Buona fortuna, ragazzi!

In uno zaino immaginario tra le cose che avreste voluto portare con voi avete disegnato magliette, pantaloni, scarpe, cellulari,  palloni da calcio, computer, libri, raramente villaggi, costantemente scritte sulla pace, a volte una preghiera. Tutti avete scritto il vostro nome, cognome e provenienza a grandi lettere o con una bandiera. Un’identità che sentite con fierezza e nostalgia di affetti lontani. Ricordate i nomi dei genitori, di padri scomparsi, dei fratelli più piccoli rimasti là e che sperate di potere aiutare da qui, dei  nonni e anche dei bisnonni di entrambi i rami della famiglia. Avete radici giovani, ma forti e profonde.

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Siete proiettati in avanti, ambìte, avete spiccato il salto per osare e conquistare il domani. “Voglio riprendere gli studi”. Hai lasciato la Nigeria e l’università al secondo anno di economia, in quegli occhi così neri c’è una vivacità incredibile, sei  brillante, hai talento per la recitazione. Ricordo quando arrivasti imbronciato e mi dicesti “I’m not happy, I’m sad, I’m angry”.20160910_113503

” Parliamone”. Ne abbiamo parlato, prima con esitazione poi con sicurezza hai raccontato l’immobilità del presente e un più soddisfacente futuro immaginato che non so se mai qualcuno riuscirà a garantirti, eppure i tuoi 19 anni ne avrebbero diritto in qualsiasi parte del mondo. Oggi non eri a lezione. Mi hanno detto che sei andato via, con la noia che ti  rodeva dentro perché, presumo,  la tua intelligenza e giovinezza scalpitano. “Perché sei andato via dal tuo paese?” “Perché la mia famiglia ha avuto problemi, tanti problemi” e lo sguardo si è rattristato come quando pronunciasti il nome di tua madre: Peace. Ti auguro di realizzare quel sogno americano che hai negli occhi, non sta a me giudicarlo, riprenditi un po’ di benessere con ciò che le tante multinazionali hanno tolto alla tua terra, questo sì. Di te resta il tuo bel ritratto con la maglietta  verde e bianca come la bandiera del tuo paese, che ha i colori delle foreste, dell’agricoltura e della pace. Restano le frasi di un romanzo e un’invocazione a Dio con  i nomi delle tante squadre italiane di calcio,  il fumetto in cui pensi di diventare un footballer, ma in realtà ti saresti accontentato di un lavoro qualsiasi.

 Tu invece sei più semplice e scanzonato, simile a un rapper americano nei modi ma sogni di diventare un  musicista, e ti piace ridere e  ballare come nel giorno del tuo compleanno che per te è stato il giorno più bello della tua vita di cui hai subito parlato ai tuoi per telefono.  Invece tu ti  dichiari nigeriano ma hai il Biafra nel cuore, un’appartenenza che rivendichi con fierezza. Il tuo nome è “giorno del Sole”, quando parli del tuo paese sembri un  guerriero che con gli occhi stretti  fissa l’orizzonte  accompagnando il sole nel  tramonto con la  consapevolezza che domani riapparirà.Ben concentrato con le cuffie nelle orecchie, come me quando scrivo, hai disegnato  il simbolo  della pace e scritto in inglese “C’è bisogno di orgoglio e di un po’ di rabbia per la libertà del mio paese”. Sei arrivato in Italia  perché là non c’è futuro, vuoi che gli occidentali capiscano che l’Africa sta morendo nell’ indifferenza del mondo intero.

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Oggi non eravate a lezione. Mi hanno detto che ve ne siete andati, forse in Germania. Buona fortuna, ragazzi! Forse oggi avrei saputo di più della vostra vita, ma la rivedo in quella dei vostri amici e di quelli che sono arrivati e hanno disegnato imbarcazioni piene d’acqua, navi della guardia costiera che soccorrono naufraghi, campi lager libici, gestiti dai trafficanti, dove mangia e beve solo chi può pagare pane e acqua e non si fanno sconti nemmeno a donne e bambini, e si sopravvive senza servizi igienici e docce e chi muore viene abbracciato dal mare. Vi immagino sui pick up Toyota, anche voi ammassati con una ventina, più spesso trentina di altre persone, in viaggio da una o due settimane nel deserto, con fermate solo  notturne per dormire al freddo, senza cibo, i più fortunati mangiano  qualche biscotto quattro – cinque volte durante tutto il viaggio e bevono da taniche, da sacche appese ai bordi del veicolo, da una bottiglietta, Destiny non ha avuto nemmeno quella, e   i più deboli sono gettati nella sabbia del deserto, unica destinataria delle loro speranze.

