Non finirò di scrivere sul mare – Giuseppe Conte

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Non finirò di scrivere sul mare.
Non finirò di cantare
quello che c’è in lui di estatico
quello che c’è in lui di abissale
la sua vastità disumana
senza pesantezza, senza un vero confine
la sua aridità senza sete, senza spine
le sue forme in perenne mutamento
sottomesse alle nuvole, al vento
e al cammino in cielo della luna.
Non ne conosco, non c’è nessuna
cosa più docile e più feroce
più silenziosa e più roca
più malleabile e turbolenta
di te, mare.
Ti piace contraddirti perché sei libero
e per i liberi. Ti piace ridere
sotto il bianco tiepido soffio del levante
ti piace saccheggiare con le libecciate
e piangere con nere palpebre tagliate.
Hai visto civiltà passare, quante?
Molto prima degli uomini e degli imperi
molto prima delle montagne e delle foreste
tu eri là.
Celebravi le tue solitarie feste.
Hai visto le triremi dei cartaginesi
le galee armate dai genovesi
numerose come stelle, alte come torri
le navi che portarono in Islanda
i vichinghi fuggiaschi che raccontò Snorri
Sturluson con le sue fisse metafore.
Hai visto come si nasce e come si muore,
hai visto i polipi scindersi e gemmare
meduse su meduse nei fondali,
i naufraghi invano cercare
tra ghiacci e gorghi la salvezza
e non hai mai mosso un dito per loro,
hai accolto nel tuo silenzio buio i relitti,
li hai incrostati, protetti,
sei un vecchio padrone cinico
una madre troppo carezzevole
sei un amante incestuoso
sei un onanista, un asceta.

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E se ti contraddici, è perché sei libero
e per i liberi, non hai dato all’uomo
la possibilità di recintarti, di venderti
di fare di te lotti, proprietà
hai dato fiori di luce senza frutti
hai dato ricchezze, hai dato lutti
ma mai tutto te stesso.
Di te nessuno può dire: sei mio.
Sei di tutti e di un esiliato dio.
Non servi, non ti inchini
se non alla legge delle maree
che un metronomo cosmico ha definito.
Ti amano i solitari, i lussuriosi
che trovano in te tutte le sinuosità
tutte le vischiosità del piacere
ti amano gli increduli, i cercatori
d’oro e di niente,
gli esseri tenuti in scacco da un insano
desiderio di conoscere l’eterno grazie al presente
ti amano i visionari, gli avventurieri,
tu non sei per chi è statico e appagato
ti amano i disperati, prigionieri
di un sogno che non si è mai avverato.

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2

Non finirò di scrivere sul mare.
Perché il mare è le Sirene la cui voce
calamitante d’amore oscura
voglio ascoltare senza paura
io che non ho dove tornare, non ho un’Itaca
né Penelope né Telemaco che valgano
più del canto e delle traversate.
Perché il mare è le balene, i cui corpi
vasti e grondanti, innocenti,
scaldano i desideri più smisurati
e danzano nel più lento
arduo accoppiamento
che si conosca sul pianeta.
Perché il mare è le onde, istantanee e frananti
che scalpitano e scavano dall’orizzonte
sino alla riva, è la spuma che riga
l’aria di salino
è sentirsi vicino
all’inizio di ogni lacerazione
al primo scoccare del tempo
alla prima decisione di una cellula
– o sogno che sia stato, dirompente e fatale –
di diventare mortale.

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3

Sono esausto, sono ferito, ma
neppure così sarà finita, mare,
te lo assicuro, per quanto potrò
scriverò ancora su di una mattina
come quella che sul parabrezza
della mia auto, fuori da un parcheggio
dell’aeroporto di Nizza,
mi sei venuto immenso in corsa incontro
solcato da soffi di vento
simile a un mantello della Vergine
dipinto da Beato Angelico e gettato
su rami di meli e ciliegi fioriti.
E scriverò di quella notte
quando tu oleoso e nero, traccheggiante
tra gru e silos, pontoni e rimorchiatori
tu mare del porto, dei lavoratori
chiuso tra muraglie di container
sezionato dai moli
hai intonato da non so che punto
di te
una musica del tutto inattesa
che evoca rovine, ranuncoli e voli
crolli immani e sciami di api
rugiada ritrovata in fondo al baratro
del nulla
quella notte sul Golfo della Spezia.
E io ti dico grazie, grazie, grazie
vita, desiderio di vita,
redenzione d’amore
che dopo la distruzione
dell’universo attraverso il fuoco
fai rinascere una primula, un croco,
bisogno irrefrenabile di sempre
nuova resurrezione,
ancora vita.
Tu mare lo sai che è così.
Che non sarà finita.

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4

Scriverò, mare, sulla tua anima
a pezzi nei sacchi di plastica
di chi ti avvelena e ti spopola
di chi ti snatura
e ti riscalda fuori misura
in modo che tu sciogli
monti di ghiaccio e sperdi
fuori dei confini a cui sono usi
pesci di tante famiglie
e fai proliferare le meduse.
Ci sono uomini schiavi che vorrebbero
ridurti a schiavo, profanarti
occuparti, violarti, dare un prezzo
anche a te, farti cimitero
di uccelli, delfini e migranti.
Ma non potranno. Per quanti
siano basta una tua onda a respingerli.
Non saranno mai chiuse
le porte del tuo tempio, mare,
così sante per chi ancora le sa vedere,
tu azzurro come le moschee di Isfahan,
tu dorato come la cattedrale di Santiago de Compostela
tu orizzontale come quella di Palma
de Maiorca, estesa, calma,
quasi fosse un tuo riemerso altare.
Non finirò di scrivere sul mare.

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Da ragazzo volevo imparare a camminare
su di te, leggero come un ramo,
rispondendo a non so quale richiamo
di profezia, di eresia.
Lo voglio ancora, ne voglio ancora,
di mare, di poesia.
Per tutte le infelicità, le umiliazioni
per tutto quello che di male
mi fa la terraferma, tu sei medicina,
mare, spettacolo che appare
sempre crudo e dolcissimo ai miei occhi
come questo della tortora maschio
che sulla riva con assurdi tocchi
d’ala, planate, rincorse, svoli
insegue senza mai riuscire a prenderla
la tortora femmina.
Un coito impossibile, come il tuo
con la terra, come il mio con la vita.
Eppure sono qui, non è finita
ancora. E scriverò di te,
sempre di te, delle tue amare
verità di sale
della gioia che dai alle vele,
di te che sei ciurma e solitudine
di te che sei infinito e finitudine
padre o madre o fratello primogenito
spalancato come un abisso,
segreto come una conchiglia
sempre al di là di quello che possiamo conoscere –
e se ti contraddici è perché sei libero
e per i liberi – non finirò di scrivere
su di te mare, il sempre mare,
non finirò di cantare
di te.

