I mostaccioli

mostaccioliA Napoli e in Campania i dolci tipici delle  feste natalizie sono tanti: le paste reali di San Gregorio Armeno, i Divino Amore, le sapienze, gli struffoli, le zeppole, i  roccocò, i mostaccioli ,i susamielli, i raffioli. Solo a leggere questa varietà si ingrassa, ma ne vale davvero la pena . I miei preferiti sono i mostaccioli che hanno forma di rombo e sono ricoperti di cioccolato, mentre la pasta interna è a base di miele e frutta candita.

I mostaccioli hanno una lunga origine. Catone ha lasciato la ricetta dei mostacea , un impasto di mosto e farina, grasso e formaggio, speziato da anice, cumino e alloro che veniva cotto su una piastra . Un piatto dei matrimoni romani che sembra molto lontano dai nostri squisiti mostaccioli. In verità dal 200 a. C. di Catone e i primi ricettari del tardo Medioevo si sa poco grazie a notizie frammentarie e a testi arabi. Per i Romani il mosto di Catone era, insieme al miele, un dolcificante, mentre lo zucchero fu portato poi dagli arabi. Nei ricettari del Rinascimento compaiono  farina, zucchero e spezie come  ingredienti degli antenati dei  mostaccioli napoletani  che forse derivano dai pani speziati del Medioevo e dai dolci romboidali di marzapane della  Provenza. Nel 1557 Cristoforo di Messimburgo parla di biscotti preparati con  miele, farina, zafferano, cedro candito, noce moscata e cinnamono. Questi servivano come addensante di sapori per una famosa torta al gusto di cantalupo di Bartolomeo Scappi, cuoco del papa Pio V. Nella sua variante di mostaccioli venivano utilizzate le uova, mentre nel ‘600 si aggiungono mandorle tostate e tritate e proprio alla fine del secolo Antonio Latini  descrive mostaccioli con cedri canditi, mandorle, spezie e una glassa di zucchero alla cannella. Alla fine del ‘700 arriva il cioccolato e nel 1778 Vincenzo Corrado parla di una glassa di cioccolato, quindi si pensa che i mostaccioli napoletani  nascano alla fine del ‘700. Esistevano anche una variante con cannella, chiodi di garofano e noce moscata, un’ altra con cedro e mandorle. Nel 1810 Michele Somma di Nola descrive un mostacciolo fatto con farina, zucchero, mandorle e coperto di cioccolato. Nel 1977 Jeanne Carola ha variato la ricetta  riducendo le spezie e introducendo buccia d’arancia e uno strato di marmellata di albicocche creando  mostaccioli un po’ più morbidi e …squisitissimi.

Come per la maggior parte dei dolci campani esistono tante ricette e varianti, vi propongo quella di Jeanne Carola Francesconi tratta da la Cucina Napoletana.

 

Ingredienti:mostaccioli 1

per la pasta:

500g farina

400g zucchero

100 g acqua

5g spezie in polvere

un pizzico di vaniglia

raschiatura di mezza arancia

0,5 g di carbonato di ammoniaca

 Per la ghiaccia:

300 g zucchero

140g cacao

una punta di cucchiaino di bicarbonato di sodio

50g marmellata di albicocche

2 cucchiai di zucchero

½ bicchiere di acqua

Mescolare farina e zucchero, gli aromi indicati, la raschiatura di buccia di arancia e aggiungere  l’acqua e il carbonato di ammoniaca amalgamando gli ingredienti in una pasta dura. Lasciare riposare per 15 minuti. Stendere la pasta (4 mm di altezza), dividerla in strisce larghe 10 cm da ritagliare in rombi. Riutilizzare i ritagli , impastando di nuovo e formando altri rombi. Spennellare con acqua fredda, metterli su una placca oleata e lasciare cuocere a media temperatura per 7-8 minuti circa rivoltandoli. Estrarre dal forno e lasciare raffreddare. Preparare la ghiaccia al cioccolato con 50 g di cacao, velare una faccia dei mostaccioli e lasciare asciugare. Sull’altra faccia spennellare un sottile strato di marmellata di albicocche, cotta con due cucchiai di zucchero e mezzo bicchiere d’acqua  per 4-5 minuti. Aggiungere alla ghiaccia altri 40g di cacao e stenderla sullo strato di marmellata. Lasciare asciugare i mostaccioli in forno aperto riscaldato per dieci minuti. 

 

Il presepe napoletano come porta rituale tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti

Benevento Giacomo -maestri in mostra

 

Il presepe è la rappresentazione tangibile e visibile della tradizione, non solo come devozione per il Salvatore , ma anche come espressione di tutti i simboli del codice onirico della tradizione (quali il ponte, il pozzo, la fontana, il mulino, il fiume, l’osteria)  vissuti da personaggi tipici di leggende, credenze, superstizioni popolari in una commistione di sacro e profano, magia e religione.                              

