Lo zero scappato

Dopo lunghi anni di asilo, per cui nel cestino mia madre metteva la gamella con le polpette o la frittatina , Pri  Pri ( una specie di coniglietto spennacchiato che in origine doveva essere di peluche) e qualche pentolina giocattolo che immancabilmente le bambine più grandi mi fregavano, iniziai la prima elementare in una scuola parificata a cinque anni  con quasi un anno di  anticipo rispetto ai miei compagni di avventure scolastiche.

Ero più piccola di età e di statura, per cui il primo giorno di scuola notai che il  mio banco era in prima fila, anzi doveva essere quello della prima fila. La maestra però accontentò una mia compagna che fece un capriccio snervante e occupò indebitamente la mia postazione. Finii all’ultimo banco. Il problema era che da laggiù non vedevo bene e probabilmente non seguii le indicazioni della maestra, che era una suora A un certo punto si avvicinò e mi diede un quaderno con un esercizio apparentemente facile. Dovevo unire i puntini che tracciavano una A in stampatello maiuscolo…ma non sapevo che dovevo unirli tracciando una linea unica partendo dal primo puntino in basso  a sinistra proseguendo verso l’alto per poi discendere, come su uno scivolo, verso l’ultimo puntino in basso  a destra formando una linea spezzata .E io, secondo la mia logica infantile, unii i puntini con una miriade di linee che s’intersecavano a più non posso, intessendo una bella ragnatela di linee traballanti e storte. La maestra ripassò per controllare il compito e il mio capolavoro artistico fu definito sgorbio. Prima mi beccai una sgridata umiliante e, secondo  me, immeritata per lo sforzo che avevo fatto e la convinzione di avere svolto bene il compito. Poi sul quaderno comparve un misterioso segno circolare, sbarrato da una linea obliqua. Dalla veemenza con cui era stato inciso e dagli strepiti della suora, intuii che aveva un brutto significato. Era uno Zero Spaccato. Io guardavo quel nuovo sgorbio affascinante: lo Zero spaccato, sbarrato, tagliato che,  nel resoconto che diedi ai miei genitori , chiamai Zero scappato.  Ma perché sbarravano gli zero? Per timore che vi anteponessero un 1 e si trasformassero in 10?  Per sottolineare che era irrimediabilmente zero…un insieme vuoto, un annullamento senza speranza di rimedio? Per un bambino che non conosce il significato dei numeri che poteva significare? Infatti io non conoscevo lo zero scappato e mi chiedevo perché mai fosse scappato sul mio quaderno. Capii solo che il mio compito era sbagliato. Così nel tentativo di rimediare al disastro, bagnai la gomma con la saliva e … zac zac , a forza di sfregare su quello sgorbio di A  scritto con la penna (perché usavamo subito la penna, anche se non sapevamo tenerla in mano) feci un bel buco sul foglio. Vi lascio immaginare l’espressione di sconforto della maestra e la mia per avere fallito nell’impresa. Quando mio padre venne a prendermi a scuola, strepitai che a scuola non volevo più andarci. Da buona ariete (con corna da sfondamento) e ascendente toro ( con corna da attacco) sin da piccola era difficile dissuadermi dai miei convincimenti. Piansi disperatamente, convinta di porre fine alla carriera scolastica e ignara di quel che mi avrebbe poi riservato la vita. Infatti, anni dopo, a mia madre che mi prospettava un futuro da insegnante, urlai “Insegnante io? Piuttosto vado in convento”. E infatti ci sono finita , svoltando drasticamente da altre prospettive professionali. A scuola però, non in convento – almeno per ora !. Comunque sia e  nonostante tutto, mi piace insegnare e grazie a quella maestra imparai  tante altre cose.