Giuseppe Conte

da “Inediti”, in “Giuseppe Conte, Poesie”

Giornata Mondiale del Rifugiato

 

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Oggi ho partecipato a una pacifica manifestazione al confine italo francese, organizzata da Amnesty International, proprio presso “Il Terzo Paradiso” di Michelangelo Pistoletto. In nome dei diritti internazionali dei Rifugiati e Migranti si sono ricordati  quanti hanno perso la vita lungo il confine nel tentativo di raggiungere destinazioni che garantissero loro una vita al riparo da guerre, persecuzioni e povertà. A Ventimiglia da anni c’è un costante flusso di migranti che cercano di andare in  Francia  e proseguire il viaggio verso i paesi scandinavi, la Germania, l’Inghilterra, spesso  per raggiungere parenti o amici.

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Solo nel mese di maggio  sono passate per Ventimiglia 2500 persone diverse, provenienti in gran parte dalla Siria, Costa d’Avorio, Eritrea, Etiopia, Guinea, Nigeria, Sudan, Ciad , Mali  di cui 711 ragazzi dagli 11 ai 18 anni e 1054 dai 19 ai 25 anni.

Sempre a maggio 502 persone sono stati registrate  presso la chiesa di sant’Antonio alle Gianchette, di cui 155 femmine, 347 maschi. Tra questi 30 bambini da 0 a 4 anni, 21 bambini  da 5 a 9 anni, 18 da 10 a 14, 271 dai 15 ai 18 anni, 55 dai 19 ai 24 anni,73 dai 25 ai 34 anni, 22 dai 35 ai 44 anni, 7 dai 45 ai 54 anni, 4 dai 55 ai 64 anni, 1 dai 65 ai 74 anni.

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Da oltre un anno dedico parte del mio tempo a  loro, ai giovani che sperano gli venga riconosciuto lo  status di rifugiato. Tanti se ne sono andati, altri sono rimasti. Svolgono attività di volontariato civile, stanno seguendo sperimentazioni botaniche e laboratori didattici, alcuni lavoricchiano nei  bar e  ristoranti, suonano, cantano, hanno recitato in circa venti scuole  della zona dove siamo riusciti a portare una fiaba africana, inventata da uno dei più giovani e creativi del gruppo, per fare conoscere usi e costumi africani misti agli elementi caratteristici della fiaba,  compreso il finale “e vissero tutti felici e contenti”.  

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L’integrazione non è facile, ma possibile, lavorando  soprattutto con le giovani generazioni; qui un esempio di quanto svolto nella scuola di Dolceacqua. https://www.youtube.com/watch?v=BRapnZ1reN4

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È possibile vivere insieme, confrontarsi, maturare e imparare dalla diversità. La maggior parte dei ragazzi che arrivano sperano che un giorno possano tornare a vivere liberi e in pace nella loro terra, come noi.

 

 

 

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Hai nel viso calmo un pensiero chiaro che ti finge alle spalle la luce del mare. (Cesare Pavese)

mc curryHa nel viso un silenzio che racconta un’innata fierezza, una bellezza originaria, la storia infinita delle donne. Non è da tutti riconoscere una  bella faccia dietro quei segni, conquistati alla faccia del tempo,  perché se “il  volto di un uomo è la sua autobiografia, il volto di una donna è la sua opera di fantasia.”(Oscar Wilde). A volte d’angelo, di bronzo, da schiaffi, da boia, più semplicemente da luna piena. A ciascuno la sua faccia. Forse non alla morte che nessuno riesce a fissare fino alla fine, mentre lei di sicuro non guarda in faccia nessuno.

  Quante volte si vorrebbe  salvare la propria faccia per timore di perderla irrimediabilmente e ci si limita a girarla dall’altra parte o a sorridere per non dire in faccia ciò che si coglie e si pensa, magari  rovesciando l’altra faccia della medaglia oppure  lanciando i dadi in attesa della faccia vincente. Metterci la faccia è forse un azzardo, una questione di sfrontatezza oppure  di coerenza, con diversi gradi di consapevolezza, sempre che ci sia. Del resto si impara a proprie spese che “lungo il cammino si incontrano ogni giorno milioni di maschere e pochissimi volti” (Luigi Pirandello), ma in fondo  anche l’ altra faccia della luna è una  maschera misteriosa sul volto della notte. Eppure nulla è più interessante, a volte divertente, da  esplorare. 

oltre-lo-sguardo-steve-mccurry-001Non sempre un  bel viso è la chiave di molte porte chiuse perché gli occhi lo interpretano rivelando i segni dell’età più nascosta: di vecchia rassegnazione  nei giovani, di inarrendevole  giovinezza nei vecchi, di isola che non c’è  negli irriducibili Peter Pan. Se “un  volto senza tratti caratteristici è come un libro di cui non si può citar nulla” (Joseph Joubert), invece  un difetto può renderlo particolarmente attraente, come un  punto di riferimento in una mappa di tratti ove gli occhi sono pietre miliari, a volte d’inciampo, abissi da vertigine, ragnatele vischiose, schegge taglienti, labirinti in cui smarrirsi e ritrovarsi. La faccia  è un libro in cui molti possono leggere ma nessuno, nemmeno Dio, ne  conosce il titolo. Troppo particolare nella sua unicità, troppo sfuggente, troppo mutevole, troppo triste quando i lineamenti sono stravolti dalla violenza o  dal sonno della ragione e non si riesce a  ricostruirli nella memoria.

Se “la natura ti dà la faccia che hai a vent’anni, è compito tuo meritarti quella che avrai a cinquant’anni” (Coco Chanel). Basta non perderne la luce. “Nessun giudice è più equo della consapevolezza che si raggiunge quando si regge il proprio sguardo allo specchio, riuscendo a coglierne la trasparenza. Bagliori naturali e spontanei. Immunemente incondizionati e  originari. Spudoratamente autentici. Senza maschera.” ( “Giù la maschera”)

immagini dal web 

La campana di Punta Campanella

La Penisola sorrentina comprende la fascia montuosa di terra e di costa nella parte sud orientale del Golfo di Napoli, ma nella  toponomastica locale si considerano  esclusivamente il versante costiero che va da Castellamare di Stabia a Punta Campanella, limitato a est dal Monte Faito e a sud dai Monti Lattari. Le tante  baie ed insenature, i borghi marinari a ridosso degli scogli, i pendii ricoperti da uliveti argentati e  agrumeti contribuiscono a rendere spettacolare il paesaggio costiero, soprattutto se visto dal mare.

