La dama bianca

Mi piace esplorare con lo sguardo le grandi città che si raccontano nella solenne vastità delle piazze, nei monumenti solitari, sui portali di antiche  chiese, tra gli  sconfinati viali alberati  e gli  zampilli iridati delle fontane, e scrutare  con il naso all’insù le finestre, i balconi, i tetti di imponenti palazzi, muti testimoni di storia vissuta. In città  mi sento anonimamente libera di osservare con discrezione le  tante persone che incrocio per strada, sui mezzi pubblici o nelle stazioni affollate. Genova è una città particolarmente austera e poco caotica, a differenza di altre che stordiscono, e qualche tempo fa  ho avuto l’occasione di riscoprirla a tratti,  tra una corsa e l’altra.

 

 Unico imprevisto dell’afosa giornata è stata la coda alla biglietteria della stazione ferroviaria per cui ho  dovuto rinunciare all’ Intercity del ritorno. Il successivo era previsto dopo circa quattro ore, quindi non mi  restava altro da fare che prendere un treno regionale. Rassegnata al supplizio che mi attendeva,  mi sono seduta nella sala d’aspetto per riposare le zampe e finire di leggere il quotidiano, ingannando così l’attesa.

 

Ad un tratto ho intravisto una sagoma bianca e ho alzato gli occhi.

Fiera, ostentava un abitino bianco, che scopriva il ginocchio. Le bretelle erano fermate ai lati da due passanti dorati e sandali pitonati, con tacchi troppo alti e a spillo, slanciavano polpacci nervosi. Ha sfilato per un paio di volte avanti e indietro, come in passerella, conscia di non passare inosservata a causa del vestito aderente e trasparente. Dava l’impressione di aspettare un qualcuno che non c’era. Si è seduta ad un tavolino del bar, ha accavallato le gambe con spudorata disinvoltura mentre fumava  una sigaretta. Il rossetto acceso contrastava coi lunghi capelli rossi e grandi occhiali neri a maschera coprivano il volto, senza riuscire a  celare i segni dell’età  nelle pieghe laterali della bocca. Poi si è alzata. Indomita e inarrendevole ha aspettato a lungo, guardandosi intorno e continuando a volteggiare nei pressi del tabellone degli orari,  tra comitive di ragazzi con gli zaini in spalla e famiglie in partenza per le vacanze. Infine è andata via.

 

Dopo poco ho raggiunto con mia figlia il binario sotterraneo per prendere il treno che ci avrebbe riportate a casa. Lì sotto si incanalava una corrente d’aria fresca che faceva quasi rabbrividire. Un continuo via vai di turisti  con trolley voluminosi, stanchi pendolari, donne accaldate con bambini irrequieti al seguito  mi hanno distratta.

Per terra spiccava la macchia bianca. Era di nuovo lei. Stava rannicchiata, in modo composto, sulla borsa. L’appariscente e provocante dama ultrasessantenne non aveva più l’aria spavalda di prima. Sembrava delusa, quasi restia a mostrarsi. D’un tratto  mi appariva fragile nella sua sfida contro quel tempo in cui la natura reclama il suo dazio e cessa la stagione del bell’ apparire a ogni costo. In quell’angolo c’era una donna ridimensionata dalla sua solitudine, immobile nella sua inutile attesa, muta nel rumore circostante. Non dominava più un immaginario palcoscenico ma, assorta nei suoi pensieri, delusa pareva che lo stesse osservando da lontano.

La malinconia, confermata da movenze più naturali e discrete,  le restituiva la bellezza dei suoi anni.

 

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Cinabro

Tempo fa io e la mia amica Filo ci siamo azzardate a scrivere un raccontino a due tastiere. Buona lettura!  :)

Le tre. La luna scorticava la pelle oleosa del mare di luce sulfurea, appena sufficiente a scorgere le sagome degli alberi e il profilo degli scogli  davanti alla villa. Qualche nuvola brucava il chiarore lattiginoso. Non si udiva altro rumore dello sciacquio lento delle onde sulla riva sassosa.

Marta uscì dall’ombra al riparo del muro. Guardò la luna e le venne in mente un verso “C’è tanta solitudine in quell’oro”, ma non ricordava l’autore.

Si concentrò con freddezza su ciò che stava per compiere. Tirò il cappuccio di lattice sulla testa, chiuse la cerniera della muta subacquea, infilò la torcia e il coltello nella cintura e si immerse con un lieve fruscio nell’acqua nera.

