I roccocò

 

roccocò

Un dolce campano del periodo natalizio è il roccocò, un biscotto duro a forma di ciambella, preparato anticamente dalle monache del convento napoletano della Maddalena. Come altri dolci della tradizione napoletana il roccocò non ha lievito, a differenza delle brioches e  dei babà importati, e si rifa ai biscotti speziati del Medioevo. La sua durezza fa pensare al termine francese Rocaille e potrebbe avere preso il nome all’inizio del Settecento quando si diffuse l’omonimo stile roccocò.

 

Ingredienti.

1 kg farina

700 g zucchero

500 g mandorle tostate

1 uovo

120g di cedro candito a pezzetti

40 g di pisto ( misto di spezie: chiodi di garofano, noce moscata e cannella)

Buccia grattugiata di un limone verde e di un’arancia  

1 cucchiaino da caffè di ammoniaca in polvere

1 bicchiere d’acqua

 

Disporre a fontana la farina con lo zucchero, le mandorle (metà tritate e metà intere), il cedro,  le spezie, le bucce di agrumi grattugiate e l’ammoniaca. Aggiungere al centro un po’ d’acqua, mescolare  e lavorare, aggiungere acqua  fino ad ottenere un impasto abbastanza duro. Lavorare una pallina di pasta fino ad ottenere una strisciolina lunga 10 cm e larga 2 cm., unire le estremità per formare una ciambella. Disporre carta da forno su una placca, adagiarvi i roccocò spennellati con l’uovo sbattuto. Riscaldare il forno e cuocere per circa 25 minuti a 180°C.

 

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L’arte di dare i numeri

Sacro e profano, fede e superstizione confluiscono in molti rituali napoletani, compreso quello del gioco del lotto, cui il popolo napoletano è dedito da secoli e per il quale “ si corrompe e muore” (cit.). Non si tratta però di giocare numeri a caso, ma i “numeri buoni”, quelli ricavati attraverso una vera e propria arte d’interpretazione numerologica con la Smorfia, cioè il libro dei sogni: un sogno, un fatto insolito, un evento straordinario, una persona stravagante offrono l’occasione di cercare i numeri da giocare al lotto. Ogni immagine, tratto saliente del fatto onirico o reale va associato a un numero, fino a un massimo di cinque numeri da giocare al lotto, di solito sulla ruota di Napoli a meno che non ci siano indizi o tracce riconducibili a un’altra città o regione.

In origine i napoletani ricorrevano a un “assistito”, un intermediario tra i santi e i comuni mortali, un indovino che parlava con i morti affinchè comparissero in sogno e dessero numeri vincenti e  un po’ di  buona sorte. Questa specie di veggente però “dava i numeri” rispondendo  con frasi sibilline  o strane   azioni che dovevano poi essere interpretati con la smorfia e ricondotti ai numeri da giocare. Una volta ottenuti, il richiedente e il suo clan di tifosi, perlopiù familiari, iniziavano i rituali sacri e profani cimentandosi in tutti gli scongiuri e  le invocazioni possibili e immaginabili  alla Madonna, ai santi, alle anime pezzentelle, al munaciello, a tutte le entità adorabili  che potevano intercedere affinchè uscissero quei numeri.

“Oggi è luna e dimane è marte

’a ciorta mia mo’ se parte

vene pe’ mare

 e vene pe’ terra

 vieneme  ‘nzuonne ciorta mia bella

 vieneme ‘nzuonne  e nun m’ appaurà

tre  belli nummere famme sunnà”

(oggi c’è Luna, domani c’è Marte/ la mia fortuna ora parte/ viene per mare, viene per terra/vienimi in sogno mia bella sorte, vienimi in sogno e non mi spaventare/ tre bei numeri fammi sognare).

a mano

In passato l’estrazione era affidata a un orfanello dell’Albergo dei Poveri (orfanatrofio  detto anche il Serraglio), che per l’occasione  indossava la veste dell’innocenza sulla grigia uniforme, cioè una tunichetta e un berretto di lana bianca, ed estraeva i numeri dinanzi al consigliere di prefettura, al direttore del Lotto di Napoli e a un rappresentante del municipio, superbi con i loro mustacchi e cappelli a cilindro. Anima innocente esposta dinanzi al popolo, spaesata e ammutolita, veniva investita di benedizioni, preghiere e  invocazioni: “Bel figliolo, bel figliolo! Che tu sia benedetto! Mi raccomando a te e a san Giuseppe! ’A Maronna ti benedica e’ mmani! Benedetto, benedetto! Sant e viecch! Sant e viecch! ( “santo e vecchio” è un augurio di lunga vita)” .

Al bambinetto del Serraglio la gente innalzava i figlioletti, con voci appassionate e straziate “Famm ‘a grazia, famm’a grazia! Core’e mamma!” Il piccolo prescelto estraeva un numero e tanta era l’attesa fin quando non veniva pronunciato dall’usciere. E via…  “ a ogni numero il popolo applicava la sua spiegazione ricavata dalla Smorfia , o da quella leggenda popolare che si propaga senza libri, senza figurine. Ed erano scoppi di risa, grassi scherzi, erano interiezioni di paura  o di speranza: il tutto accompagnato da un clamore sordo, come se fosse il coro in minore di quella tempesta…”

“Due..la bambina!….la lettera!  Famm arrivà sta lettera, Signore!……Cinque!…..La mano! ….in faccia a chi mi vo’ male!…Otto…otto!…..A’ MARONNNA! A’ MARONNNA! A’ MARONNNA!”

