Le stelle filanti

 

 

Le stelle filanti 

Perché si chiamano stelle filanti?
Non sono mica stelline del cielo?
Ma sono strisce a colori sgargianti,
fatte di carta che pare di velo.
Sembran piuttosto festoni gettati
da casa a casa, da pianta a pianta;
collane, dondoli colorati,
dove il vento ci balla e ci canta.
Poi, le notti di luna piena
un raggio d’oro ci fa l’altalena.

 

Mario Lodi

 

Diversità ovvero non fa la stessa viva sensazione il solletico a tutte le persone

Diverso è colui che si presenta con un’identità, una natura, una conformazione nettamente distinta rispetto ad altre persone. Si tende a riferire la diversità  all’ etnia, al sesso, alla religione, alla condizione sociale o personale. Diverso da chi?

 In genere diverso è chi si discosta dal gruppo prevalente che, con la sua precisa fisionomia ed intrinseca e distintiva omogeneità, dà un senso di appartenenza culturale e sociale.  La diversità più evidente può suscitare disagio in chi si identifica nei più: spesso suscita curiosità, perplessità, talvolta timore…mai comunque indifferenza. Di primo acchito si percepisce la diversità perché radicati alla propria identità, abituati e ancorati a fissi parametri di riferimento. Penso anche all’omologazione estetica che fa capo a modelli stereotipati, propinati dalla moda del momento, imposti sempre più dai media e tacitamente condivisi. In questa dominante uniformità, dettata da un senso di appartenenza e di sicurezza, in realtà esiste una diversità nella sfera emotiva e cognitiva dei singoli.

Nella collettività apparentemente uniforme dei più, ciascuno ha una propria specificità e individualità, che va oltre i dati anagrafici e  le proprie radici. Ne sono prova  la varietà di pensieri, sensazioni, emozioni, sentimenti: in parte sono universalmente sentiti, anche se generati da diversi contesti di vita, altri sono affini, ma non sempre uguali, altri ancora opposti, contrastanti o, per meglio dire, semplicemente diversi. Inoltre ciascuno  ha una propria indole e carattere, attitudini, convinzioni, fede, abitudini che lo contraddistinguono e influiscono o condizionano  scelte diverse.

 La diversità però non è solo tra i singoli, ma si sviluppa pian piano anche nel singolo.Col tempo la persona si arricchisce grazie alle diverse esperienze sociali, culturali, professionali e nelle varie fasi della vita cambia e diviene. Acquisisce capacità, competenze, responsabilità, potenzialità diverse. Nutre ambizioni, aspettative ed interessi diversi. Vive esperienze, occasioni di scontro, confronto e crescita diverse. I più evidenti mutamenti naturali sono accompagnati da cambiamenti più profondi, non sempre consapevoli, che riguardano il modo di pensare, di sentire e di rapportarsi, di aprirsi o chiudersi al mondo esterno e agli altri. La vita e l’età cambiano l’individuo in  un impercettibile talvolta ciclico divenire che fa parte del processo di maturazione della persona. Si diventa un po’ ibridi di se stessi, extracomunitari del proprio io originario.

In tenera età si parte da una visione egocentrica e gradualmente si costruisce prima la percezione di sé e della propria identità personale e collettiva, per poi cogliere la diversità altrui come un qualcosa di avulso da sé nelle sue molteplici forme, imparando pian piano a confrontarsi e, si spera, ad accettarla e rispettarla. Ciò non implica necessariamente condivisione, ma riconoscimento della diversità per poi passare ad un’eventuale e successiva volontà di conoscerla.

Chi reagisce con ferma e rigida chiusura è ancora agli inizi di un processo di maturazione, erge un muro senza spiragli dentro di sé. Mi è piaciuta molto l’immagine della porta scorrevole in  “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery, un romanzo eccezionalmente delicato sia nella forma che nel contenuto.

Rifacendosi ad un film giapponese, la protagonista riflette

“…ero rimasta affascinata dallo spazio vitale giapponese e dalle porte scorrevoli che rifiutano di fendere lo spazio in due e scivolano dolcemente su guide invisibili.