  La suora aveva una bacchetta ma non come quella della fata di Cenerentola o Harry Potter. Anch’essa era magica visto che riusciva a farci stare fermi, muti e apparentemente attenti. Era luuuuuuuuunga fino alla terza fila di banchi e tac tac ticchettava sul banco se osavamo distrarci. Mio fratello ebbe la sfortuna di esser mancino. Sì perché all’epoca la sinistra era considerata la mano del diavolo. Mio nonno lo difendeva strenuamente da quelle cape di pezza (suore) che lo obbligavano a scrivere con la mano destra. La Divina Provvidenza volle che un bel giorno mio fratello  si rompesse il braccio destro cadendo durante una delle sue solite corse in bici . Così da quel giorno fu diabolicamente  libero di scrivere con la mano sinistra e in seguito divenne ambidestro.

 Io non avevo questa capacità, ma  in compenso avevo lo stress di scrivere fioretti da offrire al Sacro Cuore di Gesù. Sempre grazie alle suore, avevo il terrore dei crocefissi perché mi avevano fatto vedere il film “ Marcellino, pane e vino” con esiti forse  inaspettati perché il crocefisso parlante mi spaventava. Il quadro del Sacro Cuore era esposto trionfalmente in aula e io osservavo incuriosita quel cuore rosso palpitante. Carò Gesù ti prometto che…e giù a scervellarmi. Finchè un giorno scrissi in rima Caro Gesù, prometto che non conto più .Certo che le esperienze che si fanno da piccoli si ricordano bene. Questo perchè un giorno la suora disse di contare sulle dita per 8 da 0 a 80.Sì 80, me lo ricordo bene. Oggi in prima si arriva fino al numero  20, al massimo 30. In prima non è facile imparare a contare sulle dita, soprattutto usando le due mani. Non so come feci, so solo che i miei numeri non corrispondevano a quelli della mia compagna di banco, ma imperterrita proseguii. Dopo lunghi bisticci con i polpastrelli sulle mie guance arrivai a 80. Era la prima volta che riuscivo a svolgere un compito esatto. Fui l’unica a non deludere le aspettative della maestra su 35 bambini. Mi aspettavo che agli elogi della suora seguisse una bella manciata di caramelle, colorate e di zucchero…quelle che si potevano comprare con 10 lire durante la ricreazione o si ricevevano in premio per compiti corretti e precisi. La maestra mi premiò con  un ritaglio di libro raffigurante un fiore. Non era la solita margherita , fiore più gettonato nei disegni dei bambini, bensì era un fiore nuovo e diverso: un’ortensia. Poiché ero capatosta, le dissi che preferivo le caramelle. Mi rispose che erano finite. Quando a ricreazione tirò fuori il barattolo per vendere le ultime rimaste, tornai alla carica. Nisba! Indispettita tornai a posto e mi ripromisi di nuovo di non andare più a scuola. Quando mia madre venne a prendermi, iniziai a piangere spiegandole l’accaduto e quella volta  spettò a lei sciropparsi le mie rimostranze. La maestra però aveva sempre ragione. Punto. Anzi punto fermo.

 Sostenni l’esame di primina e l’anno successivo, trasferitici in un’altra città, frequentai le scuole pubbliche. Ho bei ricordi della seconda e terza elementare, delle gare di tabelline, degli esercizi di grammatica e della classe femminile di 32 bambine guidata da  un’anziana  maestra , prossima alla pensione. Ancora ricordo una compagna di classe  dai lunghissimi capelli  intrecciati in acconciature che secondo me richiedevano oltre che bravura almeno un’ora di preparazione, il turno pomeridiano di lezione e il Signor Direttore che tutti i giorni  passava nei corridoi alla fine delle lezioni e ci salutava mentre recitavamo il Salve, o Regina. Anche in quel periodo non capivo tante cose…per esempio “A te ricorriamo esuli figli di Eva … Orsù dunque, avvocata nostra…” Quell’orsù era indigesto più di esuli e avvocata. C’è voluto un po’ di tempo – meglio tardi che mai!- per apprendere che non era un termine dialettale per dire orso.

 Ci trasferimmo ulteriormente, stavolta al Nord, e sempre in una scuola pubblica finii il ciclo delle elementarie- Deo gratias!- , senza altri trasferimenti, proseguii gli studi fino al liceo. Ebbi finalmente l’opportunità di confrontarmi con i  maschietti in una classe mista. All’inizio fu uno sfacelo. Ero in una classe di bambini pestiferi. Tutti erano incuriositi da me perché non conoscevo le parolacce locali, ma recuperai in fretta. Riuscii ad impormi nel gruppo di coetanei perché ricordavo tutti i numeri delle figurine e mi destreggiavo bene nel contrattare gli scambi.