  In questo ambito territoriale convenzionalmente è inclusa anche Capri, un tempo estremità della penisola che in seguito a movimenti tellurici si è separata dalla terraferma. Nel corso dei secoli la penisola, grazie alla sua natura calcarea, è stata interessata da un intenso fenomeno di carsismo delle acque che ha creato un paesaggio costiero e sottomarino ricco di grotte e  insenature  di particolare valenza ambientale e naturalistica.Dal 1997 in quest’area ci sono due zone protette: la riserva marina di Punta Campanella e la baia di Ieranto, luoghi incantevoli compresi in alcuni itinerari di pesca turismo e tutelati da un Consorzio di gestione comprendente i Comuni di Massa Lubrense, Positano, Piano di Sorrento, Sant’Agnello, Sorrento e Vico Equense.

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 Sulla Punta Campanella  sorgeva un tempio, la cui fondazione mitica è attribuita ad Ulisse, e in età classica prese il nome Athenaion in onore della dea Atena. In seguito i romani  vi costruirono la strada che qui giungeva da Sorrento, e in alcuni tratti è ancora visibile il lastricato in pietra. La torre – faro eretta nel 1335 e rifatta nel 1556, segnalava l’arrivo dei pirati col suono di una campana, da cui è derivato il nome della punta. Oggi sono visibili resti di una villa romana del I- II sec d. C e la Torre Minerva di epoca vicereale (1567).

 

 Una nota leggenda popolare riguarda la campana di Punta Campanella tant’è che il  14 febbraio, in cui si festeggia Sant’Antonino patrono di Sorrento, i devoti  di Massa Lubrense e dintorni  erano  solita recarsi lì in processione  perché pare  che in quel giorno si udissero i rintocchi di una campana provenienti dalle profondità del mare, e quanto più erano forti, tanto più il mare era agitato. Credenza legata all’ invasione dei turchi nel 1558, memorabile nella storia sorrentina per atti di pirateria, devastazioni e uccisioni. SAM_2325Non a caso lungo la  costa di Napoli si ergono tante  torri di avvistamento. Sta di fatto che nel 1558 il viceré di Napoli, per Filippo II re di Spagna e delle Indie Don Giovanni Marquinez de Lara della Cueva , informato dell’arrivo di   una flotta turca di centoventi galere, mandò a Sorrento duecento soldati spagnoli. I cavalieri sorrentini però rifiutarono la truppa, temendo oltre alle molestie e ai saccheggi  anche danni ai frutti maturi, per cui fu detto  al viceré che  la vigilanza e la forza dei cittadini sarebbero state sufficienti a difendere la città. Questo fu un grave errore di valutazione del pericolo che costò molto caro ai sorrentini. Nella notte del 12 giugno la flotta ottomana approdò sulla spiaggia di Crapolla e alla marina del Cantone a Massa Lubrense, priva di difesa, mentre venti galere si schierarono di fronte a Marina Grande di Sorrento. I turchi videro la città fortificata,  protetta da solide mura e dall’ alta costa che  impedivano un facile sbarco per cui esitarono ad approdare. Intanto a Sorrento il cavaliere Onofrio Correale e sua moglie Ippolita de Rossi avevano accolto in casa per atto di pietà un servo turco che, istruito alla fede cattolica, prese il nome Ferdinando e ben presto si conquistò la  piena fiducia di tutta la famiglia. I Correale custodivano le chiavi delle quattro porte che consentivano l’accesso alla città di Sorrento, due di terra (Parsano e Marano), e due di mare (capo Cervo e Marina Grande). Proprio quella notte il Correale mandò Ferdinando a Marina Grande ad attendere un parente che arrivava via mare ma quello, vedendo i turchi, li chiamò e  li guidò in città.  Fu una notte di sangue e barbarie. “  Non furono ostacoli pel  truce ottomano né l’età, né il sesso, né la condizione, né la dimora privata, né i sacri templi, imperocchè furono uccisi vegliardi gravi di anni e bambini lattanti nelle fidate braccia delle proprie madri, spesso un sol colpo spegnendo due vite…” (da Leggende popolari sorrentine di Gaetano Canzano Avarna). La strage durò un giorno intero, e al tramonto fu dato il segnale di condurre  alle navi non solo i superstiti sorrentini, destinati al mercato degli schiavi, ma anche la campana della chiesa di sant’Antonino. Le galere turche sparirono per alcuni giorni, poi approdarono a Procida per contrattare il prezzo dei prigionieri che i sorrentini, avendo perso tutto, non poterono riscattare. I turchi quindi presero il largo per tornare alle terre natie. All’altezza di punta Campanella la barca che trasportava la campana non riuscì ad avanzare, come se ci fosse un ostacolo sotto il mare o una forza soprannaturale. Dopo tante e inutili manovre, vedendo  ormai lontana il resto della flotta, la ciurma pensò bene di alleggerire la barca gettando in mare la campana. Solo così la galera riprese la navigazione. Da allora la campana di punta Campanella suona  a distesa dal fondo del mare il 14 febbraio, giorno del patrono di Sorrento.

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Street art a Roma: “You are now entering Free Quadraro” (Lucamaleonte)

Nei primi decenni del ‘900 la rivoluzione messicana contro il dittatore Porfirio Diaz si attuò anche con i murales  pro marxismo di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros   che dipinsero civiltà precolombiane, la conquista coloniale spagnola, il culmine dell’era moderna con la Rivoluzione iniziata nel 1910. Negli anni’30  la pittura murale sbarcò oltreoceano  ma solo con Mario Sironi, scultore e architetto, in base a una nuova concezione dello spazio  venne rivalutata e incoraggiata  nel mondo artistico perché fosse fruibile a tutti. Dopo le scritte che, come tag,  dai treni di Filadelfia e New York approdarono al 68’ francese invadendo ben presto i muri d’Europa , negli anni’ 90 la street art non fu più considerata  come opera di vandali bensì  iniziò ad essere apprezzata come un movimento artistico, in grado di trasmettere contenuti,  a volte provocatori, un significato dell’arte e tecniche sempre nuove.