 La grande luna segna la strada obbligata. Lo stesso cammino percorso ogni giorno, ora splende solo in parte, come la bianca signora, elegante , distaccata, assorta che gridava, che cercava appigli in qualcosa che le era negato. Quella mattina aveva detto con voce astiosa: “Devi andartene Maddalena. Lui non ti vuole più vedere, ed è meglio per tutti. Sei giovane, ti rifarai una vita, una vita tua per davvero. E’ tempo che tu vada, che strappi le radici. Una pianta non può avere radici su quelle di un’altra. Una delle due è destinata a soccombere. Buona fortuna!”

Fortuna! Penso alla mia fortuna, sola, su questa nave, dove l’odore della salsedine e l’umidità serale mi coprono come uno scialle, mentre parto senza sapere nulla della mia destinazione. La luna splende su un cammino che altri hanno tracciato per me, non ho mai potuto scegliere un granchè, finora. Non ho scelto l’amore. Pietro ha scelto me. Sono stata attratta dalla sua gentilezza, l’ho seguito e mi sono lasciata guidare, ma la vita che porto in grembo lo ha allontanato da me, per sempre.

 

Nel pomeriggio aveva effettuato un accurato sopralluogo intorno al muro di cinta che circondava il parco e la villa. L’ingresso principale era costituito da un ampio portale secentesco ligneo incardinato a due pilastri e sormontato da un timpano ovale sul quale era scolpito un uroboro che  conservava ancora la traccia sbiadita  delle scaglie rosse e nere con le quali era stato in origine rivestito il serpente.

Quando lo vide, Marta  fu certa di aver trovato quello che cercava..

Nel darle le indicazioni per rintracciare la villa, la nonna  le aveva descritto minuziosamente quel portale e il simbolo scolpito sul timpano. Il legno del portone pareva ben conservato e non mostrava  fessure dalle quali poter dare un’occhiata all’interno. Da fuori era possibile vedere soltanto l’intricato fogliame  di eucaliptus, alberi del pepe, palme, ulivi in parte ricoperti di edera che facevano del parco una foresta lussureggiante e in  stato di abbandono. Della villa, disabitata da molti anni, si scorgeva appena la torretta color cinabro che sovrastava il corpo principale dell’edificio.

Il muro, alto tre metri, proseguiva sul lato ovest lungo il sentiero che conduceva alla spiaggia per poi svoltare a sud  a ridosso della scogliera in una piccola insenatura dal fondale basso e sabbioso. La nonna le aveva assicurato che l’unica via di accesso alla villa era il cancello che dava sulla scogliera. Un tempo, quando davanti alla casa si stendeva una lunga distesa di sabbia oltre la scogliera, da quel cancello si accedeva direttamente alla spiaggia. La signora vi faceva lunghe passeggiate al mattino presto quando il mare era calmo, d’estate, tutta vestita di bianco con un cappello a larghe tese che la riparava dal sole. Era sempre nervosa, tormentata dall’emicrania, e quelle camminate solitarie, a suo dire, la ristoravano.

Il cancello c’era ancora. Marta l’aveva visto nel pomeriggio  nuotando nell’acqua della baia, divorato dal salino e ostruito fino a metà da cumuli di alghe secche. Negli ultimi tempi la fisionomia della baia era cambiata. Le mareggiate invernali  spingevano le onde fino a penetrare oltre le sbarre di ferro del cancello, nel giardino, depositando alghe, sassi e sabbia sul terreno ormai incustodito. Non doveva essere facile per una persona fragile di nervi, nei giorni di tempesta e di mistral, sopportare il fragore delle onde che si schiantavano a due passi dal muro della villa.

 Questo viaggio è interminabile. Sulla nave c’è odore di disperazione e miseria. C’è odore di paura. Ho vomitato tutta la mia solitudine, il silenzio, la delusione, la rabbia, l’ingenuità. Ho abbassato lo sguardo per evitare ogni forma di contatto con uomini così diversi da quelli del mio paese, così diversi da Pietro. Lui sbirciava dietro la finestra mentre raccoglievo fiori in giardino per la tavola, mi scrutava con sguardo attento e curioso, mi sorrideva con dolcezza nei rari momenti di intimità. “Ti dipingo coi colori freschi della tua giovinezza” diceva. Non mi ha nemmeno salutata.

 La notte era pastosa, immobile, impregnata dell’odore umido di salmastro e resina di pino.