“I cabalisti, quelli non parlavano, non guardavano nemmeno i giri dell’urna: per essi non esisteva il bimbo innocente, né il senso dei numeri, né il giro lento o vivace della grande urna metallica: per essi esisteva solo la Cabala, la Cabala  oscura e pur limpidissima, la gran fatalità, dominante, imperante, che sa tutto, che può tutto e tutto fa, senza che niun potere, umano o divino, vi si possa opporre. Essi solo tacevano, pensosi, concentrati, anzi disdegnosi di quella forte gazzarra popolare, assorti in un mondo spirituale, mistico, aspettando con una profonda sicurezza….”.In una crescente e contagiosa sovreccitazione, le donne stringevano i figli così forte da farli impallidire e piangere. Osannato, implorato, benedetto dal popolo che smaniava tra invocazioni e rituali superstiziosi in attesa dei numeri, alla fine delle estrazioni sfortunate il bimbo bendato veniva deplorato, era investito da urla d’ indignazione, da bestemmie, lamenti, esclamazioni colleriche e dolorose. Tutti avevano sperato in un magico terno, “un terno secco, speranza e amore del popolo napoletano, speranza e desiderio di tutti i giocatori, da quelli accaniti a quelli che giuocano una sola volta, per caso: il terno, parola fondamentale di tutti quei desideri, di tutti quei bisogni, di tutte quelle necessità, di tutte quelle miserie.”

Maledetti la mala sorte, il Lotto, il governo, il serragliuolo dalla mano disgraziata, non restava che fissare il tabellone con i numeri estratti, andare via adirati, delusi, scontenti, disperati, senza nemmeno la forza di pensare e parlare, estintasi in quel delirio collettivo. “Rimanevano i cabalisti per discutere fra loro, come tanti filosofi, come tanti loici, sempre concentrati nell’alta matematica del lotto, dove vivono le figure, le cadenze, le triple, la ragione algebrica del quadrato maltese e le immortali elucubrazioni di Rutilio Benincasa.” ( da Il paese di Cuccagna” di Matilde Serao). E immagino quell’orfanello, stordito e violato nella sua innocenza da tanta urlata disperazione, da aspettative e speranze  deluse, dall’incontenibile follia  popolare.

 

tombolaQuando nel 1734 una legge vietò il gioco d’azzardo durante le feste natalizie, i napoletani s’ingegnarono e  pensarono bene di inventare la tombola, una sorta di gioco del lotto da giocare  in casa e in famiglia. Ai novanta numeri, che vengono prima mescolati con maestria, poi estratti dal panariello e posizionati su un tabellone, viene associato un significato, declamato con mimica teatrale dal “banditore”. Ogni giocatore compra le cartelle e il ricavato viene distribuito in cinque premi. Ogni cartella ha 15 numeri distribuiti per cinque  su tre righe e bisogna coprire quelli estratti facendo ambo ( coppia di numeri sulla stessa riga), terno, quaterna e cinquina, alla fine tombola se si riesce a coprire tutti i numeri della cartella. A volte si prevede un tombolino se non anche un tombolicchio, un piccolo premio di consolazione per chi fa la seconda-terza tombola.

femminielloFamosissima è anche la tombolata dei femminièlle nei quartieri spagnoli di Napoli, espressione di autentica e spontanea teatralità popolare, cui partecipano solo donne e femminielli, mentre gli uomini possono assistervi in disparte e in silenzio . O’ femminièllo, o femminèlla, è una figura riconosciuta e rispettata nella tradizione popolare, cui si demandano  rituali folkloristici e una sorta di posizione privilegiata nel tessuto sociale  in quanto ritenuto beneaugurante, portafortuna vivente, tant’è che gli si mettono subito in braccio i nuovi nati. Il femminiello estrae i numeri della tombola e ne pronuncia solo il significato e via via li concatena tra loro con abilità affabulatoria creando, recitando e mimando una storia improvvisata e ricca di pungenti allusioni, volgari doppisensi, acuta  ironia in un’escalation di  salaci e travolgenti battute.   

Ancor oggi nelle tombolate ( purtroppo a distanza) le figure tratte dalla Smorfia napoletana rivivono in interpretazioni originali, in un divertente girotondo di  personaggi, leggende, usanze, detti popolari e allegorie sessuali.

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“L’elogio breve alla pastiera” ( di Francesco Andoli)

Condivido con voi lettori “L’ elogio breve alla pastiera”, scritto da Francesco Andoli, vicedirettore di Identità Insorgenti, che l’anno scorso ottenne migliaia di condivisioni fino a diventare virale. Quest’anno   entra a far parte della storia della rinomata Antica Pasticceria Giovanni Scaturchio che lo ha esposto nelle sue vetrine. Ringrazio Francesco Andoli che ha saputo ricreare quel  rituale senza regole che da secoli si ripete di generazione in generazione.

L’elogio breve alla pastiera

La pastiera napoletana, tra i nostri dolci tipici, è la sola che conserva ancora una dimensione puramente casalinga. Sia chiaro, non che le pasticcerie in città non sappiano farla a regola d’arte, ma la pastiera, quella vera, va fatta in casa. Punto e basta! E, badate bene, nessuna pastiera è mai uguale a un’altra. Alta, bassa, grano passato a metà o per intero, umida o assai “zucosa”, più o meno profumata di acqua millefiori, con o senza crema pasticcera, pettola sottile oppure più spessa, ricotta fine o più granulosa, uova prese dal salumiere o direttamente da sotto alla gallina allevata dall’ultimo contadino rimasto ai Camaldoli.

