Per Alda Merini, nata il 21 a primavera

Quando penso ad Alda Merini vedo uno spirito inquieto, consapevole della sua innata diversità, dovuta  a una straordinaria sensibilità e capacità di immergersi nell’ animo umano con uno sguardo profondo e appassionato.  Ha cantato la vita  nelle sue pieghe più sofferte , non immaginate ma vissute in prima persona, dalle quali seppe risollevarsi e di cui ha lasciato traccia in una vastissima produzione poetica. La ricordo  con le sue stesse parole, che restano profonde come impronte sulla terra, tenere , dolci e tormentate di vate solitario, talvolta incompreso nella sua genialità.

  “No, non mi importa molto della poesia: la poesia è una delle tante manifestazioni della vita. È un modo di parlare, e può essere cattiva, buona, iraconda, inutile. È un modo di far teatro, è un modo di mascherarsi. La poesia può essere una maschera greca, un carnevale. Può essere una dignità che non si ha, una dignità che si soffre. Sono tante le definizioni della poesia. Diciamo che la letteratura può essere anche un modo di sentirsi pazzi.

Un modo di parlare, di sentire e di sentirsi, di essere al mondo: ma modo irrinunciabile; investitura divina che non consente abiure; personalissimo, esclusivo esserci; condanna e dono insieme”

 

Lascio a te queste impronte sulla terra

Lascio a te queste impronte sulla terra
tenere dolci, che si possa dire:
qui è passata una gemma o una tempesta,
una donna che avida di dire
disse cose notturne e delicate,
una donna che non fu mai amata.
Qui passò forse una furiosa bestia
avida sete che dette tempesta
alla terra, a ogni clima, al firmamento,
ma qui passò soltanto il mio tormento.

 

Sono nata il ventuno a primavera

Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.

 “Si parla spesso di solitudine, fuori, perchè si conosce un solo tipo di solitudine. Ma nulla è così feroce come la solitudine del manicomio. In quella spietata repulsione da parte di tutto si introducono i serpenti della tua fantasia, i morsi del dolore fisico, l’acquiscienza di un pagliericcio su cui sbava l’altra malata vicina che sta più su. Una solitudine da dimenticati, da colpevoli. E la tua vestaglia ti diventa insostituibile, e così gli stracci che hai addosso perchè loro solo conoscono la tua vera esistenza, il tuo modo di vivere. In manicomio ero sola; per lungo tempo non parlai, convinta della mia innocenza. Ma poi scoprii che i pazzi avevano un nome, un cuore, un senso dell’amore e imparai, sì, proprio lì dentro, imparai ad amare i miei simili. E tutti dividevamo il nostro pane l’una con l’altra, con affettuosa condiscendenza, e il nostro divenne un desco famigliare. E qualcuna, la sera, arrivava a rimboccarmi le coperte e mi baciava sui corti capelli. E poi, fuori, questo bacio non l’ho preso più da nessuno, perchè ero guarita. Ma con il marchio manicomiale.”

(da L’altra verità  “Diario di una diversa”)

  

I poeti lavorano di notte

I poeti lavorano di notte

quando il tempo non urge su di loro,

quando tace il rumore della folla

e termina il linciaggio delle ore.

I poeti lavorano nel buio

come falchi notturni od usignoli

dal dolcissimo canto

e temono di offendere Iddio.

Ma i poeti, nel loro silenzio

fanno ben più rumore

di una dorata cupola di stelle

 

(in Testamento – Alda Merini)

Giornata mondiale della Poesia

Donne del Risorgimento: Anita Garibaldi

Il Gianicolo è un parco pubblico molto suggestivo sia  perché offre dall’alto una splendida veduta di Roma, sia perché è un  luogo della memoria, che nei grandi monumenti equestri di  Giuseppe e di Anita Garibaldi, negli 84  busti e nelle quattro  stele dedicati ai combattenti garibaldini, provenienti da ogni parte d’Italia , ricorda la strenua difesa della breve Repubblica Romana tra l’ aprile e il luglio del 1849.