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In quei furgoni ci sono anche donne e bambini, si consumano violenze a discapito delle ragazze costrette a pagare con ulteriore sofferenza il diritto a vivere.

Buona fortuna, ragazzo ! Avrei voluto salutarti e lo faccio adesso. Non avere paura di non essere “adeguato”, non importa la mala sorte passata “ perché comandano i desideri, perché non siamo (solo) nel mondo materiale dove le cause sono tutto, qui nel mondo umano le finalità decidono i comportamenti, cioè è quello che vedi davanti che spiega i tuoi movimenti e allora buttati nel vuoto, guarda che nessuno ha imparato a volare prima di buttarsi. Allora confonditi, commuoviti un po’, prendi tutte le tue energie e vai, è proprio nel momento che ti sei lanciato che sperimenti la comprensione, proprio quando ti dimentichi di te stesso, incredibile ! “ (cit. prof. Camillo Bortolato). In fondo la vita è come l’apprendimento, è essa stessa continuo apprendimento che richiede capacità di mettersi in gioco, è  un’ opportunità da cogliere al volo,da tenere stretta e difendere, da conquistare a volte con gradualità, a volte con lo slancio di una sfida . È naturale per i bambini di 12 – 14  anni, in viaggio da soli, i  più abili nella fuga  grazie all’ esaltante incoscienza e irrequietezza di chi è ancora libero dai condizionamenti e, nonostante tutto, riesce a ridere.  Afferrate la vostra vita con quel sorriso contagioso, che nasconde con pudore ciò che vi ha reso uomini troppo presto, stringetela forte con quel coraggio e voglia di guardare  avanti e farcela che in fondo in fondo vi invidiamo e spaventa tanto chi non sa più sognare come voi.

Sulla matofobia e altro

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“ L’esperienza scolastica di quegli anni ( Cinquanta) oltre all’istruzione non ha trasmesso sentimenti, né li ha educati. Ha inculcato una disciplina senza fierezza, un dovere senza bandiera, lasciando impronta sui nervi di una generazione di studenti, non sui loro slanci. Imparammo a governare le paure, a ragionare sulle ire. Altro che “ Cuore”: quella scuola ha arpeggiato e strimpellato sui nervi dei suoi alunni. Sarebbero esplosi un giorno.”

Così Erri De Luca conclude in Napòlide la descrizione di un terribile maestro di scuola elementare e   a queste parole ho pensato quando sento parlare o leggo di matofobia, paura o avversione per la matematica. In effetti questa paura non è la causa di mancato apprendimento ma la conseguenza di un approccio metodologico che non ha funzionato o di una relazione conflittuale col docente che segnano il percorso scolastico di chi ha paura della matematica ( ma ciò potrebbe riferirsi anche ad altre discipline, anche se è più diffusa la matofobia). Vi concorrono anche le convinzioni sociali che questa disciplina sia per  pochi eletti, come se le abilità matematiche fossero congenite.

 Mi chiedo quanti di quegli alunni degli anni Cinquanta- Sessanta  siano diventati insegnanti, portandosi dentro  la scuola che hanno vissuto. Sì perché un insegnante trasmette  conoscenze ma anche indirettamente parte di sé nel modo di relazionarsi e  di comunicare, che cambia con gli anni, con l’esperienza e con la formazione, sempre che non si oppongano resistenze al proprio cambiamento. L’insegnante non è tenuto a fare psicologia, ma è necessario che conosca la psicologia evolutiva per programmare  in modo efficace e mirato  gli apprendimenti e comprendere che spesso le sue aspettative e il suo modo di porsi  influiscono  sul rendimento dell’alunno. “L’apprendimento è possibile solo tenendo conto che non è un fatto esclusivamente intellettuale, né esclusivamente legato allo sviluppo delle strutture neurologiche, ma dipende, invece, direttamente dallo sviluppo delle emozioni, dei vissuti e delle fantasie che determinano la qualità del mondo interno dell’individuo e il tipo di incontro con gli oggetti del mondo” (Melanie Klein). Ogni atto di pensiero e conoscenza mantiene, in ogni fase della vita dell’individuo, una dimensione relazionale.

