Lo spaghetto tradito

“I napoletani non comprano più pasta napoletana. La ignorano. Non credono più al suo mito. Si vantano di mangiare maccheroni provenienti da remoti paesi appenninici e alpini, da pianure sconosciute  dove, per tempo, furono chiamati mugnai e pastai di Torre Annunziata, Gragnano, Nocera, Pagani, San Severino, Cava dei Tirreni, Pontecagnano, Eboli e Battipaglia, le patrie della “vera Napoli”, fabbricata con grano duro proveniente dalla Crimea e in ogni caso dalle Russie e messa e tesa ad asciugare come panni lini in grotte piene di ombra e frescura con venti continui della mitezza di zeffiri. Paste e farine se ne fabbricano ancora in questa zona, che sembrava ne serbasse il destino e il segreto, e di buone e solide, ma hanno uno spazio indigeno, smerciate da pochi negozi come rarità; come cibi caduti in disuso e richiesti solo da clienti stravaganti. Qualche lustro fa, tra Pucciano e Pareti di Nocera, sopravviveva una fabbrichetta tenuta da due vecchi coniugi che producevano due- tre quintali di pasta la settimana, senza coloranti e però tutta punteggiata come il costume di Arlecchino. Prima a comparire e ultima a scomparire insieme con altri sei stabilimenti di cui due giganteschi. Trent’anni fa Nocera, come Gragnano, Torre, Pagani odoravano di pasta cruda. Le strade di basoli, battute da carriaggi carichi di sacchi o di casse di maccheroni, a destra e a sinistra avevano due profondi solchi scavati dalle ruote, come le strade di Pompei.

Bei tempi! Dal sud partivano migliaia di carri merci pieni di spaghetti, spaghettini, vermicelli, vermicelloni, bucatini, linguine, mafaldine, tripolini, candele, ziti, zitoni, mezzani, mezzanelli, perciatelli, rigatoni, fasce, occhi di lupo, cannolicchi, ditali e ditalini, crestine, gemelli e tortiglioni, diretti in tutti i villaggi, i paesi e le città d’Italia e d’Europa, divorati dall’Esercito, dalla Marina e dall’Aviazione, dalle Provvide e dalle prime mense aziendali. Se non era vera Napoli,  la schifavano. Le paste di altra origine muffivano nei palchi dei pizzicagnoli. Forse erano altrettanto buone e persino migliori, ma per i mangiatori di pasta o si trattava di vera Napoli o meglio buttarsi nel ruminamento di qualsiasi altra poltiglia. Secondo scienza e storia la fabbricazione della pasta è antichissima. Etruschi, greci e romani magnarono pasta autentica, sia pure sotto forma di stiacciate cotte sulla pietra infocata. A sentire alcuni astrologhi, i cinesi addirittura sarebbero stati i padri e gli inventori della pasta. I padri sì, gli inventori no perché, ove mai si andasse per il sottile, con metodo e scrupolo, e coscienza, la pasta, vale a dire i “maccaruni” sono e non possono essere altro che una scoperta napolitana alla stessa stregua e col medesimo diritto e legge della pizza.

Esaminate la pizza, gente al di là del Garigliano, sia pure una volta, come coscritti, per avventura o errore, da soli o in leggiadra compagnia siete stati a Napoli. Essa, la pizza, con tecnica surrealistica, è la riproduzione del Golfo con la Riviera e il Panorama. Le bucce di pomodoro rosso sono le barche, gli schizzi di mozzarella, le vele, il verde del basilico e dell’origano, il Vesuvio, le bruciacchiature della pasta, gli scogli e il leggendario cornicione- delizia dei buongustai – la linea magica dei panorami alti un centimetro di Ercolano, Torre del Greco e Annunziata, Castellammare, Vico, Seiano e della stessa Napoli, dal Capo di Sorrento a San Giovanni e girovagabondando, fino a Capri, Ischia e Procida. Ridanciane, ilari, palpitanti come polle emergenti di solfatare (quella di Pozzuoli, d’Agnano o san Montano), le bolle enfiate dai fiati del forno.