Il monumento celebrativo di Anita Garibaldi , realizzato da Mario Rutelli ed inaugurato nel 1932, custodisce le ceneri di Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, universalmente  nota come Anita Garibaldi (Morrinhos, 30 agosto 1821- Mandriole di Ravenna 4 agosto 1849).

 Anita stringe tra le braccia un bambino, molto probabilmente Menotti, il figlio appena nato, portato in salvo dalla madre che di notte scappò a cavallo per sottrarsi alle violente  truppe imperiali giunte a  San Simon nel 1840 .Garibaldi, che l’aveva lasciata a casa di amici per cercare vesti per lei e il piccolo, la ritrovò nella foresta mentre allattava il primogenito.  

Anita, l’unica donna veramente amata da Garibaldi, a diciotto  anni divenne la sua inseparabile compagna , condividendo fino alla fine una vita avventurosa e difficile tra stenti, rinunce e sacrifici, ideali e battaglie per terra e per mare, sia in Sud America che in Italia. È passata  meritoriamente alla storia come l’Eroina dei due mondi, emblema della donna combattente e leggenda vivente del Risorgimento Italiano.   

Da Garibaldi ebbe quattro figli:  Menotti (1840), Rosita (1843) morta all’età di due anni, Teresita (1845) e Ricciotti (1847) . Di umili origini, sin da ragazzina mostrò un carattere indomito, forte e determinato. Alta, fiera, dai grandi occhi scuri conobbe e  conquistò il cuore di Garibaldi nel1839 a Laguna, piccola città a sud del Brasile durante le lotte sudamericane per l’indipendenza repubblicana. Una giovane donna  “ il cui coraggio io mi sarei desiderato tante volte”- come scrisse di lei il marito  nelle Memorie autobiografiche- e che Anita mostrò   nella strenua difesa della breve Repubblica Romana. 

Dopo la resa di Roma  Garibaldi , con l’inseparabile Anita  e i suoi compagni, compì un disperato viaggio verso Venezia che ancora resisteva agli Austriaci. Sperava di  accendere l’insurrezione nell’Italia centrale ma, inseguito da truppe francesi, pontificie e poi austriache, nel luglio del 1849  si diresse verso la repubblica di San Marino.

 

Nelle sue “ Memorie” descrisse con   un’analisi umanamente schietta la criticità  del momento, le condizioni disperate di Anita, incinta di sei mesi,  e  la viltà dei  disertori “ codardi nell’ abbandonare vilmente la causa santa del loro paese, essi naturalmente scendevano ad atti osceni e crudeli cogli abitanti. Ciò sommamente mi straziava, peggiorava ed umiliava non poco la già sventurata posizione nostra! Come potevo io mandare dietro a quelle scellerate masnade, attorniato come mi trovavo dai nemici! Alcuni colti in flagrante erano fucilati;ma ciò poco rimediava,andando la maggior parte impuniti. La situazione divenuta disperata, io cercai d’arrivare a S. Marino.Avvicinatomi alla sede di quelli eccellenti Repubblicani, giunsemi una loro deputazione, ed avvendone avuto notizie, mi avvicinai per conferire con essa. E mentre io mi trovavo conferendo colla deputazione di S. Marino, un corpo di Austriaci comparì alla nostra retroguardia e vi cagionò confusione tale, che tutti presero a fuggire quasi senza veder nemici, almeno la maggior parte.Avvertito di tal contrattempo, retrocessi, trovai la gente fuggendo, e la mia valorosa Anita, che col colonnello Forbes facevano ogni sforzo per trattenere i fuggenti. Quella incomparabile donna incapace di qualunque timore aveva lo sdegno dipinto sul volto e non poteva darsi pace di tanto spavento in uomini che poco prima s’eran battuti valorosamente….”Giunti a S. Marino Garibaldi  scrisse su un gradino d’una chiesa al di fuori della città l’ordine del giorno:“ Militi, io vi sciolgo dall’ impegno d’accompagnarmi. Tornate alle vostre case;ma ricordatevi che l’Italia non deve rimanere nel servaggio, e nella vergogna!”  Dei circa 4000 uomini, partiti da Roma, rimasero solo 200 seguaci  coi quali  giunse a Cesenatico per poi imbarcarsi  su barche da pesca ( bragozzi)  alla volta di  Venezia. “Per parte mia, però, non avendo idea di depor le armi, con un pugno di compagni, io sapevo non impossibile aprirsi strada e guadagnar Venezia. E così s’era deciso. Un carissimo e ben doloroso impiccio era la mia Anita, avanzata in gravidanza, ed inferma. Io la supplicavo di rimanere in quella terra di rifugio( San Marino) , ove un asil almeno per lei poteva credersi assicurato, ed ove gli abitanti ci avevan mostrato molta amorevolezza. Invano! Quel cuore virile e generoso si sdegnava a qualunque delle mie ammonizioni su tale assunto, e m’imponeva silenzio, colle parole: “ tu vuoi lasciarmi”.   Gli Austriaci scorsero i  garibaldini e iniziarono a sparare da lontano cannonate e razzi.