 L’insegnamento solleva continui problemi di relazione con caratteri diversi. Non ci sono indicazioni in merito al rapporto docente-alunno,  se non la sincerità di un comportamento da parte dell’insegnante, più liberale o più severo a seconda della sua personalità, e il farsi carico dell’alunno trasmettendogli un po’ di passione  per la materia. Gli allievi sentono questa sincerità e non accettano il rigore imposto se non sono messi in condizione di rispondere alle aspettative del docente. Non si può pretendere se non si rende accessibile la materia con un metodo efficace e un linguaggio comprensibile, se non ci s’adopra per colmare lacune, se non si sostiene l’alunno nelle difficoltà e si costruisce  autorevolezza sulla base di reciproca stima e fiducia, se non si incanala l’intelligenza e si potenziano le risorse dell’alunno, perché dietro la cosiddetta svogliatezza e rinuncia  possono esserci cause diverse. Partiamo dal postulato che tutti i ragazzi sono intelligenti, anche se in  modo diverso. Spesso alla  prontezza richiesta agli allievi di venti, trenta, quaranta anni più giovani del docente,  non corrisponde la prontezza di chi dovrebbe essere in grado di mettersi a loro livello e di riuscire a capire perché non apprendono . E di solito chi pretende di più è anche il meno incline a mettersi in discussione. Non è facile per un adulto  uscire da sé, ma è ancora più difficile per i più giovani crescere.

 Dall’accordo o dal disaccordo che si stabilisce tra l’insegnante e l’alunno ne deriva che il bambino o ragazzo trasferisca questa relazione alla materia insegnata perché in fondo  attrazione o rigetto si basano su dinamiche di comunicazione e di interazione. Esistono varie forme di intelligenza, più o meno mobilitate dalla personalità, che le tende o le rilassa, e  bisogna partire da quelle che l’alunno attiva di più per  agganciarsi metodologicamente a forme di sapere più ampie. La matematica lo consente perché è ovunque: nella vita pratica, nella natura, nella musica, nelle nuove tecnologie, nell’arte. Quando un alunno ha paura, è demotivato o rinuncia ad apprendere, è un brutto segno. Forse perché si è presentato un sapere come raro ed inaccessibile, ci si propone come antichi maestri autoritari e non autorevoli , perchè si è attirati dalla scienza più che dall’insegnamento, non c’è integrazione nella classe o subentrano condizionamenti familiari e socio culturali. “Comunque siano le ragioni che hanno determinato la scelta professionale dell’insegnante, l’atteggiamento nei confronti dell’allievo è sempre direttamente influenzato dalla personalità individuale. Ognuno ha la certezza che il suo atteggiamento sia perfettamente legittimo, se non il migliore: né potrebbe pensare altrimenti.” ( “Gli insuccessi scolastici” –André Le Gall) Spesso si dice “ altrimenti non sopravvivo”…

 

In ogni segmento dell’istruzione l’insegnante si trova di fronte a soggetti, in un particolare periodo dell’età evolutiva, dei quali è opportuno conoscere interessi, potenzialità, gradi e modalità di apprendimento per guidarlo verso abilità e comportamenti individuali e sociali, che sono alla base della graduale crescita, fisica ed intellettuale, come persone e cittadini.

 “Poiché i bambini hanno poco potere personale, spesso hanno poca fiducia nelle proprie capacità e sono  insicuri. I loro timori possono causare regressione ad una fase precedente in cui si sentivano più protetti e sicuri. Tacere le paure può essere scambiato come segno di maturità, ma  nasconderle non è metterci fine, cosicchè il bambino che non ha il coraggio di svelarle può sviluppare un sentimento profondamente radicato di inadeguatezza e di inettitudine, ansia. “ (da “Le paure dei bambini” di B. Wolman). Gli adulti, i genitori ma soprattutto gli  insegnanti-educatori, dovrebbero quindi riuscire a captare e ad  accogliere le sue sensazioni ed esperienze per individuare strategie idonee a rafforzare la sua autostima, cui ricorrere nei momenti critici, valorizzando altre sue capacità, dovrebbero spiegargli che si impara sbagliando e che un insuccesso può essere superato in quanto è il punto di partenza per rimediare e cercare di  riuscire, che i voti non sono né punizioni né  giudizi di valore sulla sua persona  ( semmai sulla professionalità del docente), ma una verifica per capire  se c’è stato apprendimento, progresso o da dove bisogna ripartire.  Occorre indirizzare l’allievo perché sia capace di rispondere  in modo razionale alle prove che servono a dare conferma di quanto appreso  o sul metodo di studio, così da non sopravvalutare, né sottovalutare i potenziali rischi, in modo che non affronti il compito impreparato. Lo studente impara che  non si può sempre riuscire e  che a volte insuccessi meritati, e non affidati alla luna storta del docente, possono essere un’occasione per migliorare. Quando le  battute d’arresto scoraggiano gli sforzi futuri e danneggiano la fiducia in se stesso, l’alunno non apprende e l’insegnante ha fallito su tutti i fronti.