La pizza è una riproduzione mimetica dell’habitat in cui esplose.

Morti di fame per generazioni a spirali i napoletani, non potendo fondere oro e argento, né cibarsi di carne o coprirsi di buone lane, ma amanti di un universo sfavillante, da ciò sollecitati ed eccitati, inventarono la pizza, servendosi dei materiali poveri a disposizione: acqua, farina, sale, pomodoro colombiano e basilico greco, il tutto condito con un filo d’olio e una corolla di estro. Per via di questo estro-capriccio-umore, avversa o buona disposizione nell’attimo fuggente, la pizza può riuscire buona o cattiva, gustosa o pessima, ricca o meschina, gonfia o mencia, nel segno di un trionfante barocco o  di una lisca rosicchiata.

Lo stesso vale per gli spaghetti. Si buttano nella pentola, che sembrano atleti,  si possono tirare o duttili e frenetici come anguille o debosciati e sfiancati come braccianti che riedono al povero ostello. Dietro la pizza e gli spaghetti c’è insomma l’uomo napoletano, variabilissimo, incertissimo, di poca fede e interminate speranze.

Comunque sia, i maccaruni nati in Troade o in Etruria o nel Cipango, come inoltre si è sostenuto, in Galizia- truce terra pastorale e , quindi, farinacea- il copyright se l’è aggiudicato Napoli. I Napoletani ereditarono una greve massa di pasta, una pallottola di farina bigio-giallognola. I furbastri s’istudiarono  immantinente come metterla incinta e la riposero negli oscuri fondi di una delle numerosissime grotte urbane e, indi, strofinandosi le mani per estro e isteria, andarono a  vedere, come facevano gli orchi, che ponevano i ragazzini rapiti nelle botti all’ingrasso, se l’impasto fosse diventato formoso, roseo, simpatico, amabile, malleabile, appetibile, estraendone con un pizzicotto una mollichella e cominciando a lavorarla tra pollice  e indice.

Con questo giuoco di dita e carezze, pensando certamente a tutt’altre cose, ai sempiterni guaj del malgoverno, si trovarono in fine di fronte a forme, gentili, aeree, serpentelli, anguille, ciocche, nastri, farfalle, matasse, millepiedi, lettere misteriose, fusilli lunghi, primiera francese, anelloni d’Affrica, nocchette, semi di mellone, anelli e danellini- il bazar d’Istabul  e della Vuccirìa al completo- stelle, occhi di pernice, pepe bucato- l’antico porto di mare capitale di sbarco delle spezie- tofe, scorze, parigine e margherite rigate, quanti sono all’infinito i vari tipi di pasta di qualsiasi  fabbrica e fabbrichetta del napoletano e del salernitano i cui mugnai e pastai di una volta, fabbricando pasta, favorivano l’immaginazione e il sogno. Solo un popolo speciale come il nostro, che aggiunge o toglie sempre qualcosa alla realtà, poteva ricavare da una palla di farina monotona, gommosa, grigia, atona, azzeccosa, appiccicaticcia e sudaticcia, una interminabile sfilza di forme e parole: cardellini, lingue di passero, gramigna, stivalettini e giù per il dirupo senza fondo, intorto e cupo di un’arte sfuggente, costretta a rendere multipla un cibo che, dai, dai, era sempre lo stesso.