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In Italia uno dei primi street artist fu Blu, che oramai ha fama mondiale del quale ho scritto qui. Oggi la street art è apprezzata e rientra in progetti urbani di riqualificazione degli  spazi pubblici in tante città italiane  e in  particolar modo nelle periferie . Da tempo Roma  ha attuato progetti con street artists  operanti sul territorio che hanno realizzato  circa 330 opere in 150 strade  della città, creando un museo a cielo aperto, fruibile da cittadini e turisti, e che ben si colloca nel panorama internazionale di questa forma d’arte contemporanea.

guernica ron english testaccioHo già parlato delle iniziative   promosse  dalla Provincia di Roma, ex Municipio XI, ex Municipio XV, dalla Fondazione Romaeuropa  per valorizzare  le aree industriali dismesse del quartiere Ostiense, l’ex caserma dell’aeronautica Fronte del Porto, muri anonimi  e  i due  sottopassi ferroviari ove i  murales alleggeriscono pareti e piloni dal pesante grigiore del cemento. (http://www.skipblog.it/tag/street-art/  ). Sono interessanti anche i murales dell’artista statunitense Ron English  come la nota “Guernica”  al mattatoio del Testaccio e il  “Jumping wolf”  in via Galvani che ha suscitato qualche critica per la sproporzione e rappresenta Roma in tempi di crisi e decadenza. 

1_Minerva-Test-Foto-Marcello-MelisIl 21 aprile del 2016, giorno del Natale di Roma, è stata inaugurata Triumphs e Laments, la grande opera site-specific dell’artista William Kentridge per la città di Roma, esattamente per “Piazza Tevere” cioè il tratto delle banchine del Tevere tra Ponte Mazzini e Ponte Sisto per il quale l’ Associazione  Tevereterno ha ideato un progetto di valorizzazione delle rive del fiume. Triumphs e Laments è un fregio sugli argini che si sviluppa per 550 metri di lunghezza con un’altezza di 10 metri, realizzato  senza l’uso di vernici o pittura, ma rimuovendo  selettivamente la patina biologica accumulatasi sulle mura di pietra nel corso del tempo ( qui le  immagini    e il  video ).Le 80 opere di William Kentridge sono esposte al MACRO di Roma dal 17 aprile al 2 ottobre 2016.

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A Tor Marancia ventidue  artisti  di dieci Paesi,  con la collaborazione di 500 abitanti del quartiere e dei ragazzi delle scuole, hanno realizzato a titolo gratuito un capolavoro di street art, grazie al progetto Big City Life Tor Marancia  finanziato dalla  Fondazione Roma e dal Comune di Roma.  Le opere murali  sulle facciate di undici  case popolari di proprietà Ater del lotto 1 di Tor Marancia sono approdate alla 15a  Mostra  Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia.

Street Art: 'Sacred Birds' L7m per la prima volta in ItaliaDi recente l’artista brasiliano  L7m è giunto per la prima volta in Italia, su iniziativa dell’associazione a.DNA per il progetto “Urban Area – A Scena Aperta”. Ha dipinto i “Sacred birds”:  un passero in una scomposizione spaziale a Ostia, un coloratissimo allocco che  vola spianando le ali  su un muro  di  cemento al lago ex- Snia nel quartiere Prenestino e due colibrì sospesi in volo in via dei Quintili 162 al Quadraro.

Nello storico quartiere Quadraro si trovano opere di street artist di fama internazionale, grazie al progetto M.U.Ro (Museo Urbano di Roma) patrocinato dal Comune di Roma e dalla provincia nel 2012. Sulle facciate dei palazzi, saracinesche di uffici e negozi le opere  ben si integrano nel tessuto urbano riqualificando non solo un’area che era degradata ma promuovendo anche sinergia sociale con i comitati di quartieri che collaborano alla realizzazione delle stesse. Basti ricordare Ron English, che  critica l’imperialismo  con  Baby Hulk e  Mickey Mouse che indossa una maschera antigas, mentre Beau Stanton in “Ex morte vita” tratta il tema della vita e della morte . In piazza Quintili il grande murales di Gary Baseman ricorda il rastrellamento che nel 1944 i nazisti fecero nelle strade e nelle case del Quadraro.

 

Temnido-di-vespe-you-are-now-entering-free-quadraro-lucamaleontea ripreso dal romano Lucamaleonte, che oltre a trasformare con Hitnes il buio sottopasso di via delle Conce nel quartiere ostiense, al Quadraro  ha realizzato  “ Il nido di Vespe” per un passato da non dimenticare. Infatti proprio Kappler  definì nido di vespe il quartiere quando durante l’operazione Balena nel 1944 deportò un migliaio tra uomini e ragazzi nei campi da lavoro tedesco, con la speranza  che donne e bambini morissero di stenti. Invece  i superstiti abitanti seppero  attivare la solidarietà e la resistenza del nido per sopravvivere, tant’è che il quartiere fu insignito della Medaglia al valore civile. Il nido di vespe allude anche al  degradato Quadraro vecchio che negli anni ’70 divenne il ghetto di immigrati meridionali,  appunto un nido di pericolose vespe da emarginare . Oggi però spicca la scritta “Ora stai entrando Quadraro libero”, quartiere che ricorda e ha avuto la forza di rinnovarsi.

Ottima riuscita ha avuto il progetto SanBa nel difficile e popolare quartiere San Basilio perché ha coinvolto, oltre ai  comitati di quartiere, anche associazioni  e scuole che, a livello propositivo e di attività laboratoriali,  hanno cooperato con gli artisti  recuperando un senso di appartenenza al territorio in un’ottica di contrasto allo squallore e all’abbandono. Rendere più luminoso e bello un contesto anonimamente grigio è una prerogativa di Hitnes che ha animato le facciate di sei case popolari di San Basilio con un fiabesco bosco incantato e popolato da animali e da una lussureggiante vegetazione.

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Liqen,  proveniente da una città industriale della Spagna e caratterizzato dalla passione per l’entomologia, denuncia gli effetti nefasti dell’industrializzazione sul destino dell’uomo e della natura. A Roma ha realizzato  “El Renacer ” un enorme murales raffigurante un rastrello  che fa emergere da ferro e cemento il terreno fertile dove germogliano  la cultura, il bello e la vita.

 

 

Iacurci , noto per la metafora della pacifica convivenza  del Nuotatore di via Fronte del Porto nel quartiere Ostiense, ha contribuito al progetto SanBa con “Blind Wall” ove un uomo senza occhi innaffia un giardino, un quartiere rinnovato pacificamente e portato con delicatezza sul palmo di una mano in  “ The Globe” .

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Infine non si può poi non ricordare la cosiddetta “Cappella Sistina di Tor Pignattara” del veronese Nicola Verlato, cioè  il grande murales “Hostia” che sembra un affresco del ‘500.  Qui viene immortalato Pier Paolo Pasolini che, appena ucciso, precipita mentre dall’alto lo guardano la polizia e il suo assassino. In basso è ritratto da bambino tra le braccia della madre che sta scrivendo. Il bambino poggia la mano destra su quella della madre in un ultimo contatto, mentre si protende verso la nera Signora  che gli indica la strada. Opera solenne per il  grande intellettuale  che ha tanto osservato e raccontato la vita delle borgate romane.

