo, oppure i carri con  il cavallo impennato, simbolo della città, con l’immancabile e sorridente popolana al balcone, o la cornucopia dell’Abbondanza o  la seducente sirena Partenope.

Pian piano i festeggiamenti del Carnevale si ridussero a feste rionali. Su un carro troneggiava un  grasso Carnevale , ornato di provoloni, salsicce e prosciutti . Al seguito sfilavano donne in lacrime per il suo cattivo stato di salute, che recitavano le infelici diagnosi dei medici dei tre rioni più popolari di Napoli ( il Mercato, il Pendino e il Porto)  alle quali si  contrapponevano un generale e buon augurio di lunga vita.

E vui ca l’avite visto st’anno/

lu puzzate vede’a ca a cient’anne

(e voi che l’avete visto quest’anno, possiate vedere da qui  a cent’anni).

Interveniva quindi O’ mast’ e festa ( il maestro della festa) che girovagava per le botteghe per  fare la questua in nome del Carnevale e  racimolare qualcosa come rimborso delle spese sostenute.

 Ormai  del Carnevale è rimasto ben poco, se non le mascherate perlopiù dei bambini, e qualche piatto tipico, come la lasagna e la pizza di Carnevale. Il sanguinaccio, gustosa crema di cioccolata fatta – ahimè- col sangue di maiale,  è stato vietato da recenti norme sanitarie e sostituito dal più comune cacao.

 

 

Pizza di Carnevale

La pizza di Carnevale appartiene alla tradizione gastronomica sorrentina e  si prepara nel periodo di Carnevale. È un piatto molto sostanzioso che prevede anche  l’uso di ricotta, ma preferisco non usarla e aggiungere più uova e uvetta per ottenere un sapore agrodolce.

 Ingredienti

 400 g di salsiccia

metà caciocavallo fresco, oppure 600 g di mozzarella o provola

5 uova

50 g di parmigiano grattugiato

uvetta passa

pasta sfoglia surgelata

  

Preparazione

 Ammorbidire una manciata di uvetta in una tazza d’acqua tiepida.Dopo aver tolto il budello, spezzettare e cuocere la salsiccia in padella ed infine lasciarla raffreddare. Tagliare a dadini il caciocavallo fresco, in alternativa la mozzarella ben sgocciolata o la provola. Sbattere a parte e a lungo le uova. In una terrina versare la salsiccia, aggiungere il formaggio, l’uvetta ben strizzata, le uova sbattute e il parmigiano. Mescolare  lentamente e lasciare riposare il composto ottenuto perché si amalgamino i sapori. Foderare con la pasta sfoglia una teglia leggermente  imburrata (uso quella di circa 30 cm di diametro), versarvi il ripieno livellando bene, coprire con altra pasta sfoglia. Punzecchiarne la superficie. Cuocere in forno a  180° C per circa un’ora. Lasciare intiepidire.

Si può servire come piatto unico o con  un contorno di  verdure cotte o grigliate.

 Conoscete altri piatti tipici? 

Sugo alla genovese

La ricetta della carne alla genovese appartiene alla  tradizione culinaria  napoletana,  anche se il nome fa pensare a Genova. Sulla denominazione  “genovese” esistono varie interpretazioni. Forse questo piatto fu  ideato da un cuoco di cognome Genovese, o più probabilmente deriva dall’usanza genovese di cucinare in pentole di terracotta un pezzo di carne che, separato dal condimento, veniva servito come secondo piatto, importata dai marinai della Superba  a Napoli nel  XVIII secolo. Sta di fatto che “la genovese” è citata da Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino  amante della cucina, nell’ opera  “Cucina teorico pratica” del 1837.

 Questa ricetta unisce i sapori della  ricca carne e delle più povere, ma gustose, cipolle in un’unica  salsa, utilizzata per condire sia la carne che la pasta. Ne esistono  più varianti, come vuole la fantasiosa creatività gastronomica. Riporto quella di mia mamma, che tra gli ingredienti mette una punta di peperoncino piccante ma non  il vino che, a suo dire,  indurisce la carne.  Le dosi sono per 6 persone e si possono ridurre o aumentare a seconda del numero dei commensali.

 

 Ingredienti:

 2 kg circa di cipolle bionde

2 carote

una costa di sedano

1 kg circa di sottopaletta (taglio di spalla) o girello

olio di oliva (1 dl circa)

2 cucchiai di salsa di pomodoro

un  peperoncino piccante

sale q.b.

500 g di pasta grossa e rigata ( penne rigate, tortiglioni, paccheri)

 Preparazione.

 Sbucciare e lavare le carote e  cipolle, cercando di non piangere troppo, e tritarle col sedano. Ammiro i  cuochi provetti che si cimentano con la mezzaluna ma, per facile lacrimazione ed incapacità, io ricorro ad un ipercollaudato, superveloce e più sicuro robot da cucina.

In una pentola dal fondo largo, versare l’olio di oliva per rosolare la carne a fuoco basso. Calare le verdure, aggiungendo due cucchiai di salsa di pomodoro, che dà colore, un po’ di sale e una punta di peperoncino piccante. Lasciare cuocere lentamente, aggiungendo due bicchieri di acqua per evitare che il sugo si attacchi sul fondo della pentola. Mescolare di tanto in tanto in modo che la carne  trasferisca il suo umore, il suo “sentimento” alla salsa, che deve risultare color ambra, né troppo liquida, né troppo densa ma  “azzeccosa” quanto basta per legarsi con la pasta grossa e rigata. Quando la carne è ben cotta, estrarla e lasciarla raffreddare. Volendo, frullare il sugo col mix per renderlo più cremoso. Tagliare la carne a fette sottili e rimetterla nel sugo per insaporirla. Cuocere la pasta, preferibilmente penne rigate, rigatoni, paccheri  da condire con “la genovese” e da servire con un po’ di parmigiano grattugiato. Come secondo piatto, la carne col sughetto alla genovese si accompagna bene con le patatine fritte.