Sazi alla fine ( per non dire altro; per non smarrirsi nei disastri del Mezzogiorno) i maccheroni a Napoli sono diventati anonimi come in qualsiasi altro luogo.Generazioni magre,dai ventri snelli, ignorano che i loro progenitori, infischiandosi di averci pance complete di grancasse, il giorno e la notte insieme con Pulcinella sognavano, come alternativa alla fame, di farsi una bella mangiata di maccaroni in piena strada, senza pomodoro e un pizzico di formaggio. Dopo, poteva accadere il finimondo: si poteva restare comodi a digerire o prendere parte all’eventuale pugna, in ogni caso la terra, sbilanciata, ritornava in orbita.” (Domenico Rea)

 

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Pasta aumm aumm

  Non è la ricetta tradizionale delle penne aumm aumm con melanzane e mozzarella. Il nome è stato adottato dalla mammà del consorte, cuoca provetta. Aumm aumm in napoletano significa di nascosto. Un piatto non proprio nascosto visto che occorre mobilitare una pentola con  tre-quattro padelle ed impegnare tutti i fornelli del piano di cottura. Io lo associo a quel verso che si fa per dire “uhm che buono!” oppure all’ aaaaaùùmmm emesso dalla mammina esausta nel tentativo di fare spalancare la bocca al bebè inappetente. In tal caso dubito molto che un bebè  possa gradire la pasta  con peperoni e melanzane.

 In termini di tempi di  preparazione la ricetta  è di media velocità, ma si consideri che vale come piatto unico e quindi si risparmia il tempo necessario per preparare un secondo. A riguardo dei tempi  di strafogamento e digeribilità…  beh tutto dipende dalla voracità del commensale e dal suo metabolismo. 

Ingredienti per 4 persone:

  400 g di mezzi fusilli (in alternativa cavatappi o  reginette)

 1-2  melanzane

 1 peperone

 una dozzina di pomodorini

aglio e  basilico
 una cipolla

 400g circa di salsiccia

 olio di oliva

Lavare e asciugare gli ortaggi. Mettere a bollire l’acqua per la pasta.
Friggere separatamente  le melanzane tagliate in piccoli pezzi e i peperoni tagliati a listarelle sottili. In un’altra padella versare i  pomodorini spezzettati, un po’ di aglio tritato, basilico e le melanzane fritte. Lasciare insaporire per qualche minuto fino a quando il sughetto di pomodori si sia tirato.Cuocere la pasta. 

In un tegame largo imbiondire una cipolla, tagliata finemente, in  un filo di olio di oliva. Aggiungere e cuocere la salsiccia sbudellata e frantumata in piccoli pezzi. Aggiungere poi  i peperoni e la salsiccia nel sugo di melanzane. Lasciar cuocere insieme per pochi minuti perché si amalgamino i sapori. Volendo si può aggiungere un peperoncino piccante. Condire la pasta  col sugo aum aum.

 Buon appetito!

 

Sugo alla genovese

La ricetta della carne alla genovese appartiene alla  tradizione culinaria  napoletana,  anche se il nome fa pensare a Genova. Sulla denominazione  “genovese” esistono varie interpretazioni. Forse questo piatto fu  ideato da un cuoco di cognome Genovese, o più probabilmente deriva dall’usanza genovese di cucinare in pentole di terracotta un pezzo di carne che, separato dal condimento, veniva servito come secondo piatto, importata dai marinai della Superba  a Napoli nel  XVIII secolo. Sta di fatto che “la genovese” è citata da Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino  amante della cucina, nell’ opera  “Cucina teorico pratica” del 1837.

 Questa ricetta unisce i sapori della  ricca carne e delle più povere, ma gustose, cipolle in un’unica  salsa, utilizzata per condire sia la carne che la pasta. Ne esistono  più varianti, come vuole la fantasiosa creatività gastronomica. Riporto quella di mia mamma, che tra gli ingredienti mette una punta di peperoncino piccante ma non  il vino che, a suo dire,  indurisce la carne.  Le dosi sono per 6 persone e si possono ridurre o aumentare a seconda del numero dei commensali.

 

 Ingredienti:

 2 kg circa di cipolle bionde

2 carote

una costa di sedano

1 kg circa di sottopaletta (taglio di spalla) o girello

olio di oliva (1 dl circa)

2 cucchiai di salsa di pomodoro

un  peperoncino piccante

sale q.b.

500 g di pasta grossa e rigata ( penne rigate, tortiglioni, paccheri)

 Preparazione.