“Io lascio pensare qual era la mia posizione in quei sciagurati momenti. La donna mia infelice, moribonda! Il nemico perseguendo dal mare, con quella alacrità che dà una vittoria facile. Aprodando ad una costa, ove tutte le probabilità di trovarvi altri, e numerosi nemici, non solamente Austriaci, ma papalini, allora in fiera reazione. Comunque fosse, noi aprodammo. Io presi la mia preziosa compagna nelle braccia, sbarcai e la deposi  sulla sponda. Dissi ai miei compagni, che collo sguardo mi chiedevano ciocchè dovevano fare:d’incamminarsi alla spicciolata, e di cercar rifugio, ove potrebbero trovarlo. In ogni modo d’allontanarsi dal punto ove ci trovavamo, essendo imminente l’arrivo dei palischermi nemici. Per [me] esser impossibile seguitar oltre, non potendo abbandonare mia moglie moribonda… 

Io rimasi nella vicinanza del mare in un campo di melica, colla mia Anita, e col tenente Leggiero, indivisibile mio compagno….Le ultime parole della donna del mio cuore erano state per i suoi figli! Ch’essa presentì di non poter più rivedere!” 

 Il tenente Leggero  andò in cerca di aiuto e tornò col colonnello Nino Bonnet, uno degli ufficiali più valorosi che, ferito a Roma nell’assedio, si era ritirato a casa, in quel di Comacchio, per curarsi. Egli propose di avvicinarsi ad una casupola  nelle vicinanze .Qui povera gente offrì acqua e primo soccorso ad Anita. Poi Garibaldi e i compagni trasportarono la donna in casa della sorella di Bonnet ed infine alla Mandriola per trovare un medico. “Guardate di salvare questa donna”!-  raccomandò al dottore ma “Nel posare la mia donna in letto, mi sembrò di scoprire sul suo volto, la fisionomia della morte. Le presi il polzo…più non batteva! Avevo davanti a me la madre de’ miei figli, ch’io tanto amava! Cadavere!…Io piansi amaramente la perdita  della mia Anita! Di colei che mi fu compagna inseparabile nelle più avventurose circostanze della mia vita!”

 A fatica il fedelissimo Leggero convinse il generale a riprendere la fuga per salvarsi  dalle truppe pontificie e dai soldati austriaci. “Generale, dovete farlo. Per i vostri figli, per l’Italia…”. Garibaldi raccomandò alla buona gente che lo circondava di seppellire Anita  e s’allontanò.

“Io, conobbi il gran male che feci, il dì, in cui sperando ancora di rivederla in vita io, stringeva il polso d’un cadavere: e piangevo il pianto della disperazione! Io, errai grandemente ed errai solo!”. 

Queste parole  sigillano un profondo rimorso, non spiegato, forse per avere cambiato la vita di quell’intrepida ragazza dai grandi occhi scuri, che a 28 anni è entrata a fare parte della storia come figura esemplare dell’amore romantico e del nostro Risorgimento.

 

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Donne del Risorgimento: Rose Montmasson e Giuditta Tavani Arquati

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Il Risorgimento è stato un processo storico  complesso, un  intrigo di diplomazia  e  di alleanze, un’illuminazione  di ideali liberali che contagiò gli intellettuali, una partecipazione di  masse conquistate  dalla speranza di cambiamento e poi in parte disilluse. Tante sono le interpretazioni del Risorgimento, ma  certamente  ci fu una generale intraprendenza di tanti giovani che osarono combattere per ció in cui credevano. 