 Torniamo alla matematica. A differenza dei programmi del 1955 che parlavano di istruzione aritmetica, coi Nuovi Programmi Didattici per la scuola primaria del 1985 si introdusse uno  spirito profondamente diverso nell’insegnamento della matematica. Essa venne intesa non più come disciplina dei numeri e dei calcoli, ma  come modalità di uso del pensiero, in rapporto alle funzioni cognitive del fanciullo, per  avviare alla capacità di esaminare scientificamente la realtà, di formulare ipotesi e verificare risultati. “ La matematica non è più intesa come un settore di studi limitato, ma nel pensiero matematico rientrano aspetti e concetti che sono propri del linguaggio, delle scienze, della logica, dell’analisi scientifica. Il valore del suo insegnamento è molto più ampio di un tempo, non più limitato alla risoluzione di problemi pratici, diviene un ponte tra una cultura umanistica ed una cultura tecnologica. In questo senso la matematica diviene una scienza creativa, progettuale e aperta, nella quale si opera per concetti, simboli, raffigurazioni, dove si considerano ipotesi, cause effetti, probabilità e non solo tecnica manipolatoria dei numeri …

Grazie agli studi di psicologia evolutiva, alla richiesta di educazione da parte delle famiglie e della società, alla necessità di migliorare la formazione e la preparazione culturale  degli alunni, alla rinnovata attenzione dei matematici verso la didattica, dopo il 1960 nella scuola elementare iniziò un rinnovamento radicale per conseguire obiettivi formativi. Un rinnovamento faticoso, non solo per la metodologia ma soprattutto per il nuovo scopo dell’insegnamento, che talvolta registrò equivoci e conseguenze negative più dannose forse degli errori che si volevano correggere. Talvolta si  continuò a privilegiare l’aspetto contenutistico a quello metodologico dell’insegnamento, proponendo il linguaggio matematico con netto anticipo rispetto alle capacità di comprensione e di uso, utilizzando a volte il materiale didattico non come mezzo ma fine a se stesso perdendo di vista la globalità di una corretta formazione matematica. Si parlava di  didattica della nuova matematica  invece che di nuova didattica della matematica” (da “il nuovo Maestri domani”- ed.  Le Monnier) che deve accostare il bambino al pensiero matematico attraverso un approccio concreto e diversificato perché, partendo dall’esperienza passi alla sua rappresentazione per giungere alla formalizzazione.

Fondamentale è stato ed è l’insegnamento della logica , che consiste nell’uso sistematico ed organizzato di un pensiero preciso, oggettivo e chiaramente formulato sul piano del linguaggio. Scegliere accuratamente attributi verbali, dare prime definizioni, proporre confronti, esaminare cause ed effetti e loro interazioni, riflettere con ordine sull’esperienza per argomentare, congetturare e risolvere problemi,  nella scuola primaria significa educare trasversalmente alla logica e gradualmente a pensare. In fondo dare ordine ai pensieri è il fine ultimo di tutta l’educazione intellettuale.

  Da allora ci sono state altre riforme scolastiche e indicazioni per l’insegnamento nella scuola primaria. Dagli anni Novanta  si è consolidata una didattica basata sull’acquisizione di  competenze generali, cui si giunge attraverso abilità specifiche, sempre in un’ottica di formazione globale dell’alunno.

L’educazione è però la risultante di tante variabili, perché il bambino matura esperienze non solo  a scuola, ma soprattutto nel contesto familiare e sociale in cui vive e col quale interagisce. Queste interazioni strutturano i suoi comportamenti, i modi di pensare, di percepire sé, gli altri e l’ambiente e concorrono al processo di crescita della sua personalità.

 

 L’apprendere è un fenomeno naturale perché esiste un’innata curiosità nell’essere umano. I bambini imparano in modo inconsapevole facendo, giocando, sperimentando nel loro mondo. I ragazzi  intelligenti imparano a prescindere dai “cattivi insegnanti” e per tutta la vita si continua ad apprendere, a cercare conoscenze anche se non soddisfano interessi prammatici.

Apprendere equivale a essere intellettualmente e affettivamente attivi ed è un continuum, un processo che connota l’esistenza di ciascuno e si integra nel proprio vissuto. L’insegnante deve motivare all’apprendimento, che richiede sforzo e cambiamento. Pensiamo a quanti cambiamenti fa e deve fare  un bambino nell’arco dei suoi primi dieci anni di vita, e poi l’adolescente negli anni successivi. Il mutamento implica autovalutazione e autocritica, perché ciò che prima pareva certo diviene confutabile  alla luce di nuove conoscenze e quindi necessita ripensamento e flessibilità, elasticità mentale e rassicurazione.