 

… Stupenda e misera città,

che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci

gli uomini imparano bambini,

 

le piccole cose in cui la grandezza

della vita in pace si scopre, come

andare duri e pronti nella ressa

 

delle strade, rivolgersi a un altro uomo

senza tremare, non vergognarsi

di guardare il denaro contato

 

con pigre dita dal fattorino

che suda contro le facciate in corsa

in un colore eterno d’estate;

 

a difendermi, a offendere, ad avere

il mondo davanti agli occhi e non

soltanto in cuore, a capire

 

che pochi conoscono le passioni

in cui io sono vissuto:

che non mi sono fraterni, eppure sono

 

fratelli proprio nell’avere

passioni di uomini

che allegri, inconsci, interi

 

vivono di esperienze

ignote a me. Stupenda e misera

città che mi hai fatto fare

 

esperienza di quella vita

ignota: fino a farmi scoprire

ciò che, in ognun, era il mondo…

(da “Il pianto di una scavatrice”, Pier Paolo Pasolini)

 

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(immagini dal web)

Le bellezze nascoste di Napoli: la chiesa di sant’Anna dei Lombardi a Monteoliveto e la sagrestia del Vasari

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Nella piazza Monteoliveto  di  Napoli si trova la chiesa di sant’ Anna dei Lombardi, interessante per la sua storia ma soprattutto perché  custodisce all’ interno un gioiello architettonico e artistico, a mio parere poco noto,  che è la sagrestia del Vasari .

In origine nel 1400 in quel sito esisteva  la  chiesetta  di santa Maria de Scutellis, confinante con i giardini “Carogioiello” o “Biancomangiare” e l’ “Ampuro” che si estendevano fin sulla collina di Sant’Elmo. Nel 1411 il nobile Gurrello Orilia al posto ella chiesetta  ne fece costruire  una più grande per la Purificazione di Maria affidandola poi  ai padri olivetani  di  Firenze.  I d’ Avalos , i Piccolomini, il re Alfonso Alcune e altre nobili famiglie  napoletane contribuirono alle spese  e fecero donazioni per la costruzione di un monastero che aveva quattro chiostri, giardini con fontane, una biblioteca  e una dependance , divenuta famosa non solo per gli affreschi  del  Vasari , ma anche per il soggiorno di  Torquato Tasso durante la stesura  del suo poema.

Verso la metà del ‘700 parte del monastero  fu destinato  prima al tribunale  misto che, in base a un trattato tra il papa e il re,  consentiva ai religiosi e ai laici di essere giudici e presidenti, poi  nel 1848 divenne sede del parlamento napoletano. Alla fine  del ‘500 i lombardi presenti a  Napoli si costruirono un’altra chiesa, crollata col terremoto del 1805 che provocò anche la distruzione di tre opere del Caravaggio, per cui ne  vendettero il suolo. Quando gli Olivetani furono allontanati, la chiesa di Monteoliveto fu data ai lombardi, perciò  prese il nome di sant’Anna dei Lombardi,  e vi nacque un’ arciconfraternita  che esiste ancor oggi ma  appartiene ai napoletani. Questa chiesa  è una testimonianza del rinascimento toscano, soprattutto dal punto di vista architettonico  per le grandi cappelle a pianta centrale che ricordano quelle fiorentine. Nel  XVII l’originario stile gotico venne meno e lo si nota soprattutto in quella che sarà la sagrestia del Vasari. La chiesa chiusa per tanti anni, poi è stata  riaperta in seguito a graduali   lavori di ristrutturazione dal 1976 al 1990, in particolare dopo i danni del terremoto del 1980 : per esempio  sono stati ristrutturati  il soffitto a cassettoni, distrutto durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale,  la splendida cappella del Vasari (lavori dal 1983 al 1985) e le  opere pittoriche  e marmoree delle cappelle rinascimentali Piccolomini, Mastrogiudice e Tolosa che ben rappresentano l’influenza  toscana nell’architettura del ‘500 a Napoli.

monumento funebre Domenico Fontana

organo

Alla chiesa si accede da piazza  Monteoliveto, ubicata nel centro storico tra la piazza  del Gesù nuovo e piazza Carità presso via Toledo.  Nell’atrio  spicca il monumento funebre dell’architetto Domenico Fontana del 1627, proveniente  dalla distrutta Sant’Anna dei Lombardi e pertanto ricomposto nel secondo dopoguerra.

Imponente è l’organo quattrocentesco che subì modifiche e fu decorato nel ‘700 dal napoletano Alessandro Fabbro. santa-anna-lombardi

Tra le dieci cappelle che perlopiù fiancheggiano la navata principale della chiesa  merita quella del “Compianto sul Cristo morto”  che prende il nome  da un gruppo  di sette figure di terracotta policroma  a grandezza naturale in una Deposizione del 1492, realizzata da Guido  Mazzoni, restaurate nel 1882 e di recente da Salvator Gatto.  È un gruppo di pregiata fattura  per  le espressioni realistiche dei personaggi , tra i  quali  sono ritratti Ferdinando I e  del figlio Alfonso d’Aragona  committenti dell’opera, oltre che il Sannazzaro e il Pontano.

cappella Piccolomini

 

Bella anche la cappella Piccolomini con il pavimento a mosaico e l’altare con  la Natività, due profeti e i santi Giacomo e Giovanni Evangelista (1475 circa) di Antonio Rossellino.

 

Dalla cappella del Compianto si procede per un corridoio e si giunge all’Oratorio o sagrestia,  che in origine era un refettorio degli Olivetani, affrescato poi dal Vasari nel 1545 con l’assistenza del toscano Raffaellino del Colle. Le originarie volte ogivali  gotiche furono adattate dal  Vasari, che le abbassò e ne smussò gli spigoli creando con gli affreschi effetti ottici molto particolari oltre a coprire  di stucco le volte per renderle  più luminose. Essi consistono perlopiù in iconografie allegoriche delle  Virtù.

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Nella  parete   di fondo c’è  un altare  dietro il quale  al centro  spicca un affresco di S. Carlo Borromeo di un ignoto pittore napoletano ,portato qui  dopo la soppressione dei monasteri  e fiancheggiato  da due dipinti ritraenti  l’Annunciazione, di autori ignoti anch’essi .

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Agli inizi del  ‘400 i numerosi pannelli lignei, intarsiati dall’olivetano fra Giovanni  da Verona (1506), dalle cappelle della chiesa furono poi spostate  nel refettorio che  nel 1688 l’abate Chiocca  trasformò in una sagrestia , facendo  realizzare anche statuette lignee intervallate  alle tarsie e raffiguranti i santi dell’ordine. Le tarsie lignee del frate  Giovanni da Verona ritraggono vedute di paesaggi, strumenti musicali, libri, monumenti rinascimentali di Napoli  e rendono quest’ambiente uno scrigno di raffinata e insolita  bellezza.