Marta scivolava con lente bracciate smuovendo appena l’acqua. Il mare richiudeva all’istante gli strappi che lei  lasciava dietro di sé. La luce opaca della luna era sufficiente a rischiarare il punto dove nel pomeriggio aveva stabilito di approdare. Mise un piede su uno spuntone di roccia , si issò in piedi e raggiunse senza difficoltà la soglia del cancello. Appostata dietro il muro, attese che i battiti del cuore rallentassero il galoppo che le scalciava nel petto. Fin qui era andato tutto  secondo i piani, ora doveva affrontare la parte più difficile.

Ripassò mentalmente la pianta della casa che aveva disegnato sulla base delle indicazioni fornite dalla nonna. Lo studio era al secondo piano sul lato est ed era l’unica stanza che da quel lato avesse un balcone .La nonna ricordava che il giardiniere, su ordine della Signora, aveva fatto arrampicare con cura su quel balcone  un glicine che negli anni era diventato un magnifico pergolato di tralci contorti, aggrovigliati tra loro come spire di serpente  che già  in aprile diventava una cascata di grappoli viola procurando  un’ombra screziata, profumata dove Pietro  si sedeva spesso  a leggere o disegnare.

Marta si augurava che il glicine fosse rimasto al suo posto.Si sporse dal muro e puntò lo sguardo oltre le sbarre del cancello. Buio. Silenzio.

Gli ombrelli neri dei pini marittimi gettavano ombre scure nascondendo parte della facciata sud della casa. Si intravedevano alcune persiane chiuse e quel rosso cinabro così intenso delle pareti che nel chiarore lunare appariva quasi nero.

Estrasse da una cerniera laterale della muta i guanti e li indossò. Si aggrappò alle lance acuminate, appoggiò i piedi sulla sbarra orizzontale  e con un balzo scavalcò il cancello atterrando dall’altra parte sul tappeto di alghe secche .Attese qualche istante.Pensò che doveva sbrigarsi. Improvvisamente si sentiva inquieta. Percepiva una vaga insidia, una trappola. Voleva essere al più presto lontano da lì. La casa ora le pareva sinistra e minacciosa. Si diresse velocemente verso il lato est. I suoi passi erano attutiti dal folto strato di aghi di pino che ricopriva il sentiero.

Il glicine era là. Un intrico di foglie e rami che stritolavano la ringhiera del balcone.Saggiò la resistenza del tronco rugoso e si sollevò fino alla terrazza. La luna proiettava una lunga ombra sul pavimento corroso. Due finestre. Senza esitare si avvicinò a quella di sinistra. Il legno marcio delle persiane cedeva facilmente. Usò il coltello per svellere alcune stecche e infilare la mano per tirare su il gancio. La persiana si aprì senza rumore.

Cominciava a sudare nella muta di gomma. Sfilò il cappuccio e rimase in ascolto.

Più di ogni altro, aveva temuto il momento di rompere i vetri della finestra. L’effrazione della finestra poteva scatenare la sirena di qualche allarme, sebbene dubitasse che la villa fosse dotata di un simile  impianto.In ogni caso aveva previsto questa evenienza e sapeva che avrebbe avuto tutto il tempo di portare a termine l’operazione prima che giungesse qualcuno.

 La maternità, l’abbandono di Pietro, la vita famigliare con Giacomo in un paese così diverso e lontano dal mio, mi hanno fatta crescere all’improvviso, ma mi reputo fortunata. Giacomo era un gran lavoratore, silenzioso, poco incline alla risata ma buono e, a modo suo, sapeva essere affettuoso e premuroso. Pietro però non l’ho mai dimenticato. Una volta ho provato a scrivergli. L’attesa di una risposta, una qualunque risposta che non è mai arrivata, mi ha logorato per qualche tempo. Il silenzio uccide lentamente più di un diniego. Ho riversato le mie energie in mia figlia, in lei ho mantenuto le mie radici e amato ciò che ero stata a mio tempo. Ed ora, dopo tanti anni, la lettera di questo sconosciuto che mi riporta alla casa da dove sono partita. Per Marta, devo farlo per Marta, lei deve conoscere il mio segreto.

 Con il manico della torcia vibrò un colpo deciso. I vetri andarono in frantumi schiantandosi con fracasso sul pavimento all’interno della stanza.