La Pastiera – diciamolo una volta per tutte – non mette d’accordo nessuno: getta scompiglio, crea zizzania, genera competizione, innesca una sorta di guerra civile partenopea. Il motivo? Ogni famiglia è straconvinta di essere depositaria e custode della suprema formula, della ricetta per eccellenza. Una ricetta che, solitamente, si tramanda da generazione in generazione ed è stata annotata, in bella grafia, nel tardo medioevo, su di un quaderno senza copertina i cui fogli ingialliti si tengono ancora insieme con la sputazza. Oh, ma straconvinta che più straconvinta proprio non si può!

La ricetta di mammà, quella della nonna, chella d’ ‘a bisnonna, chella d’ ‘a vicina ‘e casa di quando abitavamo chissà dove, chella d’ ‘a guardaporta, quella della sorella della nipote dell’amica ‘e chi t’é stramuorto! Immancabile poi, è la ricetta dello zio che ha fatto il pasticciere da Scaturchio. Ogni napoletano che si rispetti, per qualche misterioso motivo, ha uno zio che faceva il pasticciere da Scaturchio e ha trafugato dal suo leggendario laboratorio la ricetta segretissima. Talmente segreta ca ‘a sanno tutte quante, tranne i titolari della pasticceria Scaturchio.

E poi, di pastiera, in casa, non se ne prepara mai una sola. Si cucinano pastiere da regalare a chiunque. Tutti scambiano pastiere con tutti in modo compulsivo al punto che, in questo turbinio di pastiere ca vanno annanze e arreto, alcune tornano persino indietro sotto forma di dono a chi quella pastiera l’aveva preparata giorni prima ed è talmente “sicuro e padrone” della sua ricetta che se la mangia senza accorgersi che si tratta proprio della sua, arrivando persino ad esclamare: “vabbuó, nun pazziammo, io ‘a faccio cientumila vote meglio!”.

Fatidico, infine, è il momento dell’apertura, il taglio della prima fetta a cui fa seguito l’assaggio. Lì è la famiglia stessa che implode, la guerra civile si trasferisce tra le mura domestiche: “uaaaaa è venuta perfetta”, “no era meglio l’anno scorso”, “nun dicere strunzate era meglio tre anni fa”, “è colpa ‘e chillu sfaccetta ‘e furno”, “l’anno prossimo verrà nu capolavoro”. Tutto ciò fino a quando non si leva alta una voce, la solita voce, che perentoria nella sua infinita saggezza esclama: ma che ve ne fotte, magnate e stateve zitte!  (Francesco Andoli)

 

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La sfogliatella: un dolce al femminile.

La sfogliatella è un tipico dolce napoletano, oserei dire il dolce più tipico, da secoli regina della pasticceria napoletana che, come spesso accadde nelle più antiche monarchie, ha vissuto l’alternanza di periodi di sommo splendore  e  di decadenza, cui il tempo ha poi riconosciuto il dovuto prestigio.

sfogliatelle

Remote sono le sue origini: in forma primordiale comparve  nei riti orgiastici mediorientali, dai quali derivava il suo simbolismo erotico,  per poi approdare  nei monasteri napoletani diventando un dolce  scrigno di castità. Infatti le  iniziazioni misteriche e i baccanali per il  culto della dea Cibele  dalla Frigia si diffusero  nelle  colonie elleniche per giungere fino cripta-parco-vergiliano alla cripta di Piedigrotta a Napoli, creduta opera del famoso  Virgilio Mago. Proprio lì dentro  illibate vestali offrivano alla Grande  Madre pani di forma triangolare per propiziarsi la fertilità, simboli  di castità idolatrata che poi finiva col cedere agli sfrenati riti orgiastici. La crypta  neapolitana  diventò poi tempio di Priapo per cui il pane di forma triangolare assunse  un significato  ad alta valenza erotica durante i baccanali, perdendo quello casto e originario.Con l’avvento del cristianesimo sull’empia ara di Piedigrotta sorse la  cappella della Vergine dell’Idra o del serpente, con la speranza che la Madonna allontanasse non solo le presenze maligne, forse le stesse che diedero origine alla crypta in una sola notte, ma  soprattutto il ricordo delle indemoniate  baccanti. Rimase però la tradizione della “sfogliatella”, che perse  il richiamo erotico- pagano  per recuperarne uno di purezza catartica  nei monasteri napoletani,  e  continuò ad essere il simbolo della femminilità e della fertilità. Non a caso si hanno notizie che  dalla metà del ‘300 fino all’800 al tempio di Piedigrotta   giovani spose e donne senza figli “si recavano  a pregare la Vergine perché le proteggesse nel nuovo stato e tal rito si compiva alla prima uscita dalla casa dei mariti e cioè non appena iniziate al mistero coniugale della procreazione”(da  “Gazzetta Napolitana” del 1805)  

Sintesi di sacro e profano, come per altre forme di culto e tradizioni napoletane, la sfogliatella sopravvisse nella storia come dolce al femminile che pian piano si è liberato di un millenario passato intrigante e  misterioso conquistando  il primato di indiscussa regina del buon gusto. Lungo e tortuoso è però il suo “processo di liberazione” perché dal  Medioevo alla  metà  dell’800 il segreto della sfogliatella fu gelosamente custodito  nel  monastero  Croce di Lucca finché  trapelò all’esterno approdando poi nelle pasticcerie napoletane. Infatti nel 1624 un’ inaspettata lettera fu consegnata a Nicola Giudice, principe di  Cellammare  e duca di Giovinazzo, per informarlo  che le giovani figlie Aurelia, Maria ed Eleonora, devote novizie da alcuni anni, avevano violato la regola del silenzio della vita claustrale dando adito a una grave e inopportuna fuga di notizie tale da  meritare un richiamo scritto e ufficiale della madre superiora dell’ordine delle Carmelitane.  Di cosa si erano macchiate le tre sorelline Giudice? Nientemeno  della rivelazione della ricetta della sfogliatella,  consentendo  che gli  ingredienti e le articolate fasi di preparazione del dolce varcassero le mura di altri monasteri, che si cimentarono in  una sorta di concorrenza  gastronomica  per conquistare i palati più sopraffini dell’aristocrazia partenopea.