 

Tra i personaggi del presepe napoletano c’erano figure un po’ tetre, alcune demoniache, ritenute depositarie di messaggi terrificanti e perciò, probabilmente, pian piano sono scomparse ma sopravvivono nella costante presenza del pozzo, del ponte e dell’acqua.” (da “La storia infinita del presepe napoletano: i tetri personaggi del presepe, ormai scomparsi” in skipblog.it)

Tant’è che il presepe non è mai collocato in camera da letto e viene pungitopo (1)circondato da erbe magiche, che allontanano esseri maligni, quali la mortella, il muschio, il pungitopo, il rosmarino e il vepere (arbusto spinoso detto “restina” utilizzato nelle composizioni floreali) e a fine allestimento è irrorato da  incenso. Gesti rituali che sospendono il tempo quotidiano e fanno coesistere passato e presente, demoni e santi quasi in una  funzione  che esorcizza il male e gli spiriti della morte, perciò si potrà trovare un presepe   anche nelle cripte cimiteriali.

  Napoli è simbiosi di vita e di morte, entrambe celebrate e consacrate attraverso funzioni, devozioni e rituali  che confluiscono nel radicato culto dei morti e il presepe napoletano  è una porta rituale tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti.

natività -ulderico pinfildi

  La morte è rappresentata dalla farina, dal mulino, dagli orientali e dall’uomo sulla scala che raccoglie fichi. Nel presepe però compaiono spesso i questuante-maestri-in-mostramendicanti, i poveri, gli storpi, i ciechi che patiscono stenti, fame e privazioni nei quali prendono forma le anime “pezzentelle” (dal latino petere  che significa chiedere), anime che chiedono  ai vivi una preghiera e i vivi, in cambio di un favore, pregano per queste anime abbandonate del purgatorio che fanno da tramite tra la vita terrena e quella ultraterrena. Il limite tra la fede – tradizioni popolari e la superstizione è sottile, ma i devoti sentono più vicini a loro le anime pezzentelle di umili origini nelle quali ritrovano comuni miserie, sofferenze e solitudini. 

Anche i bambini, che da poco hanno lasciato il limbo prenatale  e sono  più vicini degli adulti al mondo infero di provenienza, sono da considerarsi creature bisognose. Le offerte di dolci e di doni alimentari ai poveri e ai bambini durante le feste natalizie in fondo sono come offerte funerarie e non  a caso i mendicanti chiedendo l’elemosina spesso dicono “refrisc ‘e ll’anime d’o priatorio oppure  facite bene ‘e ll’anime d’o priatorio”(fate bene all’anime del Purgatorio) .

maestri in mostra 1- 3a edizioneI questuanti compaiono nel presepe perché , secondo un’antica credenza napoletana, i morti vagano sulla terra dal 2 novembre al 6 gennaio, per poi tornare nell’oltretomba. Per questa ragione tanto tempo fa  in alcuni presepi  il 17 gennaio si toglievano  dalla grotta  i personaggi della Natività e vi si mettevano le figurine delle anime purganti.

Anche la costante presenza delle pecore implica un collegamento con gli inferi. Nella favola di Mamma Sirena ( vedi qui) il protagonista canta presso il  mare per  fare tornare la sorella prigioniera negli abissi. Le pecore che mangiano le perle che cadono dai capelli della fanciulla, acquistano il potere  di vaticinio riuscendo a svelare misteri e fare oracoli.  Anche nel cunto di Aniello e Anella del Basile, per effetto di un’acqua sorgiva, il protagonista diviene agnello e può  entrare in contatto col mondo sotterraneo  e acquistare capacità divinatorie. In fondo spesso nelle antiche  ninne nanne meridionali si parla di pecorelle sbranate da lupi, e la loro melodia è come quella delle lamentazioni funerarie proprio perché il sonno  indotto dalla ninna nanna è associato al sonno eterno della morte. Le pecore sono quindi o le anime dei morti dotate di poteri oracolari, o rappresentano bambini o defunti che rischiano di smarrirsi nelle tenebre degli inferi e infatti   antiche divinità dei defunti appaiono con bastoni pastorali e con la testa di cane, come custodi e guida delle anime. Secondo l’antica tradizione presepiale i due carabinieri o le sentinelle  non sarebbero altro che gli angeli carcerieri  che vigilano sulle  anime purganti rappresentate dalle prigioni.