Marta si ritrasse in fretta e si appoggiò al muro. Sentiva il sordo pulsare del cuore  nelle orecchie. Nessun allarme era scattato. Le parve di udire l’abbaiare di un cane poco lontano. Guardò l’orologio: le tre e trenta. Presto. Doveva fare presto. Il suo aereo partiva alle sette. Aprì la maniglia che chiudeva la finestra ed entrò nella stanza.  Accese la torcia e la puntò alle pareti. L’informatore aveva detto che  il quadro si trovava ancora appeso al muro davanti allo scrittoio. Pietro non aveva mai permesso a nessuno di toccarlo o rimuoverlo dal suo posto. Marta non esitò a riconoscerlo. La luce vivida della torcia illuminava una tela incorniciata in mezzo alla parete  che ritraeva una giovane donna seduta a cucire accanto alla finestra col viso rivolto di tre quarti verso colui che la dipingeva. I capelli biondi ramati sprigionavano scintille di fuoco raccolti sul capo in una morbida acconciatura. Alcune ciocche sfuggivano dallo chignon e ricadevano con grazia sul collo contornato da una collana di granati da cui pendeva un ciondolo che raffigurava lo stesso uroboro del portale della villa.

La donna del quadro era sua nonna.

 Un detto popolare dice “Ogni cosa a suo tempo”. Forse. So solo che il tempo ritrovato all’ improvviso squarcia la memoria dei ricordi . Una sensazione, una frase, una melodia… nel mio caso una lettera, non quella da parte sua, tanto attesa e mai arrivata che mi aiutasse a farmene una ragione, bensì  di uno sconosciuto. A volte le vite procedono  in parallelo e non sempre per scelta. La giovinezza aiuta a rinnovarsi, a lasciarsi coinvolgere con l’ incoscienza dell’ età, a disperdere le ombre  e inseguire le stagioni. Ora quei fili che parevano spezzati  si rinsaldano, quasi  per risarcirmi e confermarmi ciò che volevo credere e salvare . In fondo le  cose belle del cuore tornano sempre. Il risentimento le ha solo coperte. Forse è  la prima volta che scelgo davvero, che riesco a riconoscere uno spazio a quel silenzio che mi ha consentito di diventare ciò che sono. 

 Qualcuno la chiamava da lontananze remote. Udiva il suo nome pronunciato dalla  voce sconosciuta di un uomo che parlava italiano. Lentamente la sua coscienza emergeva galleggiando su acquitrini paludosi tra dense spirali di nebbia e improvvisi squarci di luce che le impedivano di vedere. Non riusciva ad aprire gli occhi. Ansimava mentre correva sul viale verso il cancello stringendo la sacca impermeabile che conteneva la tela del quadro. Il suo corpo allenato scattava con falcate poderose verso la meta, la mente lucida teneva a bada la paura che la attanagliava. Aveva raggiunto il cancello, le mani aggrappate alle sbarre,coi muscoli tesi delle braccia si era sollevata da terra puntando i piedi sulla stanga orizzontale.

Aveva fatto in tempo a vedere un drago bianco che divorava la luna.Un colpo improvviso le era esploso in testa ed era caduta all’indietro sul tappeto di alghe secche.

Spalancò gli occhi e si sedette di scatto sul letto. Una fitta lancinante alla base del cranio le strappò un gemito di dolore. Si portò una mano alla testa e si accorse di indossare ancora la muta. La stanza dove si trovava era debolmente illuminata da una luce rosata che proveniva da un abatjour accanto al letto.

Prima di riuscire a formulare un pensiero, una sagoma nera uscì dall’ombra

-Marta…non temere. Sono tuo amico. Non voglio farti del male-

L’uomo era alto, magro, sui quaranta, abbronzato, i capelli dorati come quelli di Marta. Parlava italiano a bassa voce con accento francese.

-Bastardo- sibilò lei tastando la cintura per afferrare il coltello – sei tu che mi hai colpito. Chi sei? Che intenzioni hai?-

-Il tuo coltello ce l’ho io. Te lo restituisco dopo. Non temere ti dico, sei libera, non voglio trattenerti né denunciarti, il quadro è tuo .Devi riportarlo a Maddalena. Sono passati sessant’anni, ma deve sapere che Pietro non l’ha mai dimenticata. Io  volevo solo vederti, conoscerti …Mi chiamo Enrico …sono tuo cugino di secondo grado.

-Bel modo di fare conoscenza- disse Marta – per poco non mi ammazzavi!

-Scusami. Sei stata troppo veloce. Non avevo scelta.