 Sbucciare e lavare le carote e  cipolle, cercando di non piangere troppo, e tritarle col sedano. Ammiro i  cuochi provetti che si cimentano con la mezzaluna ma, per facile lacrimazione ed incapacità, io ricorro ad un ipercollaudato, superveloce e più sicuro robot da cucina.

In una pentola dal fondo largo, versare l’olio di oliva per rosolare la carne a fuoco basso. Calare le verdure, aggiungendo due cucchiai di salsa di pomodoro, che dà colore, un po’ di sale e una punta di peperoncino piccante. Lasciare cuocere lentamente, aggiungendo due bicchieri di acqua per evitare che il sugo si attacchi sul fondo della pentola. Mescolare di tanto in tanto in modo che la carne  trasferisca il suo umore, il suo “sentimento” alla salsa, che deve risultare color ambra, né troppo liquida, né troppo densa ma  “azzeccosa” quanto basta per legarsi con la pasta grossa e rigata. Quando la carne è ben cotta, estrarla e lasciarla raffreddare. Volendo, frullare il sugo col mix per renderlo più cremoso. Tagliare la carne a fette sottili e rimetterla nel sugo per insaporirla. Cuocere la pasta, preferibilmente penne rigate, rigatoni, paccheri  da condire con “la genovese” e da servire con un po’ di parmigiano grattugiato. Come secondo piatto, la carne col sughetto alla genovese si accompagna bene con le patatine fritte.

 

Caccavella alla sorrentina

Tempo fa una commentatrice del precedente SkipBlog  mi ha messo  una pulce saltellante tra i fornelli nell’orecchio, parlando di un tipo di pasta che si chiama “’a caccavella”.

Durante le vacanze a Sorrento sono partita  alla ricerca della “caccavella” tra i  vari negozi alimentari, avvalendomi della proficua collaborazione del consorte che quando si parla di  pappatoria è sempre pronto all’assalto. Gira di qua e chiedi di là ho avuto la fortuna di incappare subito nella confezione delle 4 caccavelle con tegamini di terracotta di Vietri sul mare, nei quali cuocere e servire le caccavelle prodotte  da “ La fabbrica della pasta” di Gragnano che produce questo formato di pasta simile a  una  pentolina. Poi ho scovato anche la ricarica della caccavella ed entusiasta della mia recente scoperta mi sono messa ai  fornelli per sperimentare la ricetta “a’ caccavella alla sorrentina”.

In pratica l’ho farcita con il ripieno che di solito si usa per i cannelloni.

Premetto che le caccavelle pesano circa 50g ciascuna e devono cuocere in abbondante acqua bollente e salata per circa 10 minuti. È importante scolarle una per una, togliendole con delicatezza dalla pentola con la schiumarola per svuotarle bene dell’acqua di cottura. Per il ripieno saltare la carne, senza alcun condimento, in una  padella antiaderente e poi  lasciarla intiepidire. In una terrina amalgamare la ricotta con l’uovo, aggiungere la mozzarella tagliata a cubetti, la carne, una manciata di parmigiano, qualche fogliolina di basilico fresco a pezzetti e un pizzico di sale.

 Mescolare bene gli ingredienti; se il ripieno è troppo denso aggiungere un uovo, se è troppo liquido un po’ di mozzarella. In verità io mi regolo – come si suol dire- “a occhio”. Preparare a parte una salsa di pomodoro un po’ liquida, condita con  basilico e un filo di olio d’oliva. Riempire di salsa i tegamini, adagiarvi le caccavelle ripiene e lasciare cuocere in forno per 15- 20 minuti. Consiglio di servire in tavola nel tegamino di terracotta.

Di che pasta sei?