 

Quando un alunno si blocca e rinuncia ad apprendere, qualcosa si è incrinato, manca la curiosità, la spinta al nuovo, all’apertura. Cessa di ripensare e ripensarsi.  Se non è motivato e sostenuto, si appiattisce, regredisce o rivolge la sua intelligenza laddove si sente gratificato ( il rischio è la devianza con esplosione di rabbia). L’intervento didattico personalizzato è una  soluzione . L’allievo non è una macchina  ove è possibile sostituire un pezzo rotto, o da rottamare. Ogni allievo ha una personalità , attitudini, interessi che lo rendono simile ma non uguale agli altri, e spesso il programma didattico e la metodologia vanno adattati a quelle diversità, per poter  garantire  un insegnamento efficace. Questo è un caposaldo della scuola dell’obbligo. Le scuole secondarie di secondo grado hanno un impianto metodologico-culturale diverso perchè  l’ insegnamento efficace, che susciti interesse, motivazione all’apprendimento   e successo scolastico è di fatto affidato alla buona volontà, alla sensibilità, alla  formazione del singolo docente in quanto gli insegnanti tendono ad una valutazione selettiva e ad omogeneizzare la classe. Purtroppo però le statistiche sull’ abbandono e sulla dispersione scolastica dovrebbero indurre a riflettere sulle responsabilità individuali del docente e su quelle collegiali del Consiglio di Classe, sulla formazione psico-pedagogica degli insegnanti che molto probabilmente hanno svolto un percorso di studi più adatto alla ricerca che all’insegnamento. La professionalità docente si arricchisce e si cimenta con i ragazzi in difficoltà in quanto  gli altri riescono ad apprendere comunque.

 

“Il successo e l’insuccesso scolastico dipendono almeno tanto dal carattere- e, per suo tramite dall’ambiente- quanto dall’intelligenza. Perchè è soprattutto certo che l’uomo è un’unità e che non si può mobilitarne l’intelligenza se non mobilitandolo nel suo intero.” (“Gli insuccessi scolastici” di André Le Gall).

La scuola può fare molto, nel bene ma anche nel male. L’insuccesso e le  situazioni di disagio affettivo, sociale, culturale mettono alla prova e in alcuni casi  stoppano, precludendo opportunità non solo di formazione ma anche di vita.

Come diceva Don Milani “La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde… A questo punto gli unici incompetenti di scuola siete voi che li perdete e non tornate a cercarli.”

( Don Milani-da scuola di Barbiana, Lettera ad una professoressa) 

 

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 Lo zero scappato

 

Lo zero scappato

Dopo lunghi anni di asilo, per cui nel cestino mia madre metteva la gamella con le polpette o la frittatina , Pri  Pri ( una specie di coniglietto spennacchiato che in origine doveva essere di peluche) e qualche pentolina giocattolo che immancabilmente le bambine più grandi mi fregavano, iniziai la prima elementare in una scuola parificata a cinque anni  con quasi un anno di  anticipo rispetto ai miei compagni di avventure scolastiche.

Ero più piccola di età e di statura, per cui il primo giorno di scuola notai che il  mio banco era in prima fila, anzi doveva essere quello della prima fila. La maestra però accontentò una mia compagna che fece un capriccio snervante e occupò indebitamente la mia postazione. Finii all’ultimo banco. Il problema era che da laggiù non vedevo bene e probabilmente non seguii le indicazioni della maestra, che era una suora A un certo punto si avvicinò e mi diede un quaderno con un esercizio apparentemente facile. Dovevo unire i puntini che tracciavano una A in stampatello maiuscolo…ma non sapevo che dovevo unirli tracciando una linea unica partendo dal primo puntino in basso  a sinistra proseguendo verso l’alto per poi discendere, come su uno scivolo, verso l’ultimo puntino in basso  a destra formando una linea spezzata .E io, secondo la mia logica infantile, unii i puntini con una miriade di linee che s’intersecavano a più non posso, intessendo una bella ragnatela di linee traballanti e storte. La maestra ripassò per controllare il compito e il mio capolavoro artistico fu definito sgorbio. Prima mi beccai una sgridata umiliante e, secondo  me, immeritata per lo sforzo che avevo fatto e la convinzione di avere svolto bene il compito. Poi sul quaderno comparve un misterioso segno circolare, sbarrato da una linea obliqua. Dalla veemenza con cui era stato inciso e dagli strepiti della suora, intuii che aveva un brutto significato. Era uno Zero Spaccato. Io guardavo quel nuovo sgorbio affascinante: lo Zero spaccato, sbarrato, tagliato che,  nel resoconto che diedi ai miei genitori , chiamai Zero scappato.  Ma perché sbarravano gli zero? Per timore che vi anteponessero un 1 e si trasformassero in 10?  Per sottolineare che era irrimediabilmente zero…un insieme vuoto, un annullamento senza speranza di rimedio? Per un bambino che non conosce il significato dei numeri che poteva significare? Infatti io non conoscevo lo zero scappato e mi chiedevo perché mai fosse scappato sul mio quaderno. Capii solo che il mio compito era sbagliato. Così nel tentativo di rimediare al disastro, bagnai la gomma con la saliva e … zac zac , a forza di sfregare su quello sgorbio di A  scritto con la penna (perché usavamo subito la penna, anche se non sapevamo tenerla in mano) feci un bel buco sul foglio. Vi lascio immaginare l’espressione di sconforto della maestra e la mia per avere fallito nell’impresa. Quando mio padre venne a prendermi a scuola, strepitai che a scuola non volevo più andarci. Da buona ariete (con corna da sfondamento) e ascendente toro ( con corna da attacco) sin da piccola era difficile dissuadermi dai miei convincimenti. Piansi disperatamente, convinta di porre fine alla carriera scolastica e ignara di quel che mi avrebbe poi riservato la vita. Infatti, anni dopo, a mia madre che mi prospettava un futuro da insegnante, urlai “Insegnante io? Piuttosto vado in convento”. E infatti ci sono finita , svoltando drasticamente da altre prospettive professionali. A scuola però, non in convento – almeno per ora !. Comunque sia e  nonostante tutto, mi piace insegnare e grazie a quella maestra imparai  tante altre cose.