L’ideale di un’unica Italia, libera dagli stranieri, mosse i cuori e armò  le braccia, infervorò gli animi come la bella Gigogin quello del giovane  Mameli.

In occasione delle celebrazioni ufficiali per i 150 anni dell’unitá d’Italia sul  monumento commemorativo di Mameli, reso immortale dai versi del nostro inno nazionale,  c’erano fiori e corone, ma il cimitero monumentale del Verano  a Roma  custodisce le spoglie di altri patrioti e patriote, tra i quali non posso tralasciare  Rose Montmasson, piú nota come Rosalia Montmasson Crispi, l’unica donna che partecipò alla spedizione dei Mille.

 Rose Montmasson (1823-1904) , originaria della Savoia, giunse a Torino nel 1849 dove inizió a lavorare come lavandaia e stiratrice. Qui conobbe Francesco Crispi, un giovane rivoluzionario, esule in Piemonte dopo il fallimento dei moti rivoluzionari siciliani del 1848. Rose condivise col suo uomo una vita avventurosa. Prima lo seguì in esilio in Piemonte e a Malta, dove si sposarono, poi a Parigi ove rimasero finché non furono accusati di complotto con Felice Orsini, ed infine a Londra ove, nuovamente in fuga, raggiunsero Mazzini. Rientrati in Italia nel 1859, collaborarono per la realizzazione dello sbarco in Sicilia. Rose si recó con un vapore postale in Sicilia e a Malta per avvisare della spedizione dei Mille i patrioti siciliani e i rifugiati. Fece in tempo a rientrare a Genova e, contro la volontá  del marito, travestita da uomo s’imbarcó con le camicie rosse a Quarto.

Durante la battaglia di Calatafimi s’adopró per portare in salvo e curare i feriti, imbracciando il fucile se necessario. I siciliani la ribattezzarono Rosalia, nome che compare sulla sua lapide. 

Dopo l’unitá d’Italia cambiarono molte cose, anche i sogni. Crispi divenne parlamentare e abbandonó i repubblicani per schierarsi con i monarchici. Ben presto ripudió Rosalia, denunciando   l’irregolaritá del matrimonio, celebrato a Malta  da un prete sospeso a divinis per le sue simpatie patriottiche, e nel 1878 convoló a nuove nozze con Lina Barbagallo, un’aristocratica di Lecce dalla quale, cinque anni prima, aveva avuto una figlia. In effetti  Rosalia  consideró  la scelta politica del consorte un vero e proprio tradimento di quegli ideali che li avevano uniti e per i quali avevano combattuto insieme. Scoppió uno scandalo e  Crispi fu accusato di bigamia. In veritá fu poi assolto, ma non dalla regina Margherita di Savoia  che si rifiutó  di stringergli la mano e gli tolse il saluto.

 Rosalia rimase a Roma dove morí in povertá. La sua salma é in un loculo concesso gratuitamente dal Comune di Roma.

 

Un’altra patriota sepolta al Verano é Giuditta Tavani Arquati (1832-1867) che, incinta del quarto figlio, morí col marito , con il figlio dodicenne Antonio e altri cospiratori durante il massacro nel lanificio Ajani a Trastevere. La tentata insurrezione contro il governo di  Pio IX e  la mancata rivolta del popolo romano contro il Papa Re  anticiparono la disfatta garibaldina di Mentana del 1867. In effetti la vera unitá d’Italia si ebbe nel 1870 quando la breccia di porta Pia segnó la fine dello Stato pontificio.

Due anni fa ho celebrato e festeggiato il 150 ˚ dell’Unitá d’Italia  non solo con un tricolore esposto sul balcone, ma ho voluto ringraziare idealmente nel cimitero del Verano tutti coloro, e sono davvero tanti, che hanno contribuito alla storia e alla cultura dell’Italia. Dopo avere girovagato a lungo e letto  centinaia di lapidi (ahimé non basta la mappa), mi sono emozionata dinanzi al piccolo ritratto di Rosalia, l’ umile lavandaia che divenne un’intrepida patriota. In Via della Lungaretta 97 a Trastevere ho invece  scovato una targa e un busto che  ricordano  Giuditta Tavani Arquati, divenuta  il simbolo della lotta per la liberazione di Roma.