… fra questo ceto c’è il maccheroncino,

Riccio di foretana e tagliarello

Cannarone di prete e fidelino

Cappelluccio, spaghetto e vermicello;

Lingua di passero e paternostrino

Di prete orecchio e scorza di nocello,

Lagana, tagliolino e stivaletto

Lasagna grossa e piccola, e anelletto:

Poscia le punte d’aghi, le stelline,

Che van più di mille in un boccone,

E le grate a mangiar rose marine

Li ditali e semenze di mellone,

Li tacchi e di scarola le semine,

Lo gnocchetto e di zita il maccherone

Acinetti di pepe e laganelle,

Seme di peparoli e tagliarelle.

Ma però, come diss’io, il primo vanto

Porta fra tutti quanti il maccherone.

 

(Antonio Viviani,  “ Li maccheroni di Napoli”- 1824)

 

Ebbene sì, lo confesso: dopo aver letto questi versi, in piena notte fortissimamente resistetti  alla tentazione di preparare  un piatto di pasta… mi sarei accontentata anche di  un po’ di pastina, sciuè sciuè.

 Quante curiosità sulla storia della pasta !

I pastai producevano un nuovo formato di pasta in onore di  re, regine, nobili e personaggi illustri che andavano a Gragnano per visitare i pastifici.

Nel luglio del 1845 re  Ferdinando II con moglie, figli e corte al seguito, scortati da ben quaranta cavalieri, visitò gli opifici di paste lunghe e  gradì molto i maccheroni, così dispose che durante il suo soggiorno nel Real sito di Quisisana (presso Castellammare di Stabia)  i pastai di Gragnano gli fornissero la pasta, che per l’occasione fu detta  “  i maccheroni del Re” 

Nel 1885 il re Umberto I di Savoia e la Regina Margherita inaugurarono una  linea ferroviaria che avrebbe agevolato l’esportazione  della pasta collegando Gragnano con Castellammare di Stabia, quindi con Napoli e Caserta. Per l’occasione i pastai di Gragnano crearono le margherite ( pasta minuta) e  le tagliatelle  smerlate di diversa larghezza dette mafalde e le mafaldine .

 

I vari formati di pasta hanno nomi di curiosa derivazione  che rispecchiano l’inesauribile  fantasia  dei pastai .

Orecchiette, linguine, gomiti, occhi, capellini, ricci richiamano il corpo umano.

Oggetti di uso comune hanno dato origine a ruote e rotelline, anelli, crocette, quadretti,  puntine, penne (lisce e rigate), spaghetti e candele, mentre il coltello è indirettamente ricordato nei maltagliati, tagliatelle e tagliolini. L’abbigliamento ha ispirato il nome di fettucce, trenette, maniche e mezze maniche ( mancano gli scamiciati), nocchette, creste, stivaletti, perline, fiocchi, pennacchi, fibbie, guanti e  cappelletti.

Dal cilindro o dall’idraulica sono derivati i tubetti, i tubettoni e  i cannelloni,  dalla forma attorcigliata le eliche, i fusilli, gli stortini,i tortiglioni. I solchi esterni hanno dato il nome alla famiglia di  rigatoni, rigatoncelli  e millerighe.

Fatti storici sono ricordati in tripoline, assabesi, bengasini, mentre la famiglia Savoia  fu onorata con le succitate  mafalde,  mafaldine e margherite.

Paternostri e  avemarie furono prodotti per i devoti  in quanto il loro  tempo di cottura bastava  giusto giusto per recitare una preghiera. I fidelini non s’ispirarono alla fede, bensì al verbo arabo fâd che significa crescere.

Flora e fauna si sono riversate in tanti formati di pasta. Basti pensare alle lumache, farfalle, galletti,  conchiglie, corallini,  calamarata, occhi di lupo, di elefante e di pernice ( da non confondere coi calli), acini di pepe, semi di melone e di mela, risi e risoni, gramigna, sedani.

 Della lasagna , dei vermicelli e  degli ziti o maccheroni della zita, cioè della sposa,  ne avevo parlato qui. Mi fa sorridere l’etimologia  dei paccheri,  che sono maccheroni giganti. In napoletano i  paccheri indicano  i sonanti  schiaffoni a mano aperta ( pare che il nome derivi dal greco “ pan” e  “keir” , cioè tutto e mano) . Per alcuni  il rumore prodotto da un solenne ceffone  richiama quello dei paccheri gustosamente “schiaffeggiati” dalla salsa quando sono rimescolati nella zuppiera, per altri  i paccheri , ben  conditi e magari pure farciti di ricotta, stordiscono  i sensi .