  La suora aveva una bacchetta ma non come quella della fata di Cenerentola o Harry Potter. Anch’essa era magica visto che riusciva a farci stare fermi, muti e apparentemente attenti. Era luuuuuuuuunga fino alla terza fila di banchi e tac tac ticchettava sul banco se osavamo distrarci. Mio fratello ebbe la sfortuna di esser mancino. Sì perché all’epoca la sinistra era considerata la mano del diavolo. Mio nonno lo difendeva strenuamente da quelle cape di pezza (suore) che lo obbligavano a scrivere con la mano destra. La Divina Provvidenza volle che un bel giorno mio fratello  si rompesse il braccio destro cadendo durante una delle sue solite corse in bici . Così da quel giorno fu diabolicamente  libero di scrivere con la mano sinistra e in seguito divenne ambidestro.

 Io non avevo questa capacità, ma  in compenso avevo lo stress di scrivere fioretti da offrire al Sacro Cuore di Gesù. Sempre grazie alle suore, avevo il terrore dei crocefissi perché mi avevano fatto vedere il film “ Marcellino, pane e vino” con esiti forse  inaspettati perché il crocefisso parlante mi spaventava. Il quadro del Sacro Cuore era esposto trionfalmente in aula e io osservavo incuriosita quel cuore rosso palpitante. Carò Gesù ti prometto che…e giù a scervellarmi. Finchè un giorno scrissi in rima Caro Gesù, prometto che non conto più .Certo che le esperienze che si fanno da piccoli si ricordano bene. Questo perchè un giorno la suora disse di contare sulle dita per 8 da 0 a 80.Sì 80, me lo ricordo bene. Oggi in prima si arriva fino al numero  20, al massimo 30. In prima non è facile imparare a contare sulle dita, soprattutto usando le due mani. Non so come feci, so solo che i miei numeri non corrispondevano a quelli della mia compagna di banco, ma imperterrita proseguii. Dopo lunghi bisticci con i polpastrelli sulle mie guance arrivai a 80. Era la prima volta che riuscivo a svolgere un compito esatto. Fui l’unica a non deludere le aspettative della maestra su 35 bambini. Mi aspettavo che agli elogi della suora seguisse una bella manciata di caramelle, colorate e di zucchero…quelle che si potevano comprare con 10 lire durante la ricreazione o si ricevevano in premio per compiti corretti e precisi. La maestra mi premiò con  un ritaglio di libro raffigurante un fiore. Non era la solita margherita , fiore più gettonato nei disegni dei bambini, bensì era un fiore nuovo e diverso: un’ortensia. Poiché ero capatosta, le dissi che preferivo le caramelle. Mi rispose che erano finite. Quando a ricreazione tirò fuori il barattolo per vendere le ultime rimaste, tornai alla carica. Nisba! Indispettita tornai a posto e mi ripromisi di nuovo di non andare più a scuola. Quando mia madre venne a prendermi, iniziai a piangere spiegandole l’accaduto e quella volta  spettò a lei sciropparsi le mie rimostranze. La maestra però aveva sempre ragione. Punto. Anzi punto fermo.

