Cose da non credere…

Qualche giorno fa,  mentre leggevo post sulla buona educazione e su alcuni casi di mancanza di rispetto, mi sono ricordata di una cosa strana che mi è capitata a Roma. Premetto che mi ero trasferita da qualche giorno e quindi mi sentivo frastornata nonché spaesata in quella moltitudine di strade e persone sconosciute. Era luglio e andai a fare la spesa prima che esplodesse l’insopportabile afa delle ore calde. Stavo in coda in un supermercato di prodotti per la pulizia della casa, per fortuna poco affollato.

 Avevo già sistemato la mia spesa sul nastro trasportatore e messo il divisore per consentire alla cliente successiva di sistemare la sua. Poi mi sono spostata avanti per mettere i prodotti nelle buste . Una signora, più o meno cinquantenne che era dopo di me, con nonchalance ha preso il “mio” Cif spray e lo ha messo sul nastro tra le cose che doveva pagare. Prontamente la cassiera è intervenuta dicendo che il Cif spettava a me e che aveva visto che l’aveva preso. D’altra parte io, sinceramente presa alla sprovvista da siffatto insolito e improvviso interessamento al mio Cif, ho solo ribadito che l’avevo preso io. La signora ha iniziato a strillare che era suo e che ci sbagliavamo. A sua volta la cassiera con tono deciso e forte “Ahò , t’avemo visto sai? Stava de quà, e tu ll’hai messo de llà. Cose da non crede… ” 

 L’altra sbraitava, quindi

A: avrei potuto strattonare il mio Cif , metterlo in busta e scappare dal supermercato, come un giocatore di rugby che prende la palla e corre verso la meta ;

B : fare una plateale sceneggiata napoletana con un finale intervento dei carabinieri e dei giornalisti e finire sul giornale per il Cif sfacciatamente rapito;

 C : mollare due ceffoni alla signora, riprendermi il Cif e scappare;

D : dire ” Signò, lo tenga pure, si vede che quello degli altri pulisce meglio “

E: mettermi a piangere e muovere a compassione la “rapitrice” del Cif.

 F: spargere il Cif sul pavimento gridando :”Se non potrà essere mio, non lo sarà di nessuno”.  

A voi la parola .

I casi della vita

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Tutti, chi più e chi meno, abbiamo sofferto del mal di scuola, talvolta per il disagio dimettersi alla prova nello studio, in un rapporto “conflittuale” con i compagni di classe o con uno o più insegnanti. Mettersi in gioco, come alunno e come docente, implica un reciproco, ma non scontato, dare per avere. In fondo a scuola il ragazzo si confronta con coetanei e adulti, che fanno richieste diverse da quelle dei familiari e stabiliscono un’interazione basata sulla stima reciproca e sulla motivazione all’ apprendimento.
Penso però che ognuno di noi abbia vivo dentro di sé anche il ricordo di un bravo insegnante, non necessariamente accomodante o indulgente nei voti, ma imparziale, obiettivo, appassionato. Un insegnante che sapeva distinguere il momento della lezione dalla libera conversazione, che non s’arroccava su un piedistallo ma sapeva porsi , senza confusione di ruoli, a livello dell’alunno accompagnandolo nella sua crescita con una presenza apparentemente distaccata ma costante.

Dopo le movimentate vicissitudini  di scuola elementare  in cui ebbi l’onore di conoscere uno zero scappato sul mio quaderno, trascorsi gli anni delle scuole medie in una classe turbolenta con ragazzi problematici, alcuni dei quali erano veri e propri bulli, tant’è che picchiarono il professore di lettere, un prete che insegnava nella scuola statale, incapace di difendersi anche verbalmente . All’epoca gli altri docenti intervennero compatti  nelle dinamiche relazionali della classe per garantire in qualche modo il diritto dovere allo studio a chi voleva imparare ed era intimorito da certi atteggiamenti. Stimavo di più l’insegnante fermo, risoluto, deciso a fare lezione a mantenere la disciplina che quello rilassato che assecondava i ragazzi  che imperterriti continuavano nelle loro provocazioni. Anni fa non si parlava di disagio giovanile e rischio di devianza come oggi. Alcuni di quei compagni di classe non arrivarono nemmeno a vent’anni, il resto continuò gli studi. Eppure della scuola tutto sommato ho un duplice ricordo. Un po’ angosciante se penso a certi insegnanti che rispecchiavano la loro formazione, non sempre  efficace, e ad alcuni odiosi compagni di classe. Integrarmi  più volte in un contesto nuovo, diffidente e poco accogliente non è stato facile, ma imparai a  selezionare le mie amicizie, a  fregarmene di alcuni e a  battagliare con altri e il successo scolastico fu per me anche un mezzo per affermarmi nel gruppo con un senso di rivalsa e riscatto. Allo  stesso tempo della scuola ricordo anche amicizie sincere, sopravvissute a distanza di tempo e spazio, e  insegnanti  coscienziosi come la mia professoressa di storia e filosofia . Mi incantava con le sue spiegazioni, mi motivò nello studio trasmettendomi interesse per le sue materie, che reputo molto formative, e un metodo di studio basato sul confronto di diverse interpretazioni storiografiche di fenomeni ed eventi storici. Precorse  i tempi insegnando la storia per filoni conduttori costanti, per favorire,  prima attraverso  l’analisi e poi la sintesi, una visione globale in un’ottica di cause effetti, senza  uno studio esasperato di nozioni.