 Della maestra però non ho un bel ricordo: altro che integrazione e pari opportunità… Grazie a lei e alle mie corna di ariete e toro messe insieme in una spaventevole caparbietà caratteriale, decisi di riscattarmi in un altro modo cioè dimostrando che anch’io potevo essere brava a scuola, ma esclusivamente  per un senso personale di rivalsa. Del suo plauso per il mio buon rendimento scolastico non m’importava nulla, perché percepivo una sorta di discriminazione che riguardava la mia persona e la mia sudicia (del sud) provenienza.

 A distanza di tempo la ricordo ancora. Senza rancore, forse con un po’ di sufficiente tolleranza. In fondo s’adoprava come meglio sapeva fare, rispecchiando la sua formazione.

 E qualcuno rimpiange nostalgicamente l’insegnante unico? In una società che richiede sempre più capacità di confrontarsi ed elasticità mentale, mi pare un contraddittorio anacronismo rispondente più all’esigenza di contenere la spesa pubblica che ad un’ottimizzazione di risorse per migliorare la scuola. 

12 pensieri su “Lo zero scappato

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  2. Arrivo qui da google+ ma non chiedermi come perché lo uso pochissimo e ci capisco poco. L’incipit della narrazione mi ha inchiodata a leggere tutto quanto e a raffica ..Procedendo mi è venuto da sorridere : quante somiglianze tra il tuo e il mio percorso. Nel mio blog ho narrato alcune esperienze che possono essere assimilate a questa ( una, per esempio, ha come titolo “Tre volte ladra” e la trovi con l’etichetta “Una foto, una storia”).
    Leggo che poi sei finita a scuola, da adulta…intendo. La stessa cosa è successa a me e le esperienze di bimba in quella scuola così – per molti aspetti – ingiusta e poco attenta – le ho sempre avute bene presenti; spero mi abbiano aiutato a limitare gli errori.

    • @Sandra M.: benvenuta nel blog! Sono approdata a g+ da poco tempo e cerco di districarmi, ma grazie a g+ possiamo scambiarci opinioni.
      Chi non ricorda le tappe principali della propria vita scandite dagli anni scolastici? La scuola ci ha accompagnato nella crescita e nella formazione.
      In fondo siamo quel che siamo grazie a quel bambino o bambina che vive ancora in ognuno di noi, che ci ha lasciato una sorta di imprinting dentro e rivediamo nei bambini delle nuove generazioni ai quali insegniamo. Io ricordo molto la scuola che ho vissuto , nelle sue luci e ombre, perciò ho scelto di insegnare.
      A presto!