Pietas  e culto  dei morti  sono radicati nella devozione popolare per le anime pezzentelle, praticata nel cimitero delle Fontanelle  nell’antico  quartiere della Sanità (qui) e negli ipogei , di Santa Maria delle anime del Purgatorio ad Arco in via dei Tribunali, di sant’Agostino alla Zecca  e di san Pietro ad Aram. La  schiera delle più famose anime  purganti che per lungo tempo hanno vissuto e vivono nelle credenze popolari – come ricorda il più grande esperto delle tradizioni e della cultura napoletana, cioè  Roberto De Simone -annovera  Stefania, Lucia, monache e monaci, soldati , marinai e carabinieri,  coppie di  giovani  (Mario e Renato in sant’Agostino alla Zecca, Alfonsino e Ninuccio in Santa Maria delle Anime del Purgatorio), e ancora, nel cimitero delle Fontanelle, i due sposi  dipinti nelle catacombe di San Gaudioso, Concetta la lavandaia, Zi’ Pascale ‘o lucandiere, i  quattro bambini uccisi Peppeniello, Rituccia, Antonietta e Papiluccio, il dottor Giordano e D’Ambrosio, Pascale o’ marucchino, Luciella a’ zingara, mendicanti ciechi, la  monaca  uccisa, Zì Taniello ‘o farenaro, Zì Giustina ‘a pustiera, o’ Capitano e infine  nell’ipogeo di San Pietro ad Aram la lavandaia Candida, la monaca Lucrezia, la zingara Lucia, il pescatore dai capelli rossi, marinai e soldati, i due carabinieri i giovani Marettiello e Gennariniello, i due giudici sconosciuti e la famosa – aprite bene gli occhi- Maria ‘a purpettara (Maria che cucina le polpette), un’ostessa che puniva i mariti infedeli apparendo in  sogno con polpette avvelenate che causavano dolori simili alle doglie.

anima pezzentella presepeTante anime pezzentelle, a volte lambite da fiammelle,  che sembrano darsi appuntamento   nel presepe “In conclusione, dalla frequente ricorrenza di medesimi personaggi che compaiono sia come figurine presepiali sia come immagini di defunti ritualizzati, si può individuare la presenza di un unico tessuto religioso di tipo animistico, composto da elementi archetipali che sembrerebbero riferirsi ad antiche divinità infere” (da “ il Presepe popolare napoletano” di Roberto De Simone)

Nel presepe napoletano si riproduce  anche questo mondo sommerso con il quale,  tra storia e leggende, fede e superstizione, i napoletani  si conciliano sia  per esorcizzare la paura della morte, sia  per accogliere  le anime purganti che lasciano intravedere non solo il destino dell’umanità  di sempre, ma anche una speranza di redenzione dei vivi e dei morti per scattare in avanti nella vita terrena e ultraterrena.

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Personaggi del presepe: gli angeli e Benino

Avete mai notato nei presepi quelli che Rainer Maria Rilke definì “i quasi mortali uccelli dell’anima?” E di fatto svolazzano in gruppo, a volte vegliano solitari. Sono gli angeli, sospesi in una sorta di vortice celeste sulla Natività.

angelo

 

 

angelo gloria del padre La tradizione detta uno schema canonico sia per la posizione che per le vesti di questi personaggi del presepe. L’angelo centrale, che reca il cartiglio “Gloria in excelsis Deo” è “la Gloria del Padre” e indossa una veste giallo- dorata. Alla sua destra si colloca  l’angelo  di bianco vestito con l’incensiere in mano detto “la gloria del Figlio”. Completa la triade “la gloria dello Spirito Santo” , l’angelo di rosso vestito che suona la tromba e  rappresenta il soffio divino. A questi se ne possono aggiungere altri due con  le vesti azzurra o verde: uno con il tamburo canta l’osanna del popolo e per par condicio  l’altro, con i piatti metallici,  si cimenta nell’ osanna del re e del papa, cioè del potere politico e religioso.

Agli angeli dell’ annunzio  si collega Benino, il pastorello dormiente che non manca mai nel presepe napoletano e lo sogna.  Di regola è sopra  il gruppo della Natività: “simboleggia ilpresepe marcello aversa cammino esoterico verso la grotta, il percorso in discesa attraverso il sogno, il viaggio compiuto da un giovinetto, da una guida iniziatica, da un bambino. In base a questa raffigurazione il senso del Natale è comprensibile solo mediante un viaggio onirico effettuato con la guida di un animo visionario che sprofonda nel mondo della conoscenza. da “Il presepe popolare napoletano” di Roberto De Simone)

Alla fine del viaggio, superate le paure e  le varie tappe, questo personaggio può identificarsi nel pastore della meraviglia, presso la Natività, che accecato dalla rivelazione, non trova parole per esprimerla e si abbandona a un muto senso di stupore. 

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I Re Magi

 

 

I Re Magi

SAM_5269Durante le feste di Natale mi piace  scovare presepi nelle chiese, nelle mostre, nelle botteghe artigianali e ogni anno scopro qualcosa di nuovo nella storia infinita del presepe e dei suoi personaggi. L’arte presepiale ha un qualcosa di immortale nel suo simbolismo sia  per chi crede, sia per chi non crede. 