Era imparziale, autorevole e molto esigente, ma metteva i ragazzi in condizioni di essere all’altezza delle sue richieste durante le temute interrogazioni. Non assegnava mai una lezione se non l’aveva prima spiegata, integrava e approfondiva il libro di testo, ci faceva prendere appunti  e fare collegamenti interdisciplinari. Aveva il tempo per interrogare tutti, anche perché al quinto anno di liceo  eravamo soltanto in  dieci, ben tartassati tutte le settimane, e se registravamo un’insufficienza, rispiegava l’argomento e ci interrogava  di nuovo per farci colmare le lacune.  Non ci ha mai fatto fare una verifica scritta, eppure i nostri temi di storia furono ben valutati all’esame di maturità.  Sembrava indifferente, ma dietro i suoi occhi azzurri e intelligenti, capiva più di quanto non desse a vedere. È stata una delle poche persone che riuscì a leggermi dentro in un periodo che per me era di gran confusione e perplessità. Me lo disse al termine del ciclo di studi delle superiori. Finito l’esame di maturità, che sostenni per ultima nell’ultimo giorno delle prove orali a fine luglio, semimorta a causa dell’ansiosa attesa del fatidico giorno e della tremarella, al risveglio di un sonno ristoratore di 27 ore  durante il quale i miei si chiesero se fosse il caso di  chiamare un medico o un prete, seppi che voleva parlarmi. Mi chiedevo cosa fosse successo di grave… o cosa avessi inconsapevolmente combinato.  Mi disse che aveva apprezzato il mio impegno nei tre anni e che  a  volte le occhiaie di una notte insonne parlavano più di me  e che, secondo lei, ero portata per la filosofia.  Allora la sola idea di diventare un’insegnante mi faceva scappare in tutt’altra direzione. Oggi ne sorrido ma allora vivevo in pieno la contestazione di qualsiasi cosa. Non condividevo le sue parole ma  solo dopo molti anni ho concluso che non si era sbagliata. Il mio primo esame universitario fu filosofia del diritto che  preparai senza sapere da che parte cominciare. Mi interessava la materia e la studiai nell’incertezza di avere capito e nel  dubbio perenne  di non saperne abbastanza. A Genova mi  iniziò ad interrogare un assistente universitario, poi si avvicinò il professore che continuò il colloquio. Io lo conoscevo solo di fama e non pensavo ad altro che a schizzare via dalla sedia. Alla fine del colloquio ritirai il libretto, lo aprii e non vidi nessuno scarabocchio, quindi pensai di essere stata bocciata, ma con la stretta di mano. Un ragazzo mi disse che era il suo ultimo esame prima della discussione della tesi e io  con l’anima sconsolata, alla sua richiesta, gli porsi il libretto,  lo girò e scandì un 29 . Non sapevo se ridere per il voto o piangere per la mia imbranataggine. Brillavo in autostima al punto tale che qualche anno dopo mollai gli studi, sebbene avessi una media alta e  mi mancasse un terzo degli esami per concludere il corso di laurea. Grazie però a quella professoressa  ho vissuto di rendita nella preparazione per una seconda maturità che sostenni da privatista più tardi, quando mia madre pose come condizione al mio matrimonio il conseguimento del diploma magistrale “perché nella vita non si sa mai cosa può succedere.” Portai nuovamente storia come prima materia. Il presidente della commissione era un severo preside di Varese, che mi fece fare un excursus filosofico ( meno male che portavo storia) e in cuor mio benedissi gli appunti del liceo  che avevo conservato come sacre reliquie.

Ho rivissuto un po’ la stessa trepidazione durante gli esami di maturità dei miei figli e tra le loro ansie, i libri e quaderni sparsi ovunque e le nottate di studio ho ripensato a quegli anni, a quell’ insegnante che  avrei voluto ringraziare ma mancò  dopo pochi mesi  dal nostro incontro in seguito ad una malattia di cui non parlava mai. Alla vigilia di ogni nuovo anno scolastico, che per me coincide con l’inizio delle lezioni che mi motivano nella scuola, rileggo come vademecum la traccia del tema della maturità magistrale che svolsi: Einstein, rivolgendosi ai giovani, disse loro: “Tenete bene a mente che le cose meravigliose che imparate a conoscere nella scuola sono opere di molte generazioni: sono state create in tutti i paesi della terra a prezzo di infiniti sforzi e dopo appassionato lavoro. Questa eredità è lasciata ora nelle vostre mani, perché possiate onorarla, arricchirla e un giorno trasmetterla ai vostri figli. E così che noi, esseri mortali, diventiamo immortali mediante il nostro contributo al lavoro della collettività“. Riflettete su questo appello a voi indirizzato.

Iniziai a scrivere ma  non ero convinta,  ricominciai il tema daccapo seguendo il bandolo di una matassa che pian piano si sgrovigliò dentro di me facendo emergere quei principi fondanti dell’insegnamento che all’epoca non conoscevo, ma  che forse avevo appreso indirettamente e inconsapevolmente dalla mia scuola, cioè da quella che avevo vissuto tra luci e ombre. Più tardi li ho ritrovati in occasione della preparazione per il concorso magistrale e ormai mi appartengono.

Il tema  piacque alla commissione e mi iniziò a fare capire quale fosse la mia strada. Lo scrissi  con l’anima pensando soprattutto alla mia professoressa che a tutt’oggi ricordo con grande stima, sia come insegnante che come persona. Grazie prof !

 

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  Dipende da come ci si pone…