  3. Mi ricordo. M’arricordo. Tengo cinche, sei e ott’anne: tutti in una volta; e corro di qua e di là come fa la vita coi pensieri. Essa, Enzina tene sette e miezzo. Stammo pazzianno a nasconnere. Filumena, faccia a muro, inizia a cuntà. Il resto s’annasconne a ccà e a llà. Enzina me zennea e fujmmo dint’o palazzo a 19. Dint’o vascio, sotto ‘o lietto, di sua zia Fortuna ‘a Ciaccessa(la chiacchierona). Me ienche di baci vavusielli ca sanno di fragolelle. Ciuciunea ‘ntrechessa. E, mette le mani miezzo le cosce. Miracolo!: ‘o pesce s’ ‘ntosta comme ‘na mazza. E, ce mettimmo a ridere. M’arricordo il primo giorno di scuola lementare. Dopo dieci minuti già stongo fujenno giù per le scale, miezz’a via. Dint’a scola me sento nu sorece dint’o mastrillo. La strada è libbertà? Nun ‘o saccio, ma aggio bisogno ‘e ll’aria aperta. Aggia fa ambresso. Dint’e sacche arrepezzate si sta sciuglienno ‘o ghiaccio. Mi ricordo criaturo piccirillo.
    Volevo giocare e giocavo con i pensieri, e i giocattoli, rari: loro scappavano da tutte le parti e io li inseguivo. Dovevo almeno starci insieme, e quando scurava notte, ritornavo a casa vivo.
    Ricordo. M’arricordo l’asilo: l’entrata e l’uscita, e il pranzo col piatto caldo e fumante. Ricordo lei, e il suo nome: si chiamava Rosa. Mamma sua la prendeva per mano e io con gli occhi l’accompagnavo fin dove svoltava il vicolo. Poi, di nascosto dalla mamma di lei e di mia sorella Tellina d’o mar’, che non so perché si faceva il pizzo a riso, con le labbra arricciate, le mandavo un bacio nell’aria. Poi, non la vidi più. Era di maggio, il mese in cui le famiglie cambiavano casa, e anche la sua famiglia cambiò quartiere.
    Ricordo. M’arricordo, era la prima volta che piangevo per una femmina. Avevo pianto per il latte, il pane, le scarpe e ‘o cazone di colore cocozza. Intanto ho fatto cadere il piatto con i piselli e, lei è venuta faccia a faccia vicino,vicino a me: mi ha offerto il suo e, mi ha azzeccato le sue labbra sulle mie. Poi, si è messa a ridere. –Che ride a ffà – l’aggio ditto ‘mpicciusiello.
    – Il muco appeso, il sugo e le lacrime sono salate – ha detto Rosa ridendo ancora, pulendomi ‘a vocca. E poi non l’ho vista più: se ne andata. Era di maggio. E criaturo, come dint’a ‘nu suonno, l’aspetto ancora.

  4. @Transit: Rosa non è mai andata via, e’ stata sempre nascosta dentro di te e ogni tanto parla al Transit piccirillo.

    Mi ha fatto ridere l’espressione “me sento nu sorece dint’o mastrillo”, l’avevo dimenticata, ma rende bene la sensazione di stare in trappola e volere scappare via.
    Grazie per questa bella condivisione.

  5. Io ricordo bene il mio maestro: fumava 60 sigarette al giorno ed in classe con il mozzicone di una si accendeva quella nuova ma quella volta nessuno ci faceva caso, nemmeno io… Era un nostalgico del ventennio infatti a ginnastica ho imparato a marciare, autonumerarmi in fila per tre, a tenere il passo… Insomma eravamo dei piccoli Balilla 😉 Però, per quanto severo, era anche giusto ed un bravo maestro che ricordo con affetto.
    Ricordo solo una suora acida che fortunatamente avemmo solo un’ora alla settimana per un anno. Per il resto avevamo un vecchio sacerdote che spesso e volentieri si addormentava alla cattedra 😀

    • @Giulio GMDB: ciao bentornato nel blog! Immagino quanto fumo passivo abbiate dovuto respirare, anime innocenti! 😀
      Certo che la scuola di anni fa era molto diversa da quella di oggi, ma tutti, giovani e meno giovani, ricordiamo qualche insegnante in particolare, comprese le terribili suore.
      Io però ricordo con affetto suor Pia, la mia maestra di asilo che mi accolse a un anno e mezzo, quando intrapresi precocemente, causa forza maggiore- o meglio materna-, la mia carriera scolastica.

  6. Scuola, suore, donne e l’ arancia

    In ordine cronologico ricordo due suore in particolare. Ma le arance non c’erano in entrambe le conoscenze. Invece un arancia mi fu data come regalo da … abbiate un po’ di pazienza … tutto a tempo debito.

    Ero militare, precisamente al CAR(centro addestramento reclute:la leva una volta era di massa, adesso invece il nostro esercito è composto solo di professionisti)e pesce di cannuccia con il mondo in generale, la vita e le donne. Come in tutto le cose, bisogna fare addestramento, comprese gli incidenti, le ferite, le capocciate e le cadute e gli addii.

    L’adolescenza come tutti sanno tiene la bocca di latte.