Quest’anno vi racconto dei  Re Magi, personaggi del presepe che incutono quasi soggezione con la loro imponente e sfarzosa regalità.

 Nella tradizione presepiale della mia famiglia i re Magi – non ricordo bene se a cavallo di cammelli o dromedari –  avevano il privilegio di essere spostati. In verità anche qualche altro personaggio veniva misteriosamente spostato, anzi abbattuto, dalla gatta che durante raid notturni cercava di accaparrarsi i rametti, faticosamente posizionati come alberi.Ogni giorno i tre Re Magi  facevano un solenne, piccolo passo per avvicinarsi  alla meta, cioè al Bambino Gesù. A volte precipitavano, perchè procedere su  montagne innevate a cavallo di dromedari o cammelli non era facile. Ma  tanto armeggiavo  sui rilievi di carta che li assestavo in un piccolo spiazzo, magari tra greggi abbarbicate, o nei pressi di una cascata. Il loro percorso era degno di un  teletrasporto impazzito: un giorno erano in alto a ponente, l’indomani  in alto a levante e man mano scendevano a valle. Alla vigilia dell’Epifania, finalmente potevano scendere dal dorso dei cammelli- dromedari e sgranchirsi le gambe. Venivano sostituiti dalle tre statuine dei Magi in adorazione, non più nomadi  ma stanziali. Questi stavano in contemplazione della radiosa Natività fino a quando il presepe non veniva smantellato. Due Magi sempre in piedi e uno sempre in ginocchio. Sicuramente non era facile essere Re Mago, riuscire a rimanere impassibilmente fermo, nonostante il turbante, il mantello e lo scrigno proteso come offerta, e a  non farsi distrarre dai vocianti pastori e dai  celestiali cori di  angeli svolazzanti che facevano a gara a chi allelujava  meglio.

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 Ma chi erano i Magi?  I Magoi erano membri di una casta sacerdotale persiana, dediti allo studio del cielo e delle stelle, discepoli di Zoroastro e custodi della sua dottrina.

“Secondo il Vangelo di Matteo, i Re Magi  partirono dall’ oriente verso occidente seguendo una Stella che annunciava la nascita del Re dei Giudei; nel “Vangelo arabo siriaco dell’Infanzia” la predizione della venuta del Messia è attribuita a Zarathustra. Quando nacque Gesù, la congiunzione di Giove e Saturno, (che avviene ogni 854 anni) e non una stella, fece sì che fosse presente una luminosità molto intensa per effetto della diffrazione. É questa la luce che porta i Re Magi a ritenere che sia nato il  Soccorritore e li conduce fino a Betlemme.

L’idea del tempo che ciclicamente si rinnova, è propria  del mazdeismo (religione della Persia preislamica),come l’attesa di un “Soccorritore divino”; in tal senso il mazdeismo si collega all’attesa messianica.” ( da  “I Re Magi tra verità e leggenda di Bruno Perchiazzi, segretario  dell’  Associazione Italiana Amici del Presepe- sezione Napoli.).

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Nel presepe i Magi sono tre e per alcuni rappresentano le tre età dell’uomo ( gioventù, maturità e vecchiaia), per altri i  popoli o i continenti  del mondo conosciuto (Europa, Asia, Africa).

I loro doni fanno riferimento alla natura umana e divina di Gesù.Gaspare è  il mago più giovane, il cui nome significa “Puro”. Dona l’incenso, anticamente usato nelle corti orientali, che rappresenta il riconoscimento e l’adorazione della natura divina di Gesù.Melchiorre, il più anziano (il cui nome significa “Luce”), porta l’oro, dono prezioso riservato ai Re. Il moro Baldassarre, il cui nome significa “ Padrone del Tempo”, dona la mirra, che era utilizzata per imbalsamare corpi e fa quindi riferimento alla natura umana del Cristo.I loro cavalli, rispettivamente bianco,rosso e nero, nelle favole campane simboleggiano l’iter del sole cioè bianco per l’aurora, rosso per il mezzogiorno, e nero per la sera e la notte. “I Re Magi, dunque,rappresentano il viaggio notturno dell’astro, che termina lì dove si congiunge con la nascita del nuovo sole bambino.D’altra parte, in senso solare va interpretata la tradizione cristiana secondo la quale essi si mossero da oriente, che è il punto di partenza del sole” ( da “Il presepe popolare napoletano” Di Roberto De Simone)

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Se i Magi rappresentavano il sole, invece la Re Magia , a volte presente nel loro corteo, rappresentava la luna. Trasportata   dagli schiavi su una portantina ,  pare fosse la fidanzata del Re moro ( altro simbolo della notte) ed era costantemente presente nel presepe del ‘700 come esotica Regina mora.

