‘A fatica

È una necessità , un’ambizione, una passione, una vocazione, una missione, una fortuna . A volte frustrazione e rinuncia. Una sfida. Indipendenza e dipendenza, flessibilità, mobilità, sedentarietà, movimento, lontananza. Crescita, progresso, relazione, interesse, confronto, competizione, creatività, ingegno, manualità, talento, concentrazione, soddisfazione o scontento, ripetitività, alienazione, allenamento e resistenza. Operosità. Responsabilità.

Assorbe, sfibra, motiva, gratifica, stanca, logora, stressa, arricchisce, sfrutta, condiziona, orienta. Tempra. Mette in gioco… a volte in discussione. Costruisce un progetto di vita più ampio, dà dignità e identità sociale, nobilita, talvolta abbrutisce.

 Qualunque esso sia, è il lavoro: investimento di tempo, energie, risorse, capacità, competenze, potenzialità, impegno, costanza, fatica. Diritto della persona e dovere sociale.

Morire sul lavoro è cadere con onore sul fronte di una quotidianità che appartiene a tutti.La morte bianca assolve nel martirio ma ci condanna a un intimo dolore.

 Oggi aggiungo che  i suicidi dei nuovi martiri del lavoro  ci marchiano a fuoco  con un bruciante  senso di colpa di fronte a tanta impotenza e negazione di questo basilare diritto-dovere. Sono tempi difficili in cui c’è ben poco da festeggiare; è tempo di aiutare concretamente i disoccupati e coloro che vivono il lavoro in condizioni di precarietà e di sfruttamento. È tempo  di dare  risposte sociali più concrete, di garantire ‘a fatica. 

6 pensieri su “‘A fatica

  1. La tua definizione del lavoro e dei suoi significati è splendida. Resta una grande amarezza per l’insensibilità di chi ci governa, seduto tranquillamente su una poltrona che dà ricchezza e potere e che misconosce i nuovi martiri. Tempi durissimi, non ricordo nella mia lunga vita, di averne mai vissuti di simili, neppure quando, essendo nata subito dopo la guerra, si viveva con poco sì, ma si risparmiava in vista di acquisti importanti che alla fine ci si poteva permettere.

  2. Mi chiamo ‘O Guaglione. Tengo dodici anni ma però mi porto cchiù gruosso. Di mestieri ne ho già ho fatto venti, anzi ventuno se ci metto pure quello quello di fare la spesa alle signore dentro i bassi che la sera e la notte fanno la vita. ‘Oi mà Colomba Mammazezzella però mi ha detto: – Basta, questo non è un mestiere -.

    Poi ho fatto ‘o scarparo, il salumiere che porta la spesa alle signore dei palazzi. Quelli che stanno di casa dal primo piano in poi sono tutti signore, mentre giù nei bassi ci stanno le donne che chiamo con il loro nome. Ho fatto il lattaio: mi svegliavo alle cinque di mattina e insieme a don Mimì azzeccacartielli andavamo di casa in casa e di piano in piano. Quando le signore dei piani alti aprivano la porta si sentivano odori diversi dalle case dei piani bassi. Ho fatto il pittore non di quadri ma di case; poi il muratore e l’idraulico. Anche il panettiere e il fruttivendolo. E per una settimana il pasticciere da don Ciccio ‘o chiattone. E mi ricordo che la prima fatica è stato ‘o ferraro, che in italiano le signore di sopra dicono il fabbro. Quando la mattina entrava nella puteca sentivo l’odre del ferro penetrarmi dint’a ll’ossa, poi a fine giornata i vesttiti puzzavano di polvere di ferro. E le mani erano tutte nere sotto e ‘ncopp’. Ma prima di passare e spassare annanz’ a casa, cioè ‘o vascio di Lucia, andavo a casa e mi sceriavo nella bagnarola fino a quando le mani diventavano del colore naturale, anche se sanguinavano. Quando facevo il guardamacchine a scuola non ci andavo più. Tenevo sette anni e mezzo. la prima e la seconda li ho fatte a botte e scoregge e pernacchie. E anche con le sputazzate e i calci nell’aria.
    Se c’era qualche mio nemico era di sicuro nell’aria, ma non si faceva vedere e allora tiravo calci e maleparole per colpirlo una volta e per sempre.