È interessante sapere che  le carmelitane educavano le pulzelle non solo alla preghiera e alla vita monastica  ma anche alla delizia delle “cose da zuccaro” che erano offerte a parenti, alti prelati e notabili  in visita e quest’arte pasticcera dava prestigio e garantiva buone entrate ai monasteri. Se il monastero di Santa Chiara era famoso per le marasche sciroppate, lasagne e zeppole, quello della Maddalena per le paste reali, quello dell’Egiziaca per i biscotti dei carcerati, la Trinità per le bocca di dama, San Marcellino per i casatielli, Donnalbina per le cuccuzzate in barattolo e il monastero della Concezione della Spagnuola per i ruschigli di cioccolata, Donnaregina, Sapienza e Santa Maria di Costantinopoli per i susamielli, le torte di frutta e il pan di Spagna, invece il Croce di Lucca vantava la sua  delicata sfogliatella. Questo fin quando le figlie  di Cellammare, che avevano il privilegio di ricevere visite della madre e di tre amiche a piacere anche perché il loro padre aveva finanziato i lavori di ristrutturazione del monastero, non passarono alla storia delle sfogliatella come poco abili spie culinarie. Ricetta che circolò non solo a  Napoli ma  anche a Salerno, infatti  proprio tra Furore e Conca dei Marini nel monastero di Santa Rosa fu inventata la variante ripiena di crema e guarnita con amarene, detta appunto  sfogliatella “Santa Rosa”, che parve restituire al dolce  una sensuale femminilità.

Ormai la strada  dello  spionaggio dolciario era segnata dall’illustre precedente del Croce di Lucca tant’è che un’altra, ma ignota, monachella, questa volta  del monastero amalfitano, svelò la ricetta della sfogliatella  che a metà ‘700 giunse alle orecchie di  un pasticciere  napoletano giungendo agevolmente sulle raffinate tavole dei nobili, ma in una veste più semplice, ridotta, casta.Solo nell’800 il famoso pasticciere Pasquale  Pintauro, dopo l’apertura di una famosa trattoria e poi di un caffè, pensò di battere la concorrenza dello svizzero Caflish e dei caffè alla moda francese  inaugurando  una pasticceria  in via sfogliatella_frolla-620x465Toledo  che produceva non solo pastiere, susamielli,  torroni, struffoli, raffioli e sanguinaccio ma soprattutto  sfogliatelle che fino ad allora erano state il  privato privilegio gastronomico dell’elite aristocratica. Così il cavalier Pintauro  consentì il debutto mondano e commerciale della sfogliatella.  Un successone che favorì poi, grazie alla sua inventiva, il lancio della cosiddetta  “frolla”,  variante morbida di quella riccia.

A metà ‘800 però la sfogliatella cadde in bassa fortuna: dopo anni e anni allietati da siffatta pasta, i nobili borbonici reclamarono nuovi dolci e Pintauro “inventò” la zeppola di san Giuseppe guarnita  con crema pasticciera e amarene, variante della zeppola tradizionale. A quanto pare un’altra monachella, stavolta del monastero di santa Chiara, aveva svelato la segreta ricetta delle  zeppole fritte, che così poterono uscire dalle cucine conventuali. Inoltre i sempre più emergenti pasticcieri stranieri snobbavano il dolce locale, come Caflish che proponeva torte di ogni tipo.A un tratto la svolta popolare della pasta, finalmente  accessibile a un’ampia clientela  grazie a Carraturo  che a Porta Capuana e nei laboratori di piazza Garibaldi e dintorni produsse sfogliatelle che ben presto si diffusero  nei vicoli, nella zona della stazione e nel popolare quartiere di Forcella. Agli inizi del ‘900 nel quartiere della Pignasecca del centro storico si aprì la pasticceria dei calabresi Scaturchio, rinomata e lunga dinastia di pasticcieri a Napoli, ancora operanti in piazza San Domenico Maggiore ove si fa tappa obbligata per un buon caffè e  la loro sfogliatella. Per tutto il secolo e fino a oggi i più noti pasticcieri napoletani, Bellavia al Vomero, gli eredi di Pietro Carraturo, Attanasio al vico Ferrovia hanno gareggiato per produrre la migliore sfogliatella. Proprio Mario Scaturchio ha rivendicato e sostenuto l’arte manuale della preparazione di questa pasta che implica la capacità di realizzare una sfoglia molto sottile, piegata più volte, lavorata per ore con la sugna che regala una fragranza inconfondibile, sebbene alcune aziende abbiano meccanizzato la produzione del guscio croccante per garantirne la fornitura ai piccoli laboratori che non riescono ad assicurare una produzione giornaliera.

sfogliatella-conoLa sfogliatella si è anche rinnovata  nel tempo: più recente è la cosiddetta coda di aragosta, dalla forma allungata che viene poi farcita con panna e amarene, o crema al cioccolato o al caffè.  Da poco sono decollate la sfogliatella Vesuvio, avente un cuore di babà con dentro una crema di  panna e cioccolato, e  la sfogliatella cono farcita di gelato.