 Sostenni l’esame di primina e l’anno successivo, trasferitici in un’altra città, frequentai le scuole pubbliche. Ho bei ricordi della seconda e terza elementare, delle gare di tabelline, degli esercizi di grammatica e della classe femminile di 32 bambine guidata da  un’anziana  maestra , prossima alla pensione. Ancora ricordo una compagna di classe  dai lunghissimi capelli  intrecciati in acconciature che secondo me richiedevano oltre che bravura almeno un’ora di preparazione, il turno pomeridiano di lezione e il Signor Direttore che tutti i giorni  passava nei corridoi alla fine delle lezioni e ci salutava mentre recitavamo il Salve, o Regina. Anche in quel periodo non capivo tante cose…per esempio “A te ricorriamo esuli figli di Eva … Orsù dunque, avvocata nostra…” Quell’orsù era indigesto più di esuli e avvocata. C’è voluto un po’ di tempo – meglio tardi che mai!- per apprendere che non era un termine dialettale per dire orso.

 Ci trasferimmo ulteriormente, stavolta al Nord, e sempre in una scuola pubblica finii il ciclo delle elementarie- Deo gratias!- , senza altri trasferimenti, proseguii gli studi fino al liceo. Ebbi finalmente l’opportunità di confrontarmi con i  maschietti in una classe mista. All’inizio fu uno sfacelo. Ero in una classe di bambini pestiferi. Tutti erano incuriositi da me perché non conoscevo le parolacce locali, ma recuperai in fretta. Riuscii ad impormi nel gruppo di coetanei perché ricordavo tutti i numeri delle figurine e mi destreggiavo bene nel contrattare gli scambi.

 Della maestra però non ho un bel ricordo: altro che integrazione e pari opportunità… Grazie a lei e alle mie corna di ariete e toro messe insieme in una spaventevole caparbietà caratteriale, decisi di riscattarmi in un altro modo cioè dimostrando che anch’io potevo essere brava a scuola, ma esclusivamente  per un senso personale di rivalsa. Del suo plauso per il mio buon rendimento scolastico non m’importava nulla, perché percepivo una sorta di discriminazione che riguardava la mia persona e la mia sudicia (del sud) provenienza.

 A distanza di tempo la ricordo ancora. Senza rancore, forse con un po’ di sufficiente tolleranza. In fondo s’adoprava come meglio sapeva fare, rispecchiando la sua formazione.

 E qualcuno rimpiange nostalgicamente l’insegnante unico? In una società che richiede sempre più capacità di confrontarsi ed elasticità mentale, mi pare un contraddittorio anacronismo rispondente più all’esigenza di contenere la spesa pubblica che ad un’ottimizzazione di risorse per migliorare la scuola. 

Il fascino della matematica

Con  questo post  offro il mio limitato contributo al  Carnevale  della Matematica #57  su Matem@ticaMente di Annarita. Ringrazio inoltre  le amiche matematiche  Annarita e Giovanna che gestiscono con passione e costante impegno siti didatticamente interessanti e utili.

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Mi scontrai con la misteriosa matematica sin dal primo giorno di scuola quando “uno strano segno circolare, sbarrato da una linea obliqua, premiò i miei primi sforzi  scolastici. Dalla veemenza con cui era stato inciso e dagli strepiti della suora, intuii che aveva un brutto significato. Era uno Zero Spaccato. Io guardavo quel nuovo sgorbio affascinante: lo Zero spaccato, sbarrato, tagliato che,  nel resoconto che diedi ai miei genitori , chiamai Zero scappato.  Ma perché sbarravano gli zero? Per timore che vi anteponessero un 1 e si trasformassero in 10?  Per sottolineare che era irrimediabilmente zero…un insieme vuoto, un annullamento senza speranza di rimedio? Per un bambino che non conosce il significato dei numeri che poteva significare? Infatti io non conoscevo lo zero scappato e mi chiedevo perché mai fosse scappato sul mio quaderno”.  

 Insomma a causa delle mie involontarie prodezze grafiche  mi imbattei nel signor Numero per eccellenza, il più enigmatico, controverso, incomprensibile, a volte neutrale a volte annullante, l’unico che non poteva omaggiarsi di un + o di un , quello che marcava il confine tra numeri positivi e negativi e non compariva fra i giorni del calendario, se non accompagnandosi ad altre cifre, ma in compenso regnava sulla linea del tempo segnando la nascita di Cristo.

 Da piccola apprendevo facilmente i meccanismi operativi ma  avevo difficoltà nel risolvere i problemi. Nei testi c’erano sempre una mamma che andava a fare la spesa e un fruttivendolo che vendeva mele e pere, fiori che, liberati dai mazzi, si moltiplicavano per essere poi distribuiti  nei vasi, caramelle regalate dalla nonna e mangiate da voraci nipoti, figurine che entravano e uscivano dagli album. Negli anni delle scuole medie, forse maturando un po’, si sbloccò la logica.