    Io e la scuola non andavamo d’accordo. C’era qualcosa che in lei non mi convinceva. I maestri stavano sempre dall’altra parte. E dall’altra parte era una cosa sempre distante e lontana. Ti guardavano con quelle facce di chi sa il tuo nome e cognome ma non ti conosce. E non vuole conoscerti. Quando suonava la campanella dalla scuola elementare uscivo per sempre: un addio senza fine.

    Se oggi scrivo è per un mistero; il mistero della storia. Per capire la storia, e dico la storia orale, guardavo le foto dei morti di famiglia e quelli dei miei cumpagnielli nelle loro case, cioè i bassi. Quando quelli dei bassi tenevano il mazzo smafarato che si affittavano una casa ai piani superiori, ma subito si vedeva che venivano dai bassi:
    dentro la casa era tutto rovinato e scassato; parati, sedie, mobilio e anche i piatti per mangiare tutti scardati torno torno. A ‘vierno, quando faceva freddo e pioveva andavamo in cerca insieme ai miei cumpagnielli della banda in cerca del ferro, dell’allumini, del chiummo e d’a ramma, mettevamo tutto in una borsa e lo portavamo da don Gennaro ‘o sapunaro che poi tirava sempre sul prezzo, ma noi alzavamo il prezzo e dicevamo che la prossima volta ‘a robba la portavamo dal suo nemico, don Rafele Baffone, che in verità era ‘nu mariuolo ancora peggio. Noi però facevamo tutte quelle cose anche per guadagnare tempo: don Gennaro teneva la figlia di quindici anni che era ‘na cerasella bell’assaje; ognuno di noi la guardava a bocca aperta. prima di andarcene don Gennaro ci pagava e diceva: – Chiudete a vocca ca ce vanno le mosche – Ridevamo, ma poi diventavamo rossi come
    i cerasielli. Cenzina ‘a cerasella teneva ‘o culo a mandulino e ddoje mummarelle pe’ zizze: sai lo spasso a toccarle e baciarle. Essa, salutava e rideva. Marò che ù bellizze. In estate andavamo giù alla litoranea a tuffarci per vedere sotto le barche e tra gli scogli ragni felloni, cozze, vavose, marvizzi, pintarrè, mazzoni e scorfani.

    Quando non lavoravo insieme agli altri facevamo la guerra alle altre bande dei vicoli. Oppure facevamo ‘O vient’e terra. Correvamo in gruppo da un capo a l’altro del vicolo gridando ‘O vint ‘e terra e mandando all’aria tutto quello che trovavamo lungo la nostra corsa. Le parolacce e le jastemme che ci lanciavano le donne erano erano arrabbiate e feroci, perché se ci prendevano ci facevano il mazzo rognole rognole.

    Ma però, dovevo portare i soldi a casa per due motivi:1) non andavo a scuola, e se non andavo a scuola, dovevo imparare un mestiere;2) in famiglia compresi i due nonni materni eravamo in tredici. A Colomba Mammazezzella l’ultimo di noi, che poi erano gemelli, li fece a quarantasei anni e spesso amava racconatare. -E dire che avevamo tolto tutto di mezzo . – Io sorrideva ma tra me pensavo: – Oi mà, ma non tenevate nemmeno ll’uocchie pe’ chiagnere. Per esempio la culla non era mai esistita. L’ultimo che nasceva girava come un sacco di patate tra un letto e l’altro.

    Ma io vado a faticare dove mi pagano di più. Per esempio fare il guaglione del bar che porta i caffè tra i negozi e le puteche si guadagnano le mazzette. Poi se tieni la parlantina e ci sai fare ti prendono in simpatia e ci esce sempre qualche mancia in più. A me mi chiamano Ze pochiello ‘o bellillo. Ho gli occhi neri e i capelli ricci. Quando rido, ridono anche gli altri, comprese ‘e femmene piccerelle e quelle più grandi che lavorano come orlatrici e revettatrici nelle puteche dei calzolai.

    Mò per trovare ‘a fatica ce vò la mano di Dio, almeno accussì diceno. Ma io dico ca dio nun ce azzecca niente. Sta scritto ca dio nobilita l’uomo, ma allora ‘e chisti tiempe ce stanno cchiù bestie ca uomini. Io invece conosco bestie che sono mille volte meglio degli uomini e gli uomini che sono peggio ma peggio assai ‘e ll’uommene, specie ll’uommene di potere.

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