La sfogliatella rappresenta un po’ la complessa napoletanità, viene spesso citata ma di fatto  è poco conosciuta la sua lunga e movimentata storia, un po’ come capita con la leggendaria bellezza  di una nobildonna del passato, spesso ricordata da tanti ma che forse pochi  hanno avuto occasione di  vedere perché restia a mostrarsi.  Forse non  è un caso che questa pasta abbia attraversato indenne secoli e secoli  di storia  regalando sempre  la stessa fragranza, simile a quella della ridarella di noi bambini che riecheggia nella memoria, regalandoci con il profumo di vaniglia  l’atmosfera di altri tempi.

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E chiudendo gli occhi, mi pare di sentire  quel buon odore che inondava fin troppo casa mia di buon mattino, quando per un anno ho abitato su un laboratorio di pasticceria e le  immagino  allineate “Nella guantiera di candido cartone…dodici ricce ricce, dodici damine in fila per tre , con le loro gonne ondulate e gonfie, dodici bambine ordinate con le vestine  che si aprivano tutte plissettate spruzzate di bianco bellelle bellelle!”  (Maria Orsini Natale).

 

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Il limone tra storia, leggenda e limoncello .

Frederic_Leighton_-_The_Garden_of_the_HesperidesAi limoni, raggi di luce divenuti  frutti, fa capo una delle dodici fatiche di  Ercole  che uccise il drago Ladone incaricato  con  le Esperidi  di vigilare su un giardino, per custodire i pomi d’oro che Gea aveva donato a Era in occasione delle sue  nozze con Zeus. Con l’aiuto delle ninfe,  Ercole si procurò i frutti e li portò ad Euristeo. Nella cultura medio orientale, soprattutto ebraica, si  parlava perlopiù dei cedri che  crescevano in Israele quando gli  ebrei rientrarono da Babilonia nel VI sec. a. C. ;  cedri denominati meli di Persia da Teofrasto di Ereso, filosofo greco ed esperto id botanica,  nel 300 a. C .

La presenza dei limoni nel mondo romano fu confermata non solo  da Plinio il Vecchio  che lasciò notizie  sul trasporto del cedro in tante regioni ma anche  dalle piante da frutto, tra cui due limoni,  particolare albero da fruttodipinte sulle pareti della casa del frutteto di Pompei  e dalle trentotto piante di limone in vaso, trovate nella villa Oplonti di Torre Annunziata .Nel 1952 l’archeologo Maiuri concluse che il limone citrino ovale si era già acclimatato in Italia sin dal I  sec. d. C. In epoca romana  però non si distinse ancora  la differenza tra limone e cedro, cui si giunse verso il X secolo. Sicuramente gli arabi portarono i limoni durante le invasioni della Spagna e dell’Italia meridionale  tra il X e il XII secolo ma anche  i crociati, di ritorno dalle guerre sante,  importarono   le piante di limoni, ben presto coltivate nelle zone a clima caldo-temperato. In verità nella costiera sorrentina –amalfitana il limone era già presente nell’Alto  Medio Evo (V I sec. d. C.), come documentano le testimonianze dei medici salernitani che lo usavano a scopo terapeutico. Certamente  il “citrus limon massese” o “ femminiello massese” di Massa Lubrense, nota per i suoi limoni,  fu importato dall’oriente dai monaci gesuiti nel lontano XVII secolo e proprio il gesuita massese padre Vincenzo Maggio promosse la coltivazione dei limoni. A fine ‘500 Napoli e dintorni  erano ormai  “un gioioso loco” ricco di aranci, limoni  e cedri, tanto da fare esclamare più tardi a Goethe  “Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni? Nel verde fogliame splendono arance d’oro. Un vento lieve spira dal cielo azzurro, tranquillo è il mirto, sereno è l’alloro. Lo conosci tu bene? …”

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Gran parte dell’economia sorrentina ruotò intorno all’agrumicoltura, che dall’ 800 sostituì colture non più redditizie come quella dei gelsi , anche per la sempre più massiccia importazione dall’oriente dei bozzoli destinati all’industria serica. Proprio per l’esportazione pagliarelledi arance e limoni verso il nord Europa e l’America agli inizi dell’800  si sviluppò la  cantieristica navale  e  di conseguenza  sempre più la tradizione marinara della penisola sorrentina, ancor oggi radicata.  Nel 1917 in penisola circolavano circa ottocento tra cavali, asini e muli per il trasporto di agrumi e  la commercializzazione dei limoni all’ estero  fu garantita tutto l’anno perché d’inverno erano conservati nelle grotte e le  piante venivano  protette  con le “pagliarelle”. Queste, ancora in uso,  sono stuoie di paglia appoggiate su pergolati   per formare una sorta di tetto sul limoneto ed  evitare che i limoni siano danneggiati dalle gelate.

Solo con il limone della costiera amalfitana e sorrentina aventi il marchio IGP, cioè lo sfusato di Amalfi e l’ovale di Sorrento, si produce il limoncello, liquore digestivo di fama internazionale.

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L’origine del limoncello è piuttosto controversa e contesa tra Capri, Sorrento e Amalfi.  Se per i capresi l’imprenditore  Massimo Canale fu il primo a registrare il marchio “Limoncello” negli anni ’80, per   gli amalfitani  le origini del limoncello si fanno risalire a epoche remote,  addirittura  al tempo delle invasioni saracene quando i pescatori lo bevevano per combattere il freddo. Probabilmente invece fu  prodotto in un monastero, come tanti dolci e prelibatezza campane, anche se i sorrentini sostengono  che sin dall’inizio del ‘900 le nobili famiglie del luogo lo offrivano agli ospiti illustri, secondo una ricetta tradizionale.