Giacchè quando noi apriamo una porta, trasformiamo gli ambienti in modo davvero meschino. Offendiamo la loro piena estensione e a forza di proporzioni sbagliate vi introduciamo un’incauta breccia…” A riguardo di una porta aperta “ nella stanza dove si trova, introduce una sorta di rottura… che spezza l’unità dello spazio. Nella stanza contigua provoca una depressione, una ferita aperta e tuttavia stupi

da, sperduta su un pezzo di muro che avrebbe preferito essere integro. In entrambi i casi turba i volumi, offrendo in cambio soltanto la libertà di circolare, la quale peraltro si può garantire in molti altri modi. La porta scorrevole, invece evita gli ostacoli e  glorifica lo spazio. Senza modificarne l’equilibrio, ne permette la metamorfosi. Quando si apre, due luoghi comunicano senza offendersi. Quando si chiude, ripristina l’integrità di ognuno di essi. Divisione e riunione avvengono senza ingerenze. Lì la vita è una calma passeggiata, mentre da noi è simile a una lunga serie di violazioni.”

 

Un equilibrato, pari, moderato, rispettoso scambio di aperture e chiusure, di simultaneo confronto all’ esterno e radicamento alla propria individualità. Forse per riconoscere la diversità basterebbe la fluidità di una porta scorrevole.

 

Giù la maschera

 

Nelle antiche feste religiose pagane si faceva uso delle maschere per allontanare gli spiriti maligni, finchè con il  cristianesimo questi riti persero il carattere magico e divennero semplicemente forme di divertimento popolare.

Durante il Medioevo e il Rinascimento i festeggiamenti in occasione del Carnevale furono introdotti anche nelle corti europee ed assunsero forme più raffinate, legate anche al teatro, alla danza e alla musica.

 Oggi il Carnevale si esprime attraverso il travestimento, le sfilate di maschere e carri allegorici e rappresenta un’occasione di festa  nel  periodo che precede il mercoledì delle ceneri, primo giorno di Quaresima.

 Mi affascina l’eleganza austera e statuaria dei personaggi che in un trionfo di colori spiccano tra le calle, i canali e i palazzi della Serenissima. Ogni anno rivivono in una dimensione sfarzosamente irreale comparse teatrali sospese nel tempo, misteriose nei sorrisi indecifrabili e negli  sguardi imperscrutabili in  un’armoniosa coreografia di drappeggi, trine, piumaggi e fantasiose acconciature e copricapi.

 La maschera: intrigante espediente per rivelare una tantum ciò che si vorrebbe essere e azzardarsi in sembianze esilaranti, talvolta provocatorie, conturbanti per apparire diversi, stupire, divertirsi e divertire al di là dell’immaginazione. Realtà e finzione si amalgamano sul palcoscenico del proprio Io. Persona e personaggio convivono tenendosi sotto braccio senza alcun limite, timore, perplessità, inibizione grazie ad un’indulgente, incondizionata, liberatoria concessione ad un’identità insolita. Come quando da bambini si giocava ad indossare i vestiti e a calzare le scarpe degli adulti per provare a sentirsi grandi, in una dimensione che non ci apparteneva ma si ambiva di emulare. Il Carnevale è soprattutto la festa dei bambini che, più flessibili e capaci di adattarsi ad un’identità transitoria, mitica, gratificante, si  divertono nell’ incanto di un mondo in cui la fantasia può concretizzarsi nel reale. Da adulti si cede al disagio, almeno iniziale, di spogliarsi da maschere più concrete e apparentemente normali. Quelle che talvolta  si indossano per fingere compiacenza, sicurezza, serenità in funzione degli altri e dei propri ruoli. A volte è necessario, a volte è una menzogna recitata principalmente a se stessi. Nessun giudice è più equo della consapevolezza che si raggiunge quando si regge il proprio sguardo allo specchio, riuscendo a coglierne la trasparenza. Bagliori naturali e spontanei. Immunemente incondizionati e  originari. Spudoratamente autentici. Senza maschera.

I bambini nascosti e Irena Sendler

Durante l’Olocausto furono assassinati circa due milioni di bambini. Si stima che circa venti, trentamila bambini di età inferiore ai quattordici anni, tra i quali molti neonati, siano sopravvissuti alla guerra perché affidati dai genitori a persone di buon cuore  e a istituzioni cristiane o perché rimasero a lungo nascosti in vari rifugi . Alcuni bambini nascosti sopravvissero da soli nelle foreste e nei fienili, vivendo in un continuo stato d’allerta.