    Erano trascorsi quasi due mesi, prima di spedirmi al reggimento, con una parentesi di qualche giorno per accertamenti nell’ospedale militare di Bari. Ebbene c’era una suora bassa, grassa e tracagnotta. Era burbera e dai modi spicci e duri. Aveva persino i baffi. E poteva essere il classico sergente di ferro. I baffi li aveva fuori ma il sergente, cioè la disciplina militare, l’aveva dentro. Certo che la religione/le religioni si son sempre sposate non a Gesù sposo, ma agli eserciti delle armi.
    Comunque in quell’ospedale, almeno le reclute e militari di grado inferiore, avevano paura di lei, me compreso. Ah, ci sarebbe un terzo caso di suorità e suorezze da me, anzi citate da mia moglie. La scuola che frequentava era quelle delle suore, quindi privata: sui soldi da spillare erano assai precise e spingevano alunne e alunni a compare questo e quello: usavano la furbizia. E così la mamma di mia moglie un giorno andò a scuola per disdire quel che il giorno prima aveva comprato sua figlia: beh, la mia futura moglie in quei due giorni si beccò due sanghe d’a maronna ‘e mazziate: una da sua madre e l’altra da suor Orsola, la venditrice. Mia moglie mi ha detto che quelle erano tutte represse e tenevano una cazzimma peggio degli usurai. – Solo una si salvava, suor Angela, era buona e brava, ama tutte le altre erano represse e dispettose e poi tenevano una maronna di cazzimma. –

    Avevo trent’anni e lavoravo in ospedale. In quello stesso ospedale in cui, quando io avevo quattro anni, mio padre era un paziente e di anni ne aveva cinquanta in più; verso le cinque di mattina, senza mamma o la presenza di qualche figlio/a, colto da una crisi respiratoria, morì.

    (Ma io senza saper né leggere e né scrivere, ma anche senza avere una pezza di coscienza lo maledissi: – Ma comm’é? tieni una famiglia numerosa, ‘nu figlio piccirillo, e tu, (pe’ ‘na botta sbagliata)mentre io te vulesse vicino a mme pe’ t’abbraccià e vasà; mentre tu, fesso che sei, te fai fa ‘a stà zoccola d’a morte. Pecchè nun le mannata a fa ‘nculo sta faccia ‘e carogna ca nun tene pietà nemmeno d’e cfriature ‘e latte. -)

    C’era un una parte di storia personale in quel luogo. Lì era stato versato il sangue di mio padre: non avevamo telefono e la distanza, aspettando e usando il bus, allungava il tempo per poterlo vedere e stargli accanto.

    Quell’episodio era lontano e il tempo, forse, esiste solo per incollare e sotterrare i pezzi di ogni storia. Ma a me non dissero nulla e i pezzi mi cadevano addosso come fantasmi inesistenti, ma dalla pressione fortissima. A mia insaputa ero un sommergibile e la vita con le sue facce, i suoi respiri, le ansie e persino con l’amore, premeva contro il petto, la pancia e l’intera corporeità.

    Un giorno ero impegnato in un reparto e venne da me una suora, qualche collega le aveva fatto il mio nome, dato che ero uno che si interessava di movimento e di posti di lavoro e dell’andamento di altre questioni.

    – Lei è il Signor … – disse la suora che vedevo per la prima volta e di cui non conoscevo il nome.
    – E lei, madre, come si chiama? –
    – Suor Paola –
    Le strinsi la mano. Era esile e timida. Pensai a mio padre. Chissà, forse l’aveva conosciuto e assistito.
    – Volevo chiederle … una preghiera … –
    Ero quanto turbato. Una suora che mi pregava per qualcosa.
    – Dica, cosa posso fare … –
    – Ho un nipote che attualmente non lavora. Se lei potesse fare qualcosa per fargli fare il corso per … –
    – Madre, innanzitutto, se vuole, mi dia del tu. Vorrei tanto fare qualcosa per suo nipote, ma non ho questo potere. Se noi, me compreso siamo qui, è perché non abbiamo chiesto a qualche notabile e a non vogliamo chiedere a nessun mammasantissima di darci un posto di lavoro. E non solo il lavoro. E se abbiamo ottenuto qualcosa è solo attraverso la lotta. Ecco, le posso indicare semmai qualche comitato di disoccupati organizzati in cui iscriversi. Nessuno ti da niente e non ci rivolgiamo a nessun santo né in terra né in cielo. – e le sorrisi, perché lei di santi ne aveva una carriola.