 

Dopo questa indigestione di pasta lunga, corta e minuta, vorreste aggiungere qualche altro formato di pasta? E quale  preferite?

 

Sulla storia della pasta

La pasta ha origini  remote e si può fare risalire a  quando l’uomo riuscì a  mantenere compatto nell’acqua bollente l’impasto di acqua e farina; inizialmente la pasta, strappata in piccoli pezzi, veniva aggiunta a minestre di legumi e verdure, poi  iniziò ad essere modellata con le dita. Nel I sec a. C.  si cuocevano in acqua o in olio i lagana, strisce di schiacciata di farina , citate da Cicerone e Orazio, da cui discendono le lasagne.

Di antica origine sono anche  i vermicelli e gli ziti . I primi, fatti a mano, erano corti, storti e simili a vermiciattoli ,  invece gli ziti , detti anche zite o maccheroni della zita ( cioè della sposa) erano preparati per il pranzo nuziale. Controversa è l’origine dei maccheroni, derivante dal genovese macaròn o dal siciliano maccaruni. In verità maccheroni e vermicelli erano prodotti in Liguria, Sardegna e poi in Campania, ma si ritiene che fino al XV secolo fossero una produzione siciliana acquisita  tramite gli arabi che fecero conoscere la pasta secca ai popoli coi quali commerciavano. Ben presto la pasta fu apprezzata come alimento non deteriorabile e facilmente trasportabile. Sin dal Medioevo la pasta era un piatto riservato ai  ricchi ma, viaggiando da Nord a Sud e viceversa, si esportavano anche cibi e ricette così i  maccheroni  trionfarono  a Napoli  come piatto tipico, gradito quotidianamente dai lazzari, borghesi e nobili .

All’inizio del Cinquecento maccheroni e vermicelli erano largamente  diffusi nel napoletano per cui si resero necessari interventi  legislativi per  regolamentarne la produzione e la vendita e per riconoscere le categorie  dei vermicellari, poi dei maccheronari.

Nel Seicento i napoletani attuarono una vera e propria rivoluzione gastronomica e da mangiafoglie (mangiatori di minestre di verdure)  divennero mangiamaccheroni. La pasta, importata dalla Sicilia e dalla Sardegna che coltivavano grano duro, nella prima metà del Seicento fu prodotta a Napoli e dintorni (Gragnano, Torre Annunziata e località costiere le cui condizioni climatiche ne favorivano l’essiccazione) . Nella Valle dei Mulini , presso Gragnano, sorgevano  trenta mulini ove si macinava il grano e si produceva la semola. Poichè i mulini erano distanti dalle abitazioni, le donne di casa  preparavano i  maccheroni e tutti insieme, padroni e lavoranti, li consumavano a pranzo . Ben presto una clientela sempre più allargata iniziò a recarsi ai mulini per  comprare i maccheroni . Dalla macinazione del grano si passò quindi ad  una produzione artigianale e poi industriale della pasta. Dal primo pastificio , fondato da Montella e Garofalo nel 1789, Gragnano  arrivò ad averne  un centinaio nell’Ottocento, grazie anche al  re Francesco I che promosse lo sviluppo dell’industria pastaria  con sistemi che rendevano più organizzata e igienicamente sicura la produzione della pasta.