Per Achille Bonito Oliva  il limoncello è il liquore bambino.

“Liquore di antica famiglia, il limoncino, casa e chiesa, silenzioso e senza malizia di sapore, è per gli adulti senza essere vietato ai bambini. Ha il colore paziente del convitto, senza oggetto o decisione di fondo, ma con sapore continuo alla gola. Fatto per lo sguardo e malinconica distrazione, non permette e non trattiene ricordi. Liquore di passaggio, il limoncino. Un giallo che rimanda all’azzurro. Non ama essere versato ma preservato in ampolle sicure e personali. Il diminutivo limoncino dichiara un liquore infantile anzi bambino, che nasce limone e desidera diventare limoncino, sicuramente in vitro, così trasparente e guarda dalla bottiglia in girotondo…”

 

Esistono molte varianti della ricetta sia per le diverse percentuali di zucchero e alcool, sia  per il procedimento.

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Ricetta del limoncello

Ingredienti:

10 limoni non verdi

1 lt di alcool per liquori

750g di zucchero

 

Procedimento:

Sbucciare i limoni senza intaccare il mesocarpo o albèdo (la parte interna  bianca del limone), mettere le bucce in infusione nell’ alcool in un recipiente di vetro chiuso e  in un luogo fresco e buio per 9 giorni. Quando è concluso il periodo di macerazione, preparare il giulebbe versando  750 g di zucchero in un litro d’acqua, mescolando e lasciando bollire per 5 minuti circa finché lo zucchero non si sia sciolto. Quando lo sciroppo si è raffreddato, aggiungervi l’alcool con le bucce, girare e infine  filtrare con una garza e imbottigliare. Il limoncello è un ottimo digestivo da servire preferibilmente in bicchierini gelati, oppure lo si può conservare  nel congelatore  in quanto zucchero e alcool gli impediscono di congelare.

 

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‘A Bella ‘Mbriana

Una schiera di figure magiche, misteriose, presenze oscure o benevoli, tramandate tra storia e leggenda,  popola le credenze popolari napoletane come il  monaciello, che ricordo nuovamente, perché mi ha particolarmente incuriosita. “ ‘O munaciello ( piccolo monaco) è uno spiritello irrequieto, irriverente e beffardo che  si nasconde, appare o si fa solo sentire, ride e diverte, piange e immalinconisce. Un piccolo e bizzarro folletto che  fa sparire oggetti o li fa cadere di mano, disturba il sonno del malcapitato o lo fa inciampare, inaridisce le piante, inacidisce il vino, spaventa gli animali, innervosisce i bambini, provoca sbalzi d’umore nelle fanciulle e pensieri vogliosi nel coniuge. Spesso è dispettoso come un bambino capriccioso, talvolta aiuta l’infelice o il bisognoso. Pare che abbia in simpatia le donne, le belle donne, alle quali lascia ricompense o regali. Animella vagante, triste e rabbiosa, divertente e spiritosa, è di buon augurio se indossa un cappuccio rosso, preannuncia mala sorte se invece ha un cappuccio nero.” (da “Lu munaciello”  in skipblog.it)

mbrianaAl dispettoso monaciello si contrappone una  figura affascinante  che vive  nell’immaginario collettivo dei napoletani: ‘a bella ‘Mbriana. La bell’ Ambriana è il più potente spirito benevolo, invisibile eppure sempre presente, che protegge la casa e i suoi abitanti  che le si rivolgono con fiducia e deferenza perché porta fortuna, un po’ come gli antichi Lari e i Penati divinità minori dell’antichità. È un nume tutelare che sceglie la casa in cui vivere e resta solo se vi trova accoglienza, rispetto, pulizia  altrimenti diventa irascibile, si allontana e se offesa, per esempio  da un trasloco o dai lavori di ristrutturazione da lei non voluti, può provocare la morte di un membro della famiglia. Insomma una fata nascosta, ora generosa e protettiva, ora altera e vendicativa nel caso di un torto subito. Non a caso tempo fa, quando si entrava   per la prima volta in una nuova abitazione si diceva “Bonasera, bella ’Mbriana”, qualcuno le lasciava dolci sul tavolo e comunque sempre una sedia libera, a volte un posto a tavola, un saluto ogni qualvolta si entrava o si usciva dalle tipiche  case antiche con ampie camere, corridoi, stanzini, terrazzini e mezzanini. Di solito è rappresentata come una donna piacente  oppure in  una statuetta di terracotta bifronte che da una parte mostra il volto velato di donna, dall’altro un fallo che simboleggia benessere e prosperità ( spesso in epoca romana lo si trovava anche negli affreschi e mosaici all’ingresso delle ville patrizie come amuleto contro l’ invidia e il malocchio) da nascondere  in un angolo della casa, se non addirittura murare durante la sua costruzione.

finestra2Ambriana deriva dal latino Meridiana (‘ Mmeriana), che indica l’ora più luminosa del giorno. Si crede, anzi si percepisce lievemente la sua presenza nella controra, cioè durante le prime e calde ore del pomeriggio, in un refolo d’aria  che smuove appena le tende o la si vede nel riverbero di una finestra o in una leggiadra farfalla. Da meridiana si pensa che derivi anche il termine napoletano maréa che indica l’ombra umana, che può offrire sollievo ma anche indicare l’inconsistenza  eterea della creatura. L’ombra trae origine anche da una leggenda che narra di una principessa che, in seguito alla morte di un prode e giovane innamorato, iniziò a vagare  come un’ombra  senza pace per la città. Il re, suo padre,  per proteggere la figlia ricompensava in forma  anonima coloro che la accoglievano e le offrivano un riparo sicuro nella loro casa. In conclusione la credenza nei fantasmi è costante in tutti i popoli e in epoche diverse, quindi la bella ‘Mbriana vive nell’intimità delle case per esorcizzare le paure e la precarietà dell’esistenza laddove ci sono malesseri e vi si radica con una presenza discreta finché può.