Si pensa che i Magi dovessero essere più di tre. Una leggenda narra di un quarto re, di nome Altabar che arrivò a Betlemme in ritardo e senza doni. In verità confessò che aveva con sé tre perle preziose per Gesù, ma le aveva donate una alla volta durante il viaggio, prima per fare curare un vecchio mendicante ammalato, poi per liberare una giovane donna dalle violenze di alcuni soldati ed infine per liberare un bambino che stava per essere ucciso da un soldato di Erode. A quelle parole Gesù Bambino si volse sorridente verso Altabar e Maria lo pose  tra le sue mani vuote.

 

 Interessante è la storia delle spoglie dei Re Magi, portate da Sant’Elena a Costantinopoli nel 326 , poi – così si narra- a Milano dal vescovo Eustorgio ed infine a Colonia ad opera di Federico Barbarossa che nel 1162 aveva distrutto la città lombarda. Ai milanesi rimase solo il sarcofago di pietra nella Cappella dei Magi della basilica romanica di  Sant’Eustorgio, perchè per lungo tempo non riuscirono a riavere le spoglie. Solo nel 1904 l’arcivescovo Fischer offrì alcuni resti dei Magi a Milano e dal 1962  riprese la tradizionale  processione del 6 gennaio che da San Lorenzo va fino a  Sant’Eustorgio.

 

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Vischiosi auguri di Buon Anno

 

Il vischio è una pianta particolare, alla quale sin dall’antichità si attribuivano magici poteri .vischio Questo sempreverde semiparassita nasce su rami e tronchi di altre piante, qualora le sue  bacche vi cadano dentro, e cresce volentieri su alberi da frutto ma anche su querce, pioppi, tigli e olmi . Secondo la tradizione il vischio, appeso alla porta di casa, è il simbolo di un potente mix beneaugurante di fecondità, longevità e fortuna, di cui si trova traccia in numerose leggende.

 Una di queste narra del dio Baldr, figlio di Odino e della dea Frigg, un giovane forte, buono e benvoluto da tutti, ma angosciato da presagi di morte. Sua madre fece quindi giurare al popolo, agli animali, alle piante, ai minerali e agli  elementi di non nuocere a Baldr. Da allora gli dei si divertirono a lanciargli per gioco oggetti e frecce per dimostrarne l’invulnerabilità. Loki, dio del disordine mosso da invidia, si trasformò in ancella di Frigg e con l’inganno seppe  che la dea non aveva fatto giurare il giovane ed inoffensivo vischio. Loki si procurò quindi  un ramo di vischio, ne fece una freccia , la diede a Hoder, fratello cieco di Baldr, e guidò la sua mano per consentirgli di partecipare al gioco e uccidere, a sua insaputa,  Baldr. Frigg pianse amaramente la morte del figlio e le sue lacrime, a contatto col vischio, si trasformarono in perle . Secondo una versione della leggenda, l’amore suo, di tutte le creature e degli dei, escluso il perfido Loki che dopo varie peripezie  fu smascherato,  riportò in vita Baldr.  La dea Frigg  dichiarò sacro il vischio e di qui l’auspicio di  buona fortuna per coloro che, passando sotto i suoi rami, ricordano con un bacio il ritorno alla vita del dio nordico, il trionfo del Bene sul Male.

druidiAnche per i celti il vischio, che non aveva bisogno di radici in terra, era una pianta sacra . Se cresceva su una quercia poteva dare forza e vigore, rendere  fertili e guarire da ogni male. Nel sesto giorno dopo il solstizio d’inverno solo i druidi, di bianco vestiti , potevano tagliarlo con un falcetto d’oro per adagiarlo su teli bianchi,  dopo avere fatto un sacrificio ai piedi dell’albero. Anche Plinio il Vecchio, naturalista romano del I secolo d. C, in Naturalis Historia  afferma: ”…i druidi non avevano nulla di più sacro del vischio e dell’albero che lo porta, purchè sia una quercia, e che tutto ciò che spunta su quell’albero  è  inviato dal cielo…” 

Oggi la tradizione lo privilegia come decorazione natalizia e festoso respingente di  fulmini e di mala sorte.

Finalmente  l’appiccicoso 2013 sta per finire, mi invischio volentieri  in una foresta di vischiosi auguri per un Felice  Anno Nuovo.

 Buona fine e buon inizio a tutti ! :)

 

La notte di San Giovanni

notte_san_giovanni

 

La notte di San Giovanni  è nota per gli antichi riti propiziatori di inizio stagione che si svolgevano  in occasione del solstizio d’estate al quale veniva attribuiva il connubio di sole e luna e il conseguente riversamento sulla terra di grandi energie benefiche. Nella stessa  notte  però  le streghe (in napoletano dette anche janare da ianua- porta-  perché passavano invisibilmente sotto le porte oppure da Diana) confluivano a Benevento  da ogni parte per il grande Sabba. Le forze del bene e del male festeggiavano rispettivamente la  luce e l’ ombra  del ciclo della vita,  intersecandosi in antiche credenze popolari e tradizioni della civiltà contadina.