 

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Il MADRE di Napoli : tra i labirinti dell’arte contemporanea.

 

20151206_134826Nel centro storico di Napoli, in via Settembrini, a poca distanza dal Duomo con l’annessa mostra del tesoro di San Gennaro (da non perdere), e dal Museo Archeologico che ospita tantissimi reperti dell’arte greco-romana, esiste e resiste il MADRE, cioè il museo d’arte contemporanea, nato nel  2005 nel palazzo Donna Regina  e trasformato in sede museale dall’architetto portoghese Alvaro Siza. Per quattro anni il museo, diretto da Eduardo Cicelyn e Mauro Codognato, ha ospitato interessanti mostre e retrospettive.  Nel 2010 però, in seguito alle elezioni regionali con l’ avvicendamento dalla giunta guidata da Antonio Bassolino (PD) a quella  di Stefano Caldoro  (PDL), si è verificato un lento matricidio causato  dall’esaurimento dei  fondi disponibili e dai tagli alla cultura museale.

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Nel 2011 il Consiglio di Amministrazione del museo si dimise. Il MADRE murò ben  sedici interno MADREstanze ormai vuote,  perché tanti artisti ritirarono  le loro opere,  e le sei opere rimaste furono  esposte nelle rimanenti  tre.  Una desolazione  perché proprio il  Museo d’arte contemporanea aveva fatto confluire a  Napoli architetti e artisti di fama mondiale, che in seguito  hanno contribuito alla realizzazione della metropolitana, divenuta ormai una meta turistica ( qui i post sulle stazioni dell’arte ).

Dopo numerosi  appelli per non perdere questa risorsa culturale, con un nuovo consiglio di amministrazione della Fondazione del MADRE, presieduto da  Pierpaolo Forte, e il  direttore Andrea Viliani in carica dal gennaio 2013, il museo sta rinascendo.  

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logo del MADRE“MADRE è l’acronimo di Museo d’Arte contemporanea  DonnaREgina, “un nome ancestrale, pieno di echi atavici e mediterranei, che parla di fecondità, nutrimento e potenza creatrice, attributi dell’arte di tutti i tempi.” Lo stesso logo del museo è un quadro in cui manca una porzione di lato perché aperto all’esterno e alle sue contaminazioni. Infatti questo museo d’eccellenza a livello mondiale ha attirato centinaia di artisti, italiani e stranieri, per aprire l’arte contemporanea  al pubblico di massa, ha rappresentato l’innovazione, un nuovo fermento culturale, la fantasia creativa che si rigenera nel panorama artistico internazionale, pur ancorando l’identità del museo al suo territorio.

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Museo d’Arte contemporanea  DonnaREgina ,

via Settembrini 79- Napoli

Segnalo la mostra di Daniel Buren “Come un gioco di bambini”

allestita fino al 04-07-2016

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Il museo civico Gaetano Filangieri

Napoli non smette mai di stupire: in luoghi nascosti e poco attraenti  custodisce angoli di rara bellezza artistica, come il Museo civico Gaetano Filangieri che si trova nella centrale e trafficata via Duomo ed è stato riaperto nel 2012.

gaetano filangieri seniorIl Principe Gaetano Filangieri, nipote di Gaetano Filangieri senior, l’eminente illuminista napoletano autore della Scienza della Legislazione,  fu  luogotenente in Sicilia e Presidente del Consiglio dei Ministri. Come suo padre e suo nonno fu un mecenate, oltre che cultore del bello, ma soprattutto si interessò dell’educazione  e della formazione delle masse popolari curando  luoghi atti a conservare  un patrimonio destinato all’educazione stessa. In particolare Gaetano Filangieri senior ebbe a cuore il miglioramento delle organizzazioni scolastiche, da lui considerate necessarie per il rinnovamento della società. Già allora intuì il legame che può esserci  tra museo e  scuola. Egli concorse  all’ istruzione  di artisti e artigiani, promosse l’operosità delle arti e delle industrie  cercando di rendere migliore, più raffinata e preziosa la produzione industriale artistica, sviluppando tradizioni di lavoro e l’educazione al bello.20151206_124142

Non avendo eredi maschi decise di donare alla Città di Napoli, non allo Stato, le sue collezioni di armi, ceramiche, porcellane, maioliche, quadri, libri e documenti storici, creando una fondazione autonoma e privata. Il Museo fu fondato nel 1882  da Gaetano Filangieri Principe di Satriano e fu aperto nel 1888.  Il principe si occupò della costruzione del museo  rispettando le facciate quattrocentesche del palazzo  Como, espressione dell’architettura rinascimentale a Napoli, inconfondibile  per il bugnato esterno e il bel portale  ad arco a tutto sesto e per l’ aspetto austero che ricorda il palazzo Strozzi e Medici. Fu ristrutturato a spese del Principe che volle farne omaggio alla città natale.  Alla fine del ‘500 passò ai padri predicatori della congregazione di santa Caterina da Siena fino al 1806 quando fu abolito il convento e diventò alloggio per le vedove di militari. Diventò nuovamente  monastero, seppure  in pessime condizioni, finché nel 1866 con la soppressione degli ordini religiosi  fu  occupato dal  Municipio. Prese il nome  di “ palazzo che cammina” perché  la facciata fu spostata di circa venti metri per la realizzazione di via Duomo. Il Museo Civico fu diretto prima dallo stesso principe, poi dal Principe Don Giuseppe Giudice Caracciolo, dal principe Don Stefano Colonna, dal conte Riccardo Filangieri de Candida Gonzaga, dal Barone Don Francesco Acton di Leporano, mentre oggi il suo consiglio direttivo è presieduto dal sindaco di Napoli, dal sovrintendente alle Gallerie di Napoli e da un discendente del fondatore.

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Durante un incendio appiccato dai tedeschi in ritirata parte delle collezioni fu distrutta  in san Paolo Besito, dove furono  portate al riparo delle incursioni aeree che distrussero buona parte del centro storico di Napoli. Nonostante le perdite subite, il museo fu riaperto grazie alla tenacia del sovrintendente Bruno Molajoli e via via si arricchì grazie a donatori  di opere pregiate   che ci tenevano a contribuire al patrimonio artistico di Napoli. Nel 1960 il Museo civico G. Filangieri è stato classificato come uno dei grandi musei italiani rinomato anche per una preziosa collezione numismatica . Qui sono esposte tremila opere tra dipinti, porcellane, maioliche, mobili.sala agataDalla sala Carlo Filangieri, con volte a mosaico dorato sulle quali tra volute floreali spiccano gli stemmi e i nomi degli esponenti della famiglia, procedendo verso la scalinata si può ammirare la collezione di armi cinesi, armature giapponesi, elmi e balestre. La scala ecoidale porta a una sala ricca  di oggetti raffinati e dedicata ad  Agata Moncada di Paternò, madre del fondatore. Si apre su un meraviglioso pavimento maiolicato, realizzato su disegno di Filippo Palizzi dagli allievi dell’Officina ceramica del Museo Artistico- Industriale.