“Non eravamo come gli altri. Nessun altro poteva capire il nostro passato. Noi, i bambini dell’Olocausto, eravamo stati ignorati, le nostre parole troppo deboli per essere ascoltate. Invisibili, portavamo il nostro fardello in silenzio e da soli.

Avevo 12 anni nel 1942 quando, nel pieno della notte, dei soldati tedeschi a Żabno, in Polonia, dove vivevamo, mi puntarono addosso una pistola e mi chiesero dove fosse mio padre. Dissi che non lo sapevo. scesero nello scantinato dove mio padre si nascondeva e gli spararono a morte. Mia madre, mia sorella Rachel e io dovemmo fuggire in un fattoria nelle vicinanze…

La proprietaria ci fece rimanere controvoglia, ignorandoci totalmente. Rimanemmo lì per due anni e mezzo.In tutto quel tempo non ci diede mai nemmeno un bicchiere d’acqua…Potevo uscire solo quando non c’era la luna. Se mi avessero visto sarei stata spacciata…dovevamo bisbigliare – per due anni e mezzo non parlammo mai con un tono di voce più alto del sussurro! Né potevamo uscire con la luce del sole. Eravamo attaccati alla vita con un filo sottile, sempre infreddoliti, con la paura delle ombre, di corsa, in ascolto. Ogni giorno, ogni notte, portava del nuovo terrore. Era un’esistenza veramente terribile ma, nonostante fossi così spaventata, non ho mai pensato di darmi per vinta “(Ann Shore (Hania Goldman), in seguito divenne presidente della Hidden Child Fundation).

Ci furono però anche persone che si esposero in prima persona per aiutare i più indifesi, cioè le migliaia di bambini che morivano di fame, freddo e tifo nel ghetto di Varsavia. Dal 1939 al 1942 nel ghetto furono trasferite dai villaggi centinaia di migliaia di ebrei; nel 1941 c’erano oltre 400.000 persone, tra le quali tanti bambini, che si pensava di sterminare lentamente per fame. I più piccoli impararono ad uscire dal ghetto, spesso attraverso le fogne, per raggiungere la zona ariana in cerca di qualcosa da mangiare per sé e per gli altri, sfidando tanti pericoli e la sorveglianza dei soldati. Quelli rimasti orfani furono abbandonati a loro stessi per le strade. In seguito furono deportati nei lager, perlopiù a Treblinka. (informazioni  tratte da “Il futuro spezzato- i nazisti contro i bambini”, di Lidia Beccaria Rolfi e Bruno Maida.)

Un‘infermiera ed assistente sociale, Irena Sendler, ebbe il permesso di lavorare nel ghetto di Varsavia; spesso si spacciò per tecnico di condutture idrauliche per collaborare con la Resistenza polacca e portare in salvo circa 2500 bambini ebrei, nascondendo i più piccoli nella cassetta degli attrezzi e i più grandi in un sacco di iuta. Si avvalse del prezioso aiuto di un cane addestrato a stare nel camion e ad abbaiare per avvisare dell’arrivo dei nazisti o per coprire il pianto dei bambini. Quando fu scoperta, Irena subì la violenza dei soldati tedeschi che le spezzarono braccia e gambe. A guerra finita cercò di rintracciare i genitori sopravvissuti di quei bambini, dei quali aveva scritto i nomi veri accanto a quelli falsi in elenchi ben nascosti in barattoli sepolti sotto un albero del suo giardino; sistemò molti orfani presso famiglie affidatarie ed istituti. Al parlamento polacco che nel 2007 la proclamò eroe nazionale, Irena scrisse “Ogni bambino salvato con il mio aiuto è la giustificazione della mia esistenza su questa terra, e non un titolo di gloria”

Tempo fa è stata proposta per il premio Nobel per la pace, ma non è stata nominata. Nel 2008 è volata via all’ età di 98 anni.