 La  rugiada di questa magica notte difendeva la persona da ogni male e corruzione e le  erbe bagnate dalla rugiada potenziavano le loro proprietà terapeutiche e magiche. Infatti veniva  preparata l’acqua di San Giovanni utilizzando  foglie e fiori di lavanda, iperico mentuccia, ruta e rosmarino che, messi  in un catino pieno d’acqua, erano lasciati all’aperto per tutta la notte. Il giorno dopo le  donne si lavavano con quest’acqua per diventare più belle e preservarsi dalle malattie. Oltre all’acqua si ricorreva  al fuoco, accendendo falò propiziatori e purificatori, per ingraziarsi la benevolenza del sole affinchè rallentasse idealmente  la discesa e continuasse ad irrorare la terra con la sua energia o per allontanare malasorte, avversità, malefici di spiriti maligni e streghe vaganti in cerca di erbe ( spesso si bruciava  un fantoccio di paglia o si facevano  rotolare ruote di fascine lungo i pendii). Nella mattina del 24 giugno i contadini, che possedevano  alberi di noce, intrecciavano spighe di orzo e avena da legare ai tronchi degli alberi per poter garantirsi frutti buoni e  abbondanti. Invece   24 spighe di grano, conservate per tutto l’anno, fungevano   da amuleto contro le avversità.

 Tutt’oggi a San Giovanni si prepara il nocino con noci,  racchiuse nel mallo verde, messe a macerare nell’alcool per circa un mese e mezzo. Poi si strizzano i frutti, si cambia e si zucchera l’alcool, che viene travasato in bottiglioni esposti all’aperto, dopo essere stato filtrato più volte con garze sottili. 

 In  questa notte si svolgevano  anche forme di divinazione. Per esempio dall’albume d’uovo, coperto d’acqua ed esposto alla rugiada della notte, si traevano auspici sul futuro, anche sentimentale, o dalla forma che assumeva il  piombo fuso e versato nell’acqua, si facevano  previsioni  sul mestiere del futuro marito. E altri riti praticati nella “notte che  parla d’Amore”sono splendidamente descritti dalla Placida Signora del web.

 Una curiosità: a San Giovanni molti mangiano le lumache, per preservarsi  dalla sfortuna e eventuali tradimenti amorosi. La lumaca è considerata un simbolo lunare  di rigenerazione periodica, rappresentata dalle  sue antenne  che si distendono e si ritirano come la luna che appare e scompare nel suo ciclo.

 Ma preferisco ricordare la notte di San Giovanni con  i versi  tratti da Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare

 La tua virtù è la mia sicurezza. 

E allora non è notte se ti guardo in volto,
e perciò non mi par di andar nel buio,
e nel bosco non manco compagnia.
Perchè per me tu sei l’intero mondo.
E come posso dire di esser sola se tutto il mondo è qui che mi contempla?

 

Intanto auguri a tutti i Giovanni e Giovanne e attenzione alle streghe!  😉

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Il nocillo (nocino)

Le erbe di San Giovanni: l’iperico

Le erbe di San Giovanni: l’iperico

 

giardino dei semplici

Nella magica notte di San Giovanni  tutto è possibile, reale ed immaginario, spazio e tempo  si confondono e le erbe assumono miracolose proprietà poiché il sodalizio tra il Sole  e la Luna, rispettivamente fuoco ed acqua, fa  sì che  la rugiada notturna  ne accresca le proprietà curative. In  passato gli esperti  conoscitori di erbe e di fiori  uscivano per raccoglierle durante la notte di mezza estate:  i monaci , antichi erboristi, selezionavano le “erbe  dei semplici” per preparare infusi, decotti, unguenti con i quali potevano poi curare i bisognosi;  le streghe e gli stregoni  si riunivano da ogni dove, accendevano grandi falò nei quali bruciavano le erbe, i cui resti servivano per preparare pozioni ed intrugli,  e nell’inquieta ed inquietante  notte del Sabba  si  mettevano in contatto con le forze oscure abbandonandosi  a  danze lascive.

  Le forze del bene e del male  festeggiavano la luce e l’ombra del ciclo della vita, intersecandosi in antiche credenze popolari e tradizioni della civiltà contadina, e  sacro e profano si intrecciavano in riti propiziatori. Infatti sul sagrato delle chiese, dedicate al santo, si svolgeva la fiera delle erbe dette appunto di San Giovanni  quali  iperico, lavanda, detta  spiga di San Giovanni, verbena, menta, nota come  erba santa, rosmarino. Tra queste  un particolare primato spettava all’iperico, noto come scacciadiavoli e, per par condicio, scacciadiavolesse.