Marta si guardò intorno. La tensione di quella notte cominciava a sciogliersi. Un po’ di calore circolava nei suoi muscoli rigidi, sempre all’erta. Aprì la cerniera della muta per liberare le braccia.

– Tieni. Indossa questi.- L’uomo le passò una maglietta e dei pantaloni corti

-Sei tu l’informatore!

-Sì. Sono io. Avevo lasciato un numero di telefono nella lettera che ho spedito a Maddalena. Avresti dovuto contattarmi. Hai corso un brutto rischio a entrare nella villa come una ladra.

-Non ne sapevo niente. E poi io faccio a modo mio. Sono venuta a prendere il quadro, non mi interessa altro.

-Lo immagino!

Marta arrotolò la muta e la mise in una borsa. Si avvicinò alla finestra. La luna era scomparsa dietro il promontorio lasciando una caligine bianca che  schiariva il cielo.

Era quasi l’alba.

Guardò l’orologio. Se si sbrigava sarebbe riuscita a prendere l’aereo.

-Perché hai fatto tutto questo?-

Sussurrò la donna voltandosi a guardare Enrico.

Il parco e la villa sono stati venduti a una società che ne farà alloggi turistici. Pietro ha lasciato solo debiti. Tutto quello che vedi andrà perduto, distrutto. Lui voleva che Maddalena sapesse che non l’aveva dimenticata e che  avesse il ritratto che le apparteneva. C’è anche questa.-

Le porse un sacchettino di pelle . Marta lo prese e fece scivolare in mano una collana di granati con un ciondolo che raffigurava l’uroboro.

-Il cerchio si chiude.-  Disse con un sospiro.- Peccato che sia così tardi!-

Enrico si  mise le mani in tasca  e le andò vicino.

-Sono anni che vi cerco. Maddalena era sparita senza lasciare tracce.

– Fu costretta ad andarsene, ma il suo cuore non si è mai allontanato da questa casa.-

– Assomigli molto al ritratto del quadro. – mormorò Enrico scostandole una ciocca di capelli dal viso.

 

Marta vide il sole levarsi sul mare dal finestrino dell’aereo. Borges. Prima di sprofondare nel sonno  le era tornato  in mente il nome del poeta.

Non è mai troppo tardi per capire che nulla è vissuto invano.

 

La valigia

 

La valigia. Di cuoio, tela, plastica o metallo, con manici o rotelle, di varia grandezza per contenere quanto può esser utile in viaggio. Non è solo un accessorio ma anche un  testimone di quelle parentesi, più o meno incidenti, che formano il percorso della vita.

Viaggi unici o a cadenza periodica, con destinazione prefissata o senza meta e ritorno, viaggi di lavoro e di studio, di divertimento, di trasferimenti più o meno definitivi. Ho sempre osservato lungo le banchine dei porti e  delle stazioni , ai check – in degli aeroporti e in autostrada il bagaglio dei viaggiatori, talvolta per captare frammenti di esistenza.

Valigie violate  durante i controlli negli aeroporti, talvolta smarrite, valigie in attesa, allineate e solitarie, nella speranza che qualcuno, già disperato per aver perso gli effetti personali, le riconosca e le   riprenda. Valigie leggere di chi insegue riposo, svago e lavoro, di chi ama conoscere  luoghi, persone e culture diverse e valigie pesanti  di chi va oltre per lasciare certezze franate o  ricongiungersi ad affetti lontani, per sfuggire a realtà rivisitate con occhi diversi o per inseguire prospettive di vita migliore.

 Per anni ho immaginato una valigia  di cartone. Quella che lo accompagnò nel dopoguerra. Uno strano presentimento lo aveva indotto a  tornare a casa e scoprì che sua  madre, ancora giovane, da poche ore  era partita improvvisamente per un viaggio senza ritorno. Allora raccolse i ricordi, il senso di colpa per non averla accompagnata (ma non fu avvisato per timore che gli fosse troncata  la possibilità di  carriera in Accademia ), i sogni e le sue giovani forze di diciannovenne e partì con il fratello maggiore in cerca di fortuna. Il mare l’accolse e viaggiò per molto tempo e per lunghi periodi, inizialmente per lenire un dolore, poi per costruire un futuro alle sue sorelle e alla sua nuova famiglia.

 La sua valigia era sempre pronta: per partenze dovute ad emergenze  improvvise su navi negli oceani e nei porti di tutto il mondo. Una valigia foriera di imprevisti , distacchi e di attese…ma era certo che sarebbe tornato e che in tanti l’avremmo sempre aspettato.