Tra fiumi di vino travasati dalle e nelle damigiane, lunghe distanze percorse dal signor Caio su e giù per l’Italia e innumerevoli camion che trasportavano di tutto mi districavo nelle equivalenze, saltellavo tra numeratori e denominatori , aprivo e chiudevo parentesi operando tra polinomi, ruotavo la testa negli angoli e sul quadrante dell’orologio, scioglievo nella mente ettometri di rete per recintare campi di patate di varie forme di cui poi dovevo calcolarne la superficie, disegnavo maldestramente  cubi  appoggiati su  parallelepipedi o  sormontati da piramidi .Finalmente la matematica iniziò a piacermi grazie soprattutto ad un’insegnante, che sapeva spiegarla e motivarmi, e a mio fratello che di sera smetteva di scrivere velocemente indecifrabili numeri e formule per aiutarmi nei compiti.

 Cominciai a livello intuitivo a matematizzare la realtà riconoscendo che  la spesso considerata bestia nera del curricolo scolastico  è ovunque e di uso comune: nella sequenzialità delle più semplici azioni quotidiane, nelle compravendite, costruzioni,  ricette, melodie, attività di ricamo e cucito, giochi di carte e scacchi, profitti e deficit, tempo e spazio. 

Ancor oggi nelle mie limitate conoscenze, la  matematica mi affascina.  Mi appare come il mondo di enunciati certi, possibili, probabili, impossibili, del magico prodotto positivo di due numeri negativi, degli enigmatici numeri primi, delle curve ascendenti e discendenti, della sezione aurea che da sempre si trasmette nella perfezione della natura a differenza delle impercettibili asimmetrie del corpo umano, dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo.

 È il mondo di abilità concatenate che velocizzano il pensiero: contare per contare, manipolare oggetti e materiale strutturato per quantificare e costruire il concetto di numero dentro di sé, interiorizzare simboli, ordinare, seriare, confrontare quantità, numeri e  grandezze, misurare, classificare e mettere in relazione, sommare, sottrarre, moltiplicare, dividere, elevare, estrarre, evidenziare, calcolare rapidamente a mente  fino ad acquisire automatismi operativi, semplificare … semplificare tutto per arrivare al risultato esatto. Se il risultato finale è errato, occorre ricominciare o rivedere con pazienza  tutti i passaggi  per trovare l’inghippo, l’errore che è lì da qualche parte. La matematica si impara per errori e anche l’errore ha una sua logica. Anche la discalculìa ha una spiegazione e richiede  strategie alternative, dispensative e compensative per aggirare le difficoltà e poter accedere a questo mondo. 

Nella matematica però c’è un qualcosa che affascina e va al di là dei contenuti, del  gioco, dell’esercizio, dell’ allenamento coi numeri e con le procedure perché  plasma  una  forma mentis elastica, pronta e rigorosa allo stesso tempo. Costruisce  il ragionamento sin da piccoli quando nella risoluzione di problemi si impara a rilevare dati, individuare la domanda per selezionare quelli utili, osservare, formulare ipotesi risolutive, procedere per verificarle,  a volte per tentativi,  trovare la soluzione, ricostruire infine a voce il significato delle operazioni per riflettere sul procedimento seguito e confrontarlo con altri possibili. 

La matematica è misteriosa come la mente umana, è il bandolo di una matassa che si snoda per gradi ove, grazie ad un’iniziale intuizione, passo dopo passo  si giunge poi alla conoscenza e, ad alti livelli, alla pura astrazione.

È frutto del pensiero divergente di menti curiose che in  ogni epoca e civiltà, partendo da un’osservazione o da una scintilla iniziale hanno astratto regole, formule  e procedimenti. Non a caso molti matematici sono stati anche liberi pensatori che spesso hanno precorso i tempi e, con rinunce, hanno scontato il loro amore del sapere e la loro genialità applicata anche ad altri campi e arti. Penso a quelle donne che  coltivarono di nascosto questa loro passione in epoche in cui  lo studio era una prerogativa maschile, come la bella  Ipazia di Alessandria, alla quale di recente hanno reso merito col  film “Agorà”, o   Marie Sophie Germain che, pur di studiare, nascose il suo talento dietro un’identità maschile.

La matematica non si improvvisa. Si conquista gradualmente solo se si comprende. Bisogna  farla propria per padroneggiarla procedendo  secondo nessi logici. Tutto ciò la rende accessibile e consente di amarla. La sua mancata  comprensione mette di fronte ad ostacoli che sembrano insormontabili e respingono, causano insofferenza o  paura di cimentarsi  e mettersi alla prova. Per apprenderla è necessario essere guidati e sostenuti, come in ogni processo di crescita  lento e completo. In effetti sviluppa competenze basilari, aiuta a valutare, collegare cause ed effetti, considerare variabili per calcolare incognite, ipotizzare e dedurre, individuare e rivedere errori per trovare soluzioni, immaginare ed astrarre.

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