 

Le pietre d’inciampo per non dimenticare ( Giornata della Memoria)

“Foste i nostri liberatori, ma noi sopravvissuti, malati, emaciati, a malapena umani, fummo i vostri maestri. Vi insegnammo a comprendere il regno della notte” (Elie Wiesel, liberato a Buchenwald).

Il 27 gennaio ricorre la Giornata della Memoria in ricordo degli ebrei e di tutte le vittime dei campi di sterminio che hanno lasciato un segno indelebile nella coscienza civile. A Roma capita di imbattersi nelle pietre d’inciampo collocate dinanzi ad alcune abitazioni: si chiamano “Stolpersteine”, opere dell’artista tedesco Gunter Demnig realizzate su richiesta dei parenti di coloro che inciamparono in un tragico destino. Sono sampietrini ricoperti da una lastra di ottone sulla quale sono incisi il nome, la data di nascita e di morte, il luogo di deportazione di un perseguitato dai nazi-fascisti per motivi razziali, politici e militari. Inducono a fermarsi e a riflettere su un dolore profondo, di cui a stento si riesce a parlare.

La mattina di sabato 16 ottobre 1943 le SS irruppero nel ghetto di Roma e deportarono circa 1040 persone ad Auschwitz. Ne tornarono solo 17. Su 288 bambini e ragazzi da 0 a 15 anni, ne sopravvisse solo uno, Enzo Camerino nato nel 1928. Tra 288 giovanissimi c’erano 10 ragazzi di quindici anni, 15 di quattordici, 19 di tredici, 17 di dodici,16 di undici, 17 di dieci,10 di nove,16 di otto anni e 16 di sette,23 di sei,21 di cinque,24 di quattro,23 di tre,25 di due anni e 13 di un anno. Con loro muoiono 2 bimbi di 10 mesi, uno di 9, due di 8,due di 7,5 di sei, 2 di  cinque mesi, due di 4, tre di tre mesi, uno di 15 giorni e un neonato venuto alla luce poche ore dopo l’arresto della madre. Si aggiungano un bimbo e una bimba dei quali non si conosce l’età.

Di mattina presto un merciaio ambulante, Settimio Calò di 44 anni, abitante nel Portico d’Ottavia n 19 uscì da casa per fare la coda in una tabaccheria. Al ritorno trovò la casa vuota: i tedeschi avevano portato via la moglie, Clelia Frascati di 43 anni, e i 10 figli: Bellina di 22 anni, Esterina di 20, Rosa di 18, Ines di 16, Raimondo di 14, David di 13, Elena di 11, Angelo di 8, Nella di 6, Lello Samuele di circa 6 mesi. Con loro anche il cuginetto Settimio di 12 anni che quella notte per caso era stato ospitato dai Calò. Morirono tutti nelle camere a gas appena arrivati ad Auschwitz il 23 ottobre 1943. (informazioni  tratte da “Il futuro spezzato- i nazisti contro i bambini”, di Lidia Beccaria Rolfi e Bruno Maida. Libro dedicato alla piccola Sissel Vogelmann e a tutti i bambini assassinati.)

 

Ci sono libri che a volte possono cambiare la vita; nella loro documentazione storica sono un pugno allo stomaco, aiutano però a definire i valori fondamentali della vita. Ci sono descrizioni di obbrobri che una mente “normale” respinge nella sua capacità di immaginazione perché turbano troppo e lasciano dentro il monito “Mai più”, in nessuna parte del mondo, si ripeta quel delirante accanimento che non concedeva alcuna pietà, nemmeno nei riguardi dei bambini. Libri scritti perché “la condizione dei bambini non è una faccenda di lacrime o di buon cuore, ma il sintomo di un’umanità che, senza accorgersene, sta abdicando alla condizione della propria conservazione e alla conservazione della propria identità. Questa condizione si chiama trasmissione culturale che ha proprio nei bambini i loro destinatari. Dimenticarlo significa avviarsi rapidamente alla fine del mondo … “ (U. Galimberti  “Che cosa sono i bambini?”, in  la Repubblica ,24 marzo 1997).

 

La caffettiera rossa

 

La caffettiera rossa

è sempre in vista

nella mia cucina

pronta per l’uso.