    L’arancio mi fu dato sul muretto con le inferriate fuori all’ospedale dei Pellegrini a Montesanto. Mamma mi disse: – Lui è don Pasquale – Era la prima volta che lo vedevo. Mamma mi disse che don Pasquale andava al mercato della frutta ad aiutare un fruttivendolo del quartiere. E quando se ne tornava aveva sempre qualche frutto nelle tasche del cappotto o del giaccone. Mi carezzo la testa, sorrise e disse: – Tieni questo arancia è per te. –
    Anche lui aveva le rughe, gli anni e la testa pelata come le avrebbe avuto mio padre fosse ancora vivo. Non lo rividi mai più. Mi fece tenerezza e malinconia. Avrei forse voluto abbracciarlo come se fosse stato mio padre. Ma no era mio padre. Forse anche lui si senti solo; forse pianse e forse morì solo come mio padre. Forse solo mentre scrivo ho capito che quell’arancia mi fu dato con la fatica e con cuore. Forse lui era mio padre: il secondo; almeno, forse, così mi dicono le lacrime di adesso, ‘e quann’ero ancora ‘nu criaturo.

    Ca nun vulevo ji(andare)’a scola. Sosora mia Tellina d’o Mar’, nun appena m’accumpagnava, saglienno ‘e scalinate, sunava ‘a campanella; ma doppo ‘nu poco ca essa se n’era iuta, io facevo ‘e scale a quatto a quatto, comme si dint’e sacche d’o cazone culore cucozza, tenevo a neve ca ‘o sango vullente d’e cosce sciuglieva.

    Traduzione dell’ultima parte in dialetto:

    Ero ancora un bambino che non voleva andare a scuola. Mia sorella Tellina di Mare, non appena mi accompagnava, salendo le scale, suonava la campanella; ma dopo un po’ che lei era andata via, io facevo le scale a quattro a quattro, come se nelle tasche d’o cazone color arancione, tenessi la neve che il sangue bollente delle cosce scioglieva.

    • @Transit: Certo che le “zellose cape ‘e pezza” erano perlopiù tremende e ognuno ne ricorda qualcuna, tale e quale alla tua descrizione :)
      Come è strana la vita, regala e ruba quando meno te l’aspetti, e il vuoto che lascia resta dentro per sempre, come una voragine. Scappa Transit, scappa da scuola per paura di perdere anche tua madre e con lei un’altra parte di te. Quell’inaspettata arancia dorata ed energetica però ti ferma, ti sostiene,ti nutre e segna il passaggio, la transizione, la forza di continuare,nonostante tutto. E ti ha fatto diventare un poeta.

      Grazie,poeta!

  7. Attraverso il tuo commento che hai lasciato sul mio post, arrivo da te.
    Ho iniziato a leggere e ho letto parecchi tuoi post.

    Ero indecisa se lasciarti un commento, ma solo per timidezza.
    Ma leggendo questo post, non ho resistito.
    Più leggevo e più mi convincevo che dovevo lasciarti un commento.

    Con le cape di pezza ci ho vissuto dai quattro ai quindici anni, le conosco bene.
    Il primo film che ho visto è stato Marcellino pane e vino e anche a me questo film fece lo stesso tuo effetto.

    Noi interne stavamo sempre all’ultimo banco a scuola.
    Una sorte di vero razzismo, che non so se ci abbia segnate, ma credo che un poco si.

    Ti ho letto con molto piacere, complimenti!

    Ti inserirò tra i preferiti.

    Ciao

    • @Rosy:benvenuta nel blog, Rosy!Non essere timida, mi fa molto piacere averti qui e avere scoperto il tuo blog.
      Noto che le cape di pezza colpiscono anche nei tuoi ricordi e ciò fa riflettere sui metodi educativi di una volta. Meglio riderne

      Ciao, a presto!

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