Una volta fece una valigia per non abbassare ingiustamente  la testa in  controversie di lavoro. Scelse la lontananza ma poi mise umilmente da parte l’orgoglio per privilegiare gli affetti. Dopo tanti anni, quando temeva di lasciare tutto per sempre, ha cercato di giustificarsi. Gli ho risparmiato le parole. Non doveva  scusarsi. Ho apprezzato quel suo gesto , anche se allora lo interpretai con i moti del cuore in quanto ignara delle vere ragioni che mi furono spiegate anni dopo. Quella valigia esprimeva il tentativo di affermazione della sua dignità di persona oltre che di lavoratore, con un atto di rivolta soffocato poi dal ruolo di padre.A volte però si è più grandi nel sottomettersi mantenendo le distanze e assumendosi altre responsabilità, che nel mettere alle strette scappando.

 Più volte ho fatto e visto fare le valigie. Erano  piene di malinconica incertezza , solidi affetti e gagliarde speranze che hanno consentito di conoscere luoghi stupendi e persone speciali.

Sin da bambina ho avuto la mia valigia piena di magliette e costumi da bagno. L’aspettavo per tutto l’anno perché segnava la mia vacanza estiva a casa dei nonni, il mio recupero di radici, di aneddoti e racconti di capitani, missionari e di tante donne, di spensieratezza estiva e complicità  con i cuginetti che non volevo più lasciare a fine agosto.

Più tardi alla valigia seguì un borsone leggero pieno di libri, ideali, cambi di stagione e nostalgia di casa che si affievolì col tempo. Il ritorno quindicinale a casa, divenne via via sempre meno frequente:  mensile, trimestrale ed infine solo durante le feste comandate. Peregrinando in treno  su e giù per l’Italia mi sentivo un’apolide, o meglio  un’extracomunitaria di casa mia,  finchè finì il nomadismo studentesco e decisi di divenire stanziale, mettendo su famiglia, e dopo qualche anno iniziai a lavorare.

Ero una pendolare come tanti con una valigetta sempre piena di carte , di impegni e di corse contro il tempo. Dopo aver cambiato in quattro anni quattro sedi di lavoro e quattro case, traslocando con due pargoletti al seguito, proclamai solennemente che in futuro avrei viaggiato solo per divertimento e che il mio prossimo trasloco sarebbe stato solo per riposare beatamente in un loculo. Come non detto, perché la vita è imprevedibile.

 Così per un lungo periodo mi sono fermata per ammortizzare i frequenti cambiamenti, ma in casa mia c’è sempre una valigia pronta: la sua. Partenze, attese  e ritorni e  l’istinto di fare valigie…credo facciano ormai parte del nostro DNA, da generazioni. Ha contagiato anche i nostri figli che ora per motivi di studio e vacanza, domani per seguire orme ataviche, impazienti di partire preannunciano futuri viaggi.

 Memore ancora del mio girovagare per stazioni  e aeroporti a mo’ di peripatetica profuga, trascinando su un carrello i bagagli sui quali stavano ben appollaiati i miei figli irrequieti con tutto l’occorrente necessario per accudirli nei periodi di ricongiungimento familiare,  ora mi accontento di un semplice trolley per  pause periodiche, brevi  e di assoluto riposo a casa mia nel Nord. Sì perché i cambiamenti fanno parte della vita, c’è chi li sopporta e chi li cerca, e due anni fa non ho perso l’occasione di vivere nella bellissima Roma.

 Viaggiare non è solo interruzione, distacco o lontananza  da ciò che dà calore e certezza perché conosciuto, ma è scoperta del nuovo grazie a un’ottica diversa, senso di avventura e curiosità, “abbandono di un programma ordinario a favore del caso, rinuncia del quotidiano  per lo straordinario” (Herman Hesse).

È l’inizio di una  parentesi per costruire una vita interessante, dinamica e  mai monotona, per sentire l’alternanza della dolce melodia, che ancora al passato, e di ritmiche originalmente diverse, briose e allegre che fanno danzare  verso inesplorati orizzonti .  

“Viaggiare è come sognare: la differenza è che non tutti, al risveglio, ricordano qualcosa, mentre ognuno conserva calda la memoria della meta da cui è tornato.”   ( Edgar Allan Poe) manon smetteremo di esplorare. E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta.” (Thomas  Stearns Eliot), perché “il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi” (Voltaire).

 

 Dedicato a mio padre.