“Bonasera bella ‘mbriana mia
cca’ nisciuno te votta fora
bonasera bella ‘mbriana mia
rieste appiso a ‘nu filo d’oro,
bonasera aspettanno
‘o tiempo asciutto,
bonasera a chi torna a casa
co core rutto.”

(da “Bella ‘Mbriana” di Pino Daniele)

I susamielli

 susamielli-napoletaniUn dolce natalizio della Campania è il susamiello, il cui nome probabilmente deriva dal sesamo, i cui semi  ricoprivano i globulos degli antichi romani, palline di formaggio fritte poi immerse nel miele. Cristoforo da Messimburgo, che lavorò prima alla corte degli Estensi e poi dei Gonzaga a Mantova,  nella metà del ‘500 parla dei Sosamielli Perfettissimi preparati con un impasto di farina, zucchero, cedro candito e uova, aromatizzato con  cannella, pepe, varie spezie tipiche della cucina dei nobili, acqua di rose e un’essenza estratta dalle ghiandole del cervo, detta muschio. Dopo un secolo si trovano gli stessi ingredienti nel ricettario di napoletano Antonio Latini e nel ‘700 – ‘ 800 nel Credenziere del Buon Gusto di Vincenzo Corrado che descrisse i Sosamielli delle monache, che forse erano quelle del convento della  Sapienza, cui si devono anche le sapienze , simili ai susamielli e anch’esse dolce tipico  nel periodo natalizio. Nella loro ricetta tra gli ingredienti ci sono anche le mandorle tostate e tritate e i sosamielli di forma ovale sono ricoperti da una glassa all’arancia. In seguito Salvatore Campisi Pistoja li definisce “susamielli “ fatti con farina, miele, spezie e giulebbe d’arancia, sia a forma circolare con buco centrale che a forma di otto. Nel 1830 il cuoco Angioletti della corte parmense parla di susamielli napoletani, senza mandorle e con glassa al cioccolato. La tipica forma di S probabilmente è più recente, risale ai tre diversi susamielli: quello dei nobili preparati con farina fine, quelli degli zampognari o dei poveri con farina più grossolana, e quelli del Buon cammino, ripieni di  marmellata, che venivano offerti ai preti che facevano la questua per le case a Natale. La forma di serpente ha un significato beneaugurale.

Questa è l’ antica  ricetta tratta da “Il credenziere del Buon Gusto” di Vincenzo Corrado, 1820

Ingredienti:

640 g di miele

320 g di giulebbe

1.280 kg di farina

640 g zucchero

110 g di mandorle tostate

160 g di scorzette di arance candite

26 g di cannella in polvere

13 g di chiodi di garofano in polvere

6 g di pepe

Buccia grattugiata di mezza arancia fresca

Per la ghiaccia:

320 g di zucchero

2 arance

 In un pentolino portare a ebollizione miele e giulebbe, schiumandoli fin quando non diventano limpidi. Disporre la farina a fontana, versarvi il miele caldo, lo zucchero, le mandorle tritate, le spezie, la buccia grattugiata di arancia e le scorzette candite. Impastare bene, servendosi di spatole perché l’impasto è caldo, avvolgere in un panno e lasciare fermentare la pasta per 24 ore. Poi tagliarla a pezzi, stenderla fino allo spessore di un dito, tagliare ovali ( oggi si dà la forma di S)  , disporli su una placca da forno e lasciare cuocere  a media temperatura (180° al massimo per 20 minuti). Grattugiare la buccia delle arance, bagnarla con un po’ di succo, filtrare il tutto, unirvi i 320 g di zucchero e mescolare fino a ottenere una crema filante da spennellare sui susamielli.

Oggi esistono ricette più semplici, inoltre  non si lascia fermentare l’impasto per 24 ore e spesso  ai vari  ingredienti  si aggiunge un pizzico ammoniaca.

 

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Che sia un anno …

Tempo di vacanze, di pause, di brindisi… perciò vi lascio l’ augurio skippesco delle S, a me caro,  la cui forma serpentina rappresenta la rottura simbolica del tempo con la speranza di arrestare eventi nefasti e rigenerare un tempo nuovo, più equo e giusto. 

L’Anno Nuovo alle porte sia strabiliante, splendente, sorprendente e sostanzioso ma  stracarico di salute, serenità e speranza, saggezza, simpatia e sincerità , sentimento e sensualità , sprint e successo, soldi , sogni e speranze , solarità e sorrisi, sesso sfrenato ma sicuro e ancora

senza sprechi e smog (per gli ambientalisti),

senza stop né stand by ma con scelte soddisfacenti e scommesse da vincere con se stessi e con la sorte

e soprattutto senza sfortuna né scosse  sismiche reali e non

In veritá mi accontenterei di un anno serenamente, semplicemente e silenziosamente  stelluminoso.

Auguri di Buon Anno a tutti!

 

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“La casa de li spasse, lo puorto de li guste” nel presepe napoletano

 La taverna è uno dei tre quadri fondamentali del presepe napoletano, insieme  alla Nascita e all’Annuncio ai pastori, che per la prima volta  nel 1507 fu  introdotta dal bergamasco Pietro Belverte in un presepe per i frati di San Domenico Maggiore. Dal 1600 in poi la taverna divenne uno spazio caratterizzante il presepe, un angolo di vita quotidiana che in primo piano capta l’attenzione di chi osserva. In effetti il presepe napoletano ha riprodotto e riproduce in sé personaggi, eventi, mode contemporanee e la stessa arte gastronomica vi confluì, considerando che raggiunse l’apice nel 1700.