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La sala Agata ospita opere  databili dal XVI al XIX secolo collezionate dal Principe e da altri donatori, quadri di Jusepe de Ribera, Luca Giordano, Battistello Caracciolo, Mattia Preti e Andrea Vaccaro. È completamente rivestita di legno, anche le colonne e il passaggio pensile sono lignei. La parte superiore è impreziosita da ventiquattro vetrine che raccolgono collezioni di maioliche, ceramiche, porcellane di Capodimonte  e le  statuine di bisquit della Real fabbrica ferdinandea, modellate  da Tagliolini.  

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 In fondo alla sala spiccano le spade disposte  a raggiera e convergenti verso lo scudo centrale, in acciaio dorato, decorato con una testa di Medusa. Tra le spade di manifattura spagnola e di varie epoche, si segnalano la spada d’acciaio di casa Filangieri, del XVII secolo, con lo stemma crociato retto da delfini e lo spadino ottocentesco di impiegato civile del tempo di Ferdinando I, in acciaio e osso.

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Particolarmente bella è la biblioteca , rivestita di legno, arricchita da busti marmorei, argenti e  più di 8000 volumi  di varie tematiche tra i quali quelli sulla storia  dell’arte napoletana, raccolti  dal principe Filangieri, ma anche libretti teatrali che documentano la storia culturale, musicale e teatrale dal XVII al XIX secolo.

Museo Civico Gaetano Filangieri

Via Duomo 288 – Napoli

Aperto da martedì a sabato 10/16, domenica 10/14.

Mirabilia coralii

05Qualche anno fa vidi una mostra  particolarmente raffinata di cose incredibilmente belle che i cesellatori del corallo sono riusciti a creare.

Dalle relazioni commerciali tra Genova, Livorno e Napoli dalla fine dell’epoca barocca all’inizio del ‘900 si sviluppò la  diffusione, l’evoluzione artistica  e il declino  della lavorazione del corallo, che non si ridusse a mera produzione artigianale ma fu espressione di una civiltà artistica e mercantile in cui si identifica ancora oggi Torre del Greco. Interessante è  la storia della lavorazione del corallo. In seguito al bando degli ebrei del 1492, alcune comunità ebraiche migrarono dalla Sicilia verso Genova, che era in concorrenza con Trapani e le  città catalane nell’egemonia sui traffici del corallo verso l’Oriente. Altre comunità, espulse  dalla Spagna, furono accolte a Livorno dalla fine del 1500 con le Leggi Livornine con le quali i Granduchi di Toscana garantivano libertà di commercio. Con l’editto del 1740 anche re Carlo di Borbone  richiamò gli ebrei nel Regno delle due Sicilie, sperando di potenziare i traffici marittimi come Livorno. Questi regnanti innovarono e diedero impulso all’artigianato locale della lavorazione del corallo che assunse sempre più  carattere industriale.

mirabilia-coralii-2Dopo la  gloriosa stagione barocca, le opere di incisione e scultura di grande valenza artistica vennero meno, salvo rare eccezioni, e si diffuse la produzione di sfere, grani, bottoni per rosari o per piccoli e semplici ornamenti, finché all’ inizio del XIX secolo si riaffermò una lavorazione del corallo estremamente originale, raffinata e ricca con l’assoluto primato di Torre del Greco. Ciò fu possibile in quanto cambiò la considerazione del corallo e pure il gusto estetico. Se in passato fu utilizzato per creazioni di alta oreficeria barocca, anche perché,  secondo il pensiero cattolico della Controriforma, era il simbolo sacro dell’ altissimo sacrificio, nell’ 800 la nascente borghesia lo apprezzò come elemento decorativo di  oggetti personali e  di uso comune, come pettini, fermagli, tagliacarte, specchi, manici di ombrellini, pomi di bastoni da passeggio. Si diffuse quindi una nuova tipologia di  produzione, non più di opere uniche per principi o oggetti sacri, ma  di opere  realizzate in più esemplari da distribuire in un mercato più ampio che ne faceva sempre più richiesta.

 Il materiale corallino veniva pescato nel mare antistante Livorno, nei mari di Sardegna e di Africa e nel ‘600  era  lavorato a Genova, Pisa e Livorno, soprattutto come tondi, olivette e botticelle per paternostri  e collane da esportare in India, Asia minore, paesi europei, Africa occidentale. Agli inizi del 1800 Livorno divenne la piazza più importante per il commercio del corallo grezzo ( circa 40 tonnellate annue e nel 1810 da 500 si passò a circa 1000 lavoranti nell’industria corallina), ma alla fine del secolo si verificò una parziale recessione delle ditte livornesi in quanto un’enorme quantità di corallo rosa arancio, scoperto a Sciacca, invase il mercato. In seguito molte fabbriche e laboratori artigianali livornesi  chiusero a causa dell’emergenza dei due conflitti mondiali e delle  crisi dei dopoguerra .

La lavorazione del corallo si diffuse nel napoletano soltanto nel 1800. In effetti sin dalla metà del  XV secolo si praticava la pesca corallina lungo le coste della penisola sorrentina, di Capri, oltre che della Corsica, Sardegna e Africa  settentrionale e molto probabilmente  i manufatti artistici, apprezzati dai nobili napoletani sin dal 1600,  venivano prodotti in opifici trapanesi. Con l’editto cattolico della fine del ‘400 prima, e poi con la seconda diaspora dei corallari siciliani nella seconda metà del ‘600, maestri trapanesi  giunsero a Napoli portando la loro “arte”. Fino alla fine del ‘700  però gli artigiani erano dediti alla lavorazione del liscio, mentre gran parte del corallo grezzo, pescato dai torresi, confluiva a Livorno. Nella seconda metà del ‘700  Ferdinando IV di Borbone pensò di fare lavorare il grezzo a Torre del Greco per promuovere lo sviluppo dell’artigianato locale, ridusse quindi l’imposta sul grezzo importato, favorì la vendita del corallo a Napoli e nel 1790  emanò il Codice Corallino e lo Statuto della Compagnia per disciplinare l’attività di pesca, la custodia e la vendita  del corallo. Il re però non riuscì ad avviare una fabbrica a Torre del Greco  sia per la situazione internazionale (rivoluzione francese), sia per l’antagonismo tra francesi ed inglesi nel controllo dei traffici marittimi e l’eruzione del Vesuvio del 1794.