Anche la miscela del caffè

è della stessa rossa qualità

come di notte dietro una tendina

la brace di una sigaretta

 

accesa

 

sul fornello la mattina

sprigiona serpentelli di vapore

borboglia  gorgotta  ritornella

in un crescendo spumoso al marron glaçè

tro tro tro tro      co co co dè.

 

Fiorella Lorenzi

 

Una delle tante belle poesie  della mia amica Filo.

Le tre C

Una leggenda yemenita  narra che un monaco, desideroso di  restare sveglio per poter pregare più a lungo, era solito preparare una bevanda con bacche sconosciute che eccitavano  capre e cammelli. Bevanda alla quale poi ricorsero in Arabia  altri monaci, pur di  sconfiggere sonno e stanchezza.

Si racconta  invece  che l’arcangelo Gabriele ricevette  direttamente da Allah una miracolosa pozione, scura come la Sacra Pietra Nera della Mecca, in grado  di rianimare  l’ammalato  Maometto o che un immenso incendio si propagò in un vastissimo territorio dell’Abissinia facendo diffondere e apprezzare  l’aroma delle tante  piante che vi crescevano spontaneamente.

Di cosa parlo? Del caffè!

Il caffè è uno dei piaceri più genuini e semplici della vita: talvolta servito a letto dalla dolce metà ( quale delle due?) o dalla padrona di casa in un cerimoniale basato sull’accogliente ospitalità, quasi sempre è espressione di  un rituale irrinunciabile da  eseguire diligentemente appena alzati o eseguito automaticamente da una moka con timer. È sorbito davanti al tg del mattino o  mentre si guarda il cielo della giornata e si inizia il rodaggio verso la quotidianità, gustato al bar per iniziare le relazioni sociali col mondo o proposto a qualsiasi ora del giorno per rompere il ghiaccio,  per fare una pausa  o per fermarsi e riflettere con calma.

 Il piacere vero sta nel sedersi, anche per pochi minuti, e gustare  il caffè tenendo fede alle famose  “ 3C”. Il  caffè, anzi un buon caffè, dovrebbe essere  “ comodo , carico e caldo” con la variante  “in compagnia”. Le tre C sintetizzano  metaforicamente anche i requisiti dell’uomo da sposare… e  più prosaicamente sono tradotte in “ comm’  ca**’ coce”.

La nota canzone   napoletana “ ’A tazza  ‘e cafè” paragona il caffè ad una donna riottosa che sotto una parvenza  amara cela un’indole   dolce che lo spasimante è deciso a far emergere a tutti i costi. Ben diverso e affascinante è  il  proverbio turco che lo definisce nero come l’inferno, forte come la morte, dolce come l’amore.

Quanti  modi di preparare un caffè, c’è  l’imbarazzo della scelta! Macchiato schiumato, corretto, ristretto, lungo, corto, doppio e ancora messicano, marocchino, turco, giamaicano, greco, Irish coffee, all’americana, al ginseng … Pare che ne consumiamo circa 600 tazzine all’anno pro capite.

 Voi come  lo preferite?

 

Canta, canta la cicala…

 

La cicala depone uova negli steli d’erba dalle quali a settembre si schiudono le ninfe che sprofondano nella terra; le larve di cicala vivono circa quattro anni sottoterra e, dopo i sette stadi larvali, raggiungono la maturità e iniziano una nuova vita all’ aperto. La cicala si nutre della dolce linfa delle piante, perforandone lo xilema ( tessuto vascolare); invece le formiche, insetti iperattivi di una comunità sociale super organizzata ove ogni componente ha un ruolo specifico ben definito, spesso sono attratte dalla linfa scoperta dalla cicala e accorrono per sfamarsi, costringendola a spostarsi e a trivellare la pianta in altri punti .

La famosa favola di La Fontaine   narra invece di una formica laboriosa e provvida che faticava sotto il sole per accumulare provviste per l’inverno, mentre la cicala si dedicava all’ozio estivo e al canto. Quando arrivò il freddo, la cicala affamata chiese aiuto alla formica ma

“La Formica che ha il difetto
di prestar malvolentieri,
le dimanda chiaro e netto:
– Che hai tu fatto fino a ieri?
– Cara amica, a dire il giusto
non ho fatto che c
antare 
tutto il tempo.– Brava, ho gusto;
balla adesso, se ti pare.”