Già verso la metà del ‘600 il marchese di Crispano censì a Napoli circa 210 taverne dove la tradizione culinaria era ben radicata. Pare che l’ambientazione della taverna sia da ricondurre  all’Osteria del Cerriglio, di fama europea, sorta nel ‘500 e ubicata tra i banchi Nuovi e Sedile del Porto, dietro Piazza Bovio e Corso Umberto. Era  ancora molto  rinomata nel ‘700 sia per la qualità delle pietanze  e del vino, sia perché frequentata da artisti e letterati, nobili e stranieri, amanti della buona tavola che lì venivano a contatto con il popolo e le prostitute.

 

 

Giambattista  Basile scrisse che era

”La casa de li spasse

lo puorto de li guste

dove trionfa Bacco

dove se scarfa  Venere e l’allegria

dove nasce lo riso

cresce l’abballo e  bernolea lo canto

s’ammansona la pace

pampanea la quiete

dove gaude lo core

se conforta la mente

se dà sfratto a l’affanno

e s’allonga la vita pe cient’anne”

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Nella locanda del Cerriglio  il  Caravaggio fu sfregiato al viso nel 1609 durante un soggiorno a Napoli. Qui si esponevano in bella vista una gran varietà di  prodotti alimentari e ortofrutticoli, che potevano  appagare l’atavica fame e la miseria del popolo, più di recente  rappresentate da Pulcinella o dal mangiatore di maccaroni :  salsicce, uova, polli, pesci e frutti di mare, ortaggi, frutta, formaggi, ricotte.

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Oltre ad essere il regno dell’abbondanza, lo era anche della convivialità partenopea e del  divertimento perché musicanti e donne allietavano gli avventori in cerca del piacere o delle chiacchiere sui fatti della città.

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Nella taverna primeggiavano  le colorate maioliche: piatti, zuppiere, lucerne, pavimenti, piastrelle, ampia testimonianza dell’artigianato locale.

taverna con monacoIn seguito, dalla fine del XIX secolo, gli studiosi di storia, di tradizioni e di antropologia rividero la simbologia del presepe e la taverna fu quindi considerata luogo di perdizione ove regnano i vizi di gola, lussuria, gioco ed ubriachezza;  a volte vi compaiono anche un monaco ubriaco, che rappresenta la corruzione temporale della chiesa, i giocatori di carte, detti Zì Vicienzo e Zì Pascale che  hanno poteri divinatori e l’oste che diviene un personaggio demoniaco.

 

Quest’anno vi  segnalo due mostre sull’arte presepiale:

“Maestri in Mostra” presso Villa Fiorentino, Corso Italia 53 –Sorrento (Na) fino al 10 gennaio (ore 10-13 e 16-21) 

“Trentesima Mostra di Arte Presepiale”  nel Complesso Monumentale San Severo al Pendino, Via Duomo 286- Napoli fino all’8 gennaio 2016 (ore 9.00-19.00)

 

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La coltura degli alberi di Natale – Thomas Stearns Eliot

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 Quest’anno voglio ricordare quei Natali vissuti con l’ entusiasmo tipico dei bambini, mentre con papà  allestivo il presepe e addobbavo l’albero, infine ammirati con la soddisfazione e la gioia di avere realizzato qualcosa che era bello per me, per noi, e ci apparteneva e ci appartiene ancora.

 Libera è l’ interpretazione di questi versi, con i quali auguro un Buon Natale a tutti gli amici e lettori di questo blog.

 

La coltura degli alberi di Natale – Thomas Stearns Eliot

 

Vi sono molti atteggiamenti riguardo al Natale,

e alcuni li possiamo trascurare:

il torpido, il sociale, quello sfacciatamente commerciale ,

il rumoroso (essendo i bar aperti fino a mezzanotte),

e l’infantile – che non è quello del bimbo

che crede ogni candela una stella, e l’angelo dorato

spiegante  l’ali alla cima dell’albero

non solo una decorazione, ma anche un angelo.

Il fanciullo di fronte all’albero di Natale:

lasciatelo dunque in spirito di meraviglia

di fronte alla Festa, a un evento accettato non come pretesto;

così che il rapimento splendido, e lo stupore

del primo albero di Natale ricordato, e le sorprese, l’incanto

dei primi doni ricevuti (ognuno

con un profumo inconfondibile e eccitante),

e l’attesa dell’oca o del tacchino, l’evento

atteso e che stupisce al suo apparire,

e reverenza e gioia non debbano

essere mai dimenticate nella più tarda esperienza,

nella stanca abitudine, nella fatica, nel tedio,

nella consapevolezza della morte, nella coscienza del fallimento.

Nella pietà del convertito

che si potrebbe tingere di vanagloria

spiacente a Dio e irrispettosa verso i fanciulli

(E qui ricordo con gratitudine anche

Santa Lucia, con la sua canzoncina e la sua corona di fuoco)

così che prima della fine, l’”ottantesimo” l’ultimo, qualunque esso sia

le accumulate memorie dell’emozione annuale

possano concentrarsi in una grande gioia

simile sempre a un grande timore, come nell’occasione

in cui il timore giunse ad ogni anima

perché l’inizio ci ricorderà la fine

e la prima venuta la seconda venuta

 

Thomas Stearns Eliot

(tratta da Il Natale. Antologia dei poeti del ‘900, traduzione di Giovanni Giudici)

 

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