09Subentrò però un intraprendente francese, Paul Barthèlemy Martin che,  sulla scia  della moda del corallo molto apprezzato da Carolina Bonaparte, agli inizi dell’800 col consenso di Ferdinando IV aprì la prima fabbrica di lavorazione del corallo a Torre del Greco, esente da dazi per l’esportazione di quello lavorato e per il commercio interno al Regno, a condizione che formasse giovani apprendisti in quest’arte.  Il successo fu immediato: nel primo anno la fabbrica del Martin, che impiegava un centinaio di lavoranti, ottenne da Napoleone I il diritto di produrre e vendere in tutto il regno e il divieto per chiunque di contraffarne la produzione. La produzione  di sculturine e cammei di gusto neoclassico era molto apprezzata da  Carolina Bonaparte che al fratello Napoleone regalò una spada di gala, dalla splendida elsa con cammei in corallo, esposta per la prima volta in Italia nella mostra “Mirabilia coralii”, in cui qualche anno fa furono esposti 150 preziosi manufatti di  corallo provenienti da  musei  e da collezioni private.  

 I Bonaparte e la  nascente borghesia  fecero la fortuna del corallo, lavorato in oggetti di uso personale secondo la  moda in stile impero che si ispirava alla classicità romana. Nella prima metà dell’800 a Torre del Greco operavano otto fabbriche e a Napoli  una cinquantina di botteghe di corallari.  Dalla metà dell’800 si realizzarono  creazioni ispirate a modelli rinascimentali e naturalistici ( bouquets di fiori, foglie,  frutti) e lavorazioni scolpite a tutto tondo realizzabili, giocando sulle irregolarità del corallo, con  tutto il materiale corallino, compreso  quello di scarto non adatto per pallini. L’arte del corallo fu reclamizzata in esposizioni nazionali ed estere ( Londra, Parigi, Vienna), conquistando il riconoscimento di attività tipica di Torre del Greco.

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La scoperta di enormi banchi di corallo a Sciacca provocò un collasso del mercato. Le ottanta fabbriche che  nel 1880 impiegavano 4000 lavoranti si ridussero a circa sei, di grandi dimensioni, solo dieci anni più tardi,  e il prezzo del grezzo scese dell’80 %. A Torre del Greco continuò la lavorazione del tondo soprattutto a domicilio e ad opera di donne. Alla fine dell’800 si diffuse la lavorazione di cammei su modelli classici, la produzione di oggetti che si rifacevano all’arte pompeiana e altri ancora  in stile liberty  che ricercavano ed utilizzavano materiali diversi, quali conchiglie e madreperla. Le opere più pregiate  furono realizzate col corallo giapponese, sempre più importato, e perlopiù destinate a un mercato straniero. Una parte della produzione fu realizzata su richiesta dei mercati orientali e africani, mentre in Italia furono largamente richiesti il gioiello popolare di corallo e l’amuleto porta fortuna.

“La casa de li spasse, lo puorto de li guste” nel presepe napoletano

 La taverna è uno dei tre quadri fondamentali del presepe napoletano, insieme  alla Nascita e all’Annuncio ai pastori, che per la prima volta  nel 1507 fu  introdotta dal bergamasco Pietro Belverte in un presepe per i frati di San Domenico Maggiore. Dal 1600 in poi la taverna divenne uno spazio caratterizzante il presepe, un angolo di vita quotidiana che in primo piano capta l’attenzione di chi osserva. In effetti il presepe napoletano ha riprodotto e riproduce in sé personaggi, eventi, mode contemporanee e la stessa arte gastronomica vi confluì, considerando che raggiunse l’apice nel 1700.

Già verso la metà del ‘600 il marchese di Crispano censì a Napoli circa 210 taverne dove la tradizione culinaria era ben radicata. Pare che l’ambientazione della taverna sia da ricondurre  all’Osteria del Cerriglio, di fama europea, sorta nel ‘500 e ubicata tra i banchi Nuovi e Sedile del Porto, dietro Piazza Bovio e Corso Umberto. Era  ancora molto  rinomata nel ‘700 sia per la qualità delle pietanze  e del vino, sia perché frequentata da artisti e letterati, nobili e stranieri, amanti della buona tavola che lì venivano a contatto con il popolo e le prostitute.

 

 

Giambattista  Basile scrisse che era

”La casa de li spasse

lo puorto de li guste

dove trionfa Bacco

dove se scarfa  Venere e l’allegria

dove nasce lo riso

cresce l’abballo e  bernolea lo canto

s’ammansona la pace

pampanea la quiete

dove gaude lo core

se conforta la mente

se dà sfratto a l’affanno

e s’allonga la vita pe cient’anne”

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Nella locanda del Cerriglio  il  Caravaggio fu sfregiato al viso nel 1609 durante un soggiorno a Napoli. Qui si esponevano in bella vista una gran varietà di  prodotti alimentari e ortofrutticoli, che potevano  appagare l’atavica fame e la miseria del popolo, più di recente  rappresentate da Pulcinella o dal mangiatore di maccaroni :  salsicce, uova, polli, pesci e frutti di mare, ortaggi, frutta, formaggi, ricotte.

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Oltre ad essere il regno dell’abbondanza, lo era anche della convivialità partenopea e del  divertimento perché musicanti e donne allietavano gli avventori in cerca del piacere o delle chiacchiere sui fatti della città.

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Nella taverna primeggiavano  le colorate maioliche: piatti, zuppiere, lucerne, pavimenti, piastrelle, ampia testimonianza dell’artigianato locale.

taverna con monacoIn seguito, dalla fine del XIX secolo, gli studiosi di storia, di tradizioni e di antropologia rividero la simbologia del presepe e la taverna fu quindi considerata luogo di perdizione ove regnano i vizi di gola, lussuria, gioco ed ubriachezza;  a volte vi compaiono anche un monaco ubriaco, che rappresenta la corruzione temporale della chiesa, i giocatori di carte, detti Zì Vicienzo e Zì Pascale che  hanno poteri divinatori e l’oste che diviene un personaggio demoniaco.

 

Quest’anno vi  segnalo due mostre sull’arte presepiale:

“Maestri in Mostra” presso Villa Fiorentino, Corso Italia 53 –Sorrento (Na) fino al 10 gennaio (ore 10-13 e 16-21) 

“Trentesima Mostra di Arte Presepiale”  nel Complesso Monumentale San Severo al Pendino, Via Duomo 286- Napoli fino all’8 gennaio 2016 (ore 9.00-19.00)

 

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