Trilussa ribalta il finale in

La Cecala d’oggi”

 Una Cecala, che  pijava er fresco

all’ombra der grispigno (insalata) e de l’ortica,

pe’ da’ la cojonella (per canzonare) a ‘na Formica

cantò ’sto ritornello romanesco:

“ Fiore de pane,

io me la godo, canto e sto benone,

e invece tu fatichi come un cane.

“ Eh! da  qui ar bel vedé ce corre poco:

– rispose la Formica –

nun t’hai da crede mica

ch’er sole scotti sempre come er foco!

A momenti verrà la tramontana:

commare, stacce attenta…”  

Quanno venne l’inverno

la Formica se chiuse ne la tana.

ma , ner sentì che la Cecala amica

seguitava a cantà tutta contenta,

uscì fòra e je disse:  “Ancora canti?

ancora nu’ l a pianti?”

“ Io? – fece la Cecala – manco a dillo:

quer che facevo prima faccio adesso;

mó ciò l’amante: me mantiè quer Grillo

che ’sto giugno me stava sempre appresso.

Che dichi? l’onestà? Quanto sei cicia!( di poco spirito)

M’aricordo mi’ nonna che diceva:

Chi lavora cià  appena una camicia,

e sai chi ce n’ha due? Chi se la leva.”

 Se la morale della favola di La Fontaine è “chi nulla mai fa, nulla mai ottiene”, nei versi di Trilussa i marpioni ottengono comunque, senza troppi sforzi e lunghe attese.

In verità in entrambi i casi la cicala vive spensieratamente  il presente senza troppi timori per il futuro… 

E voi, vi sentite più cicala o più formica? 

 

Elogio della gallina

 

È finito il tormentone che per secoli ha alimentato dissertazioni  filosofiche e biologiche, cioè il famoso quesito “È nato prima l’uovo o la gallina?”  .Infatti dal 2006, in base  a studi di  genetica e a ragionamenti logici, due professori universitari e un avicoltore britannico hanno concluso: Poiché il materiale genetico non muta durante la vita di un essere, il primo uccello che si è evoluto in quella che oggi noi chiamiamo gallina deve essere prima esistito come embrione all’ interno di un uovo, avente lo stesso DNA dell’animale che sarebbe diventato. Pertanto, è nato prima l’uovo della gallina.

In parole semplici, un uovo di gallina genera necessariamente una gallina, ma può essere stato deposto da una “non gallina”.(Times)

 Spesso la gallina è ricordata per qualità di scarso pregio quando si dice “ha un cervello da gallina”, riferendosi il più delle volte al gentil sesso, o si allude  ad una scrittura irregolare ed incomprensibile detta appunto a zampa di gallina,tipica di chi scrive in  fretta e in particolar modo dei medici.

 Jannacci cantava che ” La gallina non è un animale intelligente lo si capisce  da come guarda la gente”. Forse anche perché “le anatre depongono le loro uova in silenzio. Le galline invece starnazzano come impazzite. Qual è la conseguenza? Tutto il mondo mangia uova di gallina” (HenryFord) però è vero che  “Se la gallina non cantasse, nessuno saprebbe che ha fatto l’ uovo.” 

  In fondo “il gallo  canta sempre,  persino la mattina in cui finisce in pentola.” (Stanislaw J. Lec)  e quindi non so chi dei due polli brilli di più per acume.

Merito della gallina che va a nanna presto e che, a differenza del  gallo che fa  chicchirichì e due colpi d’ala e via, invece fa l’uovo senza neanche fare il nido e, da chioccia, sta buona e cova i suoi pulcini.

 Nelle guerre fratricide del pollaio “molti fan la guerra per un uovo e lasciano intanto scappar la gallina” (mica scema!) ignorando che se  “Il passato è un uovo rotto, il futuro è un uovo da covare.” (Paul Eluard), quindi bisogna difendere la gallinella per avere altre uova e garantire la sopravvivenza del pollaio. Inoltre è risaputo che gallina vecchia fa buon brodo, a dispetto dell’età.

  Nonostante i battibecchi , galli e galline convivono in un rapporto simbiotico.