 

La pianta fu dedicata a San Giovanni  Battista  in quanto si credeva che l’olio rosso, ipericoprodotto dalle foglie e dai fiori (ipericina),  fosse il sangue del santo che, secondo una  leggenda, fermò diaboliche  legioni al galoppo cosicchè l’assatanato Satana perforò la pianta. Di questa vendetta  l’iperico porta traccia nei  piccoli fori  presenti sulle foglie.

 Durante i riti propiziatori  del solstizio d’estate  anche i contadini danzavano intorno ai falò, indossando corone di iperico e lanciandone  rametti con la speranza di ottenere  un buon raccolto , un sano bestiame  ed una casa integra, in quanto pare che l’iperico allontanasse non solo demoni , malefici e sterilità  ma anche i fulmini.

 

Alcuni indossavano un mazzetto di fiori di iperico sotto le vesti  per   sbirciare  di nascosto gli  esseri demoniaci che comparivano nel buio, o per avere buona sorte durante i tornei  tra  cavalieri o ancora , durante la Grande Guerra, per  allontanare le malvagie intenzioni di violenza  a discapito delle donne. Pare che questa pianta fosse governata da Marte  e quindi   potesse sconfiggere  le insidiose possessioni diaboliche e curare i mali dell’anima come  l’isteria, la tristezza , la malinconia, l’insonnia, l’ansia.

 Zompettando tra usi e costumi, erbe e falò  aspettiamo la  magica notte di mezza estate.

 

Il nocillo (nocino)

nocillo-di-campaniaSin dall’antichità in Campania si producevano noci, come risulta documentato da resti carbonizzati di noce, ritrovati nella Casa di Argo ad Ercolano, e dai dipinti della Villa dei Misteri a Pompei . Esse sono un prodotto tipico di Sorrento: a tutt’oggi in molti giardini o aranceti spicca un maestoso noce, oltre a una pianta di alloro. In passato si credeva che tagliarlo portasse male, sia perchè i frutti erano considerati una  riserva alimentare preziosa per l’inverno, sia perchè l’albero assumeva un significato propiziatorio (la noce è simbolo di fecondità) o inerente l’ occulto in quanto sui suoi rami si appollaiavano le streghe.

 Ancor oggi nella penisola sorrentina è diffusa l’usanza di preparare il nocino in casa nella notte di San Giovanni (24 giugno) o a fine giugno, quando le noci sono ancora tenere, acerbe, poco legnose e quindi aromatizzano l’ alcool. Questo liquore, dal sapore intenso e corposo, può essere centellinato a fine pasto come digestivo oppure se ne può versare qualche goccia fredda anche sul gelato alla crema o alla panna.

 

 Ingredienti:

  •  1 litro di alcool

  • 13 noci verdi col mallo

  • 13 chicchi di caffè tostato

  • 13 chicchi di caffè crudo

  • un bastoncino di cannella

  • 3-4 chiodi di garofano

  • una noce moscata

Pulire bene le noci col mallo e tagliarle in quarti. Schiacciare un po’ la noce moscata , servendosi di un martello, se necessario . Mettere tutti gli ingredienti in un barattolo di vetro, con una larga apertura, e chiudere bene con un coperchio. Lasciarlo all’ aperto per 40 giorni e 40 notti, agitandolo un po’ di tanto in tanto. Si possono trovare varianti sulla conservazione del nocino. Alcuni dicono che debba macerare al buio. Per altri il nocino deve essere esposto all’ aperto per catturare i raggi del sole di giorno e il chiarore  lunare di notte, come diceva mia nonna.

Al termine dei 40 giorni filtrare più volte con garze sottili di lino finchè non ci sono più residui degli ingredienti. In alternativa al lino si può utilizzare un colino con il fondo a retina sottile, o foderato con un po’ di carta assorbente da cucina.

 

 Ingredienti per lo  sciroppo

  • mezzo litro di acqua

  • 300g di zucchero

  • buccia sottile di un limone verde

 Per addolcire e diluire il nocino, preparare lo sciroppo con mezzo litro di acqua , 300 grammi di zucchero e la buccia sottile di un limone verde. Versare gli ingredienti in un pentolino sul fuoco, mescolare per fare sciogliere lo zucchero nell’acqua e spegnere non appena inizia a bollire. Aggiungere lo sciroppo freddo al nocino. Imbottigliare e lasciar riposare per altri 40 giorni prima di gustarlo.