 

 

Il popolo  prediligeva i maccheroni “vierdi vierdi”, cioè duri come i frutti acerbi , a differenza dei nobili che li lasciavano cuocere anche per un paio di ore per consumarli scotti, fino a quando in “Cucina teorica-pratica”  del 1837 il nobile gastronomo napoletano Ippolito Cavalcanti Duca di Buonvicino ufficialmente sancì la regola della cottura al dente. Se i ricchi potevano permettersi di condire la pasta con burro, zucchero, cannella e spezie, il popolo mangiava i maccheroni in bianco, poco sgocciolati, con un po’ di pepe, a volte formaggio (pecorino o caciocavallo), oppure un filo d’olio d’oliva o strutto. Solo nel Seicento nel Regno di Napoli si iniziò ad usare il pomodoro come condimento per la pasta , superando pregiudizi radicati in molti paesi fino al Settecento perché si riteneva che lo sgargiante  pomodoro fosse velenoso ed utilizzabile solo per decorazioni o preparati medicinali. Nell’Ottocento il sugo al pomodoro fu finalmente apprezzato come condimento ideale per la pasta,  insaporito anche con olio, cipolla, aglio,basilico, peperoncino.

Re Ferdinando IV, (poi I), amava la pasta e molto poco la formalità tant’è  che soprannominò “lasagnone” il figlio Francesco. Alla sua  corte si consumavano di frequente ravioli, vermicelli al burro , tagliolini e maccheroni con salsicce o pomodoro e ad ogni pranzo di gala non mancava l’ ipersostanzioso timballo di maccheroni, che tutt’oggi vale per primo, secondo e contorno.

Il re sposò la plebea  consuetudine di mangiare i  maccheroni portandoli alla bocca con le mani e rivolgendo gli occhi al cielo  perché “ ‘O maccarone se magna guardanno ‘ncielo!” . In verità questo gesto era  quasi un invito a ringraziare Dio per la bontà concessa, sebbene suscitasse lo sdegno della raffinata sua consorte, la regina Maria Carolina.  Ben presto questa pratica da unti e bisunti  si trasformò in   un’attrazione turistica (della serie:  vedi un po’ ch’a s’adda fa’ pe’ campà) e i “maccaroni eaters” ( mangia maccheroni)  guadagnarono con la loro fame cronica una fama internazionale.  Comunque sia, grazie ad attori napoletani, maccheroni e vermicelli sbarcarono in Francia con  la maschera popolare dell’affamato Pulcinella, esperto “abbrancatore” di pasta.

La pasta però si diffuse all’estero anche  per merito di grandi cuochi come  Francesco Leonardi che, dopo avere servito  re e nobili del Bel Paese e non solo, con le sue ricette a base di pasta conquistò la corte  di Caterina II Imperatrice di tutte le Russie.

“I maccheroni sono un’acuta invenzione della miseria. Essi costituivano la più semplice, la più razionale, la più essenziale utilizzazione del grano. Si mangiavano verdi e sciularielli.

Se ne prendeva un ciuffo con tre dita e si facevano cadere in bocca: la bocca li assorbiva, li succhiava, quasi senza colpo di dente ( ecco perché  in napoletano si dice sciularielli )…

 

Il maccaronaro era lo snack -bar dei lazzari…

 

Lo stato di animo di Pulcinella, il suo permanente stato di animo, è la fame; il suo sogno costante, e mai del tutto appagato, i maccheroni; i maccheroni che erano già nel sei, nel sette e nell’ottocento il piatto unico, la pietanza nazionale dei napoletani…

 

I maccheroni sono la spina dorsale della gastronomia della libertà. I maccheroni chiedono una salsa o un complemento”

 

(Alberto Consiglio, Sentimento del gusto ovvero della cucina napoletana)

 

La pasta al pomodoro ormai è un piatto conosciuto in tutto il mondo. Oggi la fantasia culinaria di piatti a base di pasta si sbizzarrisce in sempre nuovi abbinamenti con salse ed alimenti di origine animale o vegetale che sono una nutriente ed energetica tentazione gastronomica, ma anche una conquista dell’estro creativo che amalgama sapori,colori, odori e buon gusto  senza porre limiti alla storia della pasta.

Notizie tratte da “Maccheronea” di Lejla Mancusi Sorrentino- Grimaldi & C.  Editori ( un libro da divorare!), immagine dal web.