Mi sovviene  “Galline in fuga” , film d’animazione di qualche anno fa, trasposizione della “Grande Fuga” ,tratto da una storia vera sull’ evasione di prigionieri alleati da un campo di concentramento tedesco durante la seconda guerra mondiale.

Per sottrarsi all’ infame destino di essere trasformate in pasticcio di pollo, le gallinelle, capitanate dall’ intraprendente Gaia, decidono di evadere dal pollaio lager. Nei preparativi e addestramenti per la fuga, le coccodè  sono aiutate da Rocky, un gallo americano precipitato dal cielo perchè sparato, a loro insaputa,  da un  cannone da circo. All’inizio Rocky le illude che possano volare, poi quando  la verità viene scoperta,  insegna loro a svolazzare quel tanto che basta per superare l’alto recinto e si cimenta nella  costruzione di  una rudimentale macchina volante che consentirà di mettersi in salvo.

 L’immagine più delicata della donna gallina è nei versi che Umberto Saba dedicò alla moglie. Quest’ultima giustamente si risentì, anche perché viene paragonata in modo inconsueto pure alla giovenca, alla cagna, alla coniglia, alla rondine, alla  formica e all’ape.

Con tono ingenuo, semplice,quasi  infantile e sicuramente innovativo perché lontano dal tradizionale linguaggio amoroso, il poeta  ne canta la naturale bellezza,l’energia vitale ,la  prorompente fisicità. Le  migliori qualità che avvicinano a Dio sono in tutte le femmine di tutti i sereni animali e in sua moglie…ma in nessun’ altra donna.

 

A mia moglie.

Tu sei come una giovane

una bianca pollastra.

Le si arruffano al vento

le piume, il collo china

per bere, e in terra raspa;

ma, nell’andare, ha il lento

tuo passo di regina,

ed incede sull’erba

pettoruta e superba.

È migliore del maschio.

È come sono tutte

le femmine di tutti

i sereni animali

che avvicinano a Dio.

Così, se l’occhio, se il giudizio mio

non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,

e in nessun’altra donna.

Quando la sera assonna

le gallinelle,

mettono voci che ricordan quelle,

dolcissime, onde a volte dei tuoi mali

ti quereli, e non sai

che la tua voce ha la soave e triste

musica dei pollai.

 

Pertanto essere additate come gallinelle,  talvolta potrebbe pure essere  

un bel complimento! O  no?

                         

P.S: perdonate la polemica finale. Nel luglio 2008 commentavo così un post della mitica Placida Signora a riguardo della gallina, alla quale nel vecchio blog affondato avevo dedicato questo mio post . Ho trovato in rete  il mio scritto interamente copiato nel 2009 da un tale, che non menziono perché non merita pubblicità in quanto non ha nemmeno citato come fonte o linkato skipblog.it . Preciso che  “l’elogio della gallina” è mio e lo ripubblico io. Ecco!  😉

A palazzo Oro Ror

 

                                           
Nel cuor della notte, ogni notte,
la veglia incomincia a palazzo Oro Ror.
In riva allo stagno s’innalza il palazzo,
soltanto lo stagno lo guarda perenne e lo specchia.

 
Già lenta l’orchestra incomincia la danza,
la notte è profonda.
Comincian le dame che giungon da lungi,
discendon silenti dai cocchi dorati.
Dei ricchi broccati ricopron le dame,
ricopron le vesti cosparse di gemme i ricchi broccati.

 

Finestra non s’apre a palazzo Oro Ror,
ma solo la porta, la sera, pel passo alle dame.
In fila infinita si seguono i cocchi dorati,
discendon le dame silenti ravvolte nei ricchi broccati.
Lo stagno ne specchia l’entrata,
e l’oro dei cocchi risplende nell’acqua estasiata.

 

L’orchestra soltanto si sente.
Si perde il vaghissimo suono
confuso fra muover di serici manti.
La veglia ora è piena.
Di fuori più nulla.
Silenzio.

 

Un cocchio lucente ancora lontano risplende,
s’appressa più ratto del vento
e rapida scende la dama tardante.
Se n’ode soltanto il leggero frusciare del serico manto.

 

Il cocchio ora lento nell’ombra si perde.

 

Aldo Palazzeschi