Sono Portentosi Questi Romani (2766 ° Natale di Roma)

Oggi Roma ha festeggiato il suo 2766° anno dalla fondazione che si fa risalire al 21 aprile del 753 a. C , quando  Romolo tracciò il solco del perimetro della città sulle pendici del Palatino. Lo storico Marco Terenzio  Varrone e l’astrologo Lucio Taruzio furono i primi a definire approssimativamente  le origini della città, che però in seguito si fecero coincidere con i festeggiamenti dei Palilia del 21 aprile. Tra storia e leggenda per secoli si è festeggiato il Natale di Roma, caduto in disuso dopo il crollo dell’Impero , recuperato poi dalla breve  Repubblica Romana del Risorgimento e dal fascismo. 

Anche quest’anno  una serie di mostre, visite guidate, manifestazioni e spettacoli serali  sul Natale di Roma  hanno voluto rendere omaggio alla Città eterna. Non potevo perdermi il corteo di ben 2000 figuranti di oltre sessanta  associazioni,  provenienti da 12 paesi europei, che  hanno rievocato e fatto rivivere i fasti della Roma imperiale.  Centurioni  e soldati di ogni parte del vasto Impero Romano, matrone, cortigiane, danzatrici, vestali, la dea Roma, sacerdoti, senatori, pretoriani, gladiatori si sono riuniti nel Circo Massimo per attraversare la città passando davanti   al Colosseo. 

 

L’anno scorso è stato interessante , a mio parere, lo scambio di doni tra  il Gruppo storico romano e  il sindaco Alemanno: il gruppo ricevette  una medaglia del Natale di Roma, dedicata  alla battaglia di Ponte Milvio di circa 1700 anni fa, e offrì al  sindaco ampolle piene d’acqua dei fiumi e dei mari d’ Italia e di  terra dei luoghi più significativi della penisola.  Quest’anno ha ricevuto una medaglia dal Presidente della Repubblica per la meritevole rievocazione storica  che, attraverso una fedele riproduzione  di  usi e costumi,   coinvolge gente di varia età e provenienza per  celebrare  Roma , caput mundi.  Oggi ci basta riconoscerla capitale d’Italia e centro delle istituzioni repubblicane . 😉

 

Il significato e la tradizione delle uova di Pasqua

In tutto il mondo, ormai, l’uovo è il simbolo della Pasqua. Da sempre le uova sono il simbolo della vita che nasce, ma anche del mistero, quasi della sacralità.

In alcune credenze pagane il Cielo e la Terra venivano concepiti come due metà dello stesso uovo. Greci, Cinesi e Persiani usavano scambiarsi uova di gallina come doni per le feste primaverili, così come nell’antico Egitto le uova decorate erano regalate all’equinozio di primavera.

Con l’avvento del Cristianesimo, l’uovo si legò all’immagine della rinascita non solo della natura ma dell’uomo stesso, e di Cristo. Nel Medioevo le uova venivano regalate ai bambini e alla servitù per festeggiare la Resurrezione. Ancora oggi, in Germania e in Francia, vengono nascoste le uova nei giardini per poi invitare i bambini a trovarle. Nei Paesi Scandinavi le uova sono oggetto di giochi di abilità e assumono valenze particolari come, per esempio, andare in chiesa con in tasca un uovo nato il Giovedì Santo aiuterebbe addirittura  a smascherare le streghe.

 In occasione della ricorrenza dei morti, celebrata il venerdì successivo al giorno di Pasqua, gli ortodossi usano ancora colorare le uova di rosso e metterle sopra le tombe, quale augurio per la vita ultraterrena. Pare che questa tradizione sia legata a una leggenda su Maria. Si narra che la Madonna facesse giocare Gesù Bambino con delle uova colorate e che il giorno di Pasqua, tornata sul sepolcro del Figlio, vi trovasse alcune uova rosse sul ciglio. Si racconta, anche, che Maria Maddalena si presentasse all’imperatore Tiberio per regalargli un uovo dal guscio rosso, testimonianza della Resurrezione di Gesù e che Maria, Madre del Cristo, portasse in omaggio a Ponzio Pilato un cesto dorato pieno di uova per implorare la liberazione del Figlio.

 Già nei libri contabili di Edoardo I di Inghilterra si fa menzione di una spesa di 18 p. per 450 uova rivestite d’oro e decorate, da donare come regalo di Pasqua. Tra le più celebri uova sono sicuramente quelle realizzate da Peter Carl Fabergé.

Nel 1885 il   maestro orafo  russo, su commissione dello zar Alessandro III di Russia , realizzò un uovo di platino contenente preziosissime sorprese per la zarina Maria Fyodorovna. Nominato gioielliere di corte,  Fabergé divenne  famoso per la sfarzosa e originale  produzione di uova pasquali ma anche per l’idea della sorpresa interna all’uovo. 

Oggi permane la tradizione pasquale  di donare uova: vere ,come gallina le ha fatte J , oppure sode , dipinte o di cioccolata. Sono l’augurio di vita rinnovata, un dolce auspicio con  piacevoli sorprese, ma soprattutto un segno di amicizia e amore.

Auguri di  Buona Pasqua !  :)

 

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