 

 

 Rosalia Montmasson e Giuditta Tavani Arquati sono due protagoniste del Risorgimento italiano, che sfidarono i tempi e i costumi con scelte di vita che  all’epoca dovevavo apparire- a dir poco-  inusuali. Entrambe tradite, piú che dalle dinamiche del cuore e del potere, soprattutto dalla storia… una storia che ancora oggi, a mio parere, risulta scritta e interpretata  dagli  uomini.

 

Le donne del Risorgimento

In occasione del 152° anniversario dell’Unità d’Italia riprendo post a me cari , scritti in occasione del 150°,  per ricordare  personaggi, a volte poco noti, del nostro Risorgimento.

 “Il Risorgimento delle donne. Da icona del patriottismo a patriota” è  un bellissimo  filmato  didattico realizzato da  Annalisa Costagli e Giacomo Verde che attraverso la pittura, scritti e foto hanno documentato la presenza attiva e  il contributo delle donne, di diversa estrazione socio-culturale, all’unità e all’indipendenza dell’Italia, alle prime forme di democrazia e alle pari dignità dei sessi.

 Protagoniste poco conosciute del Risorgimento, le donne operarono senza visibilità né  riconoscimento di ruoli politici, promuovendo nei salotti il  fermento intellettuale dell’epoca , partecipando alla lotta risorgimentale come combattenti e assistenti dei feriti, continuando a lavorare nei campi o in casa, in attesa di lettere o notizie dei familiari lontani.

In occasione della celebrazione dell’Unità d’Italia  è doveroso ricordare anche questo aspetto della storia italiana   perché come scrisse  Cristina Trivulzio di Belgiojoso nel 1866

 

“Vogliano le donne felici ed onorate dei tempi avvenire rivolgere tratto tratto il pensiero ai dolori ed alle umiliazioni delle donne che le precedettero nella vita, e ricordare con qualche gratitudine i nomi di quelle che loro apersero e prepararono la via alla non mai prima goduta, forse appena sognata, felicità!”

 Qui il link per “Il Risorgimento delle donne. Da icona del patriottismo a patriota”

 Buona visione!

Il grande pi greco

 

La data  14 marzo richiama il 3,14 cioè il  ᴫ (pi greco) ed è un giorno dedicato all’affascinante Signor ᴫ

Il grande pi greco

 

 Degno di meraviglia è il numero pi greco

tre virgola uno quattro uno.

Le sue cifre seguenti sono ancora tutte iniziali,

cinque nove due, perché non ha mai fine.

Non si fa abbracciare sei cinque tre cinque con lo sguardo,

otto nove con il calcolo,

sette nove con l’immaginazione,

e neppure tre due tre otto per scherzo, o per paragone

quattro sei con qualsiasi cosa

due sei quattro tre al mondo.

Il più lungo serpente terrestre dopo una dozzina di metri s’interrompe.

Così pure, anche se un po’ più tardi,  fanno i serpenti delle favole.

La fila delle cifre che compongono il numero Pi greco

non si ferma al margine del foglio,

riesce a proseguire sul tavolo, nell’aria,

su per il muro, il ramo, il nido, le nuvole, diritto nel cielo,

per tutto il cielo atmosferico e stratosferico.

Oh come è corta, quasi quanto quella di un topo, la coda della cometa!

Quanto è debole il raggio di una stella, che s’incurva nello spazio!

Ed ecco invece due tre quindici trecento diciannove

il mio numero di telefono il tuo numero di camicia

l’anno mille novecento settanta tre sesto piano

numero di abitanti sessanta cinque centesimi

giro dei fianchi due dita una sciarada e una cifra,

in cui vola vola e canta, mio usignolo

e si prega di mantenere la calma,

e così il cielo e la terra passeranno,

ma il Pi greco no, quello no,

lui sempre col suo bravo ancora cinque,

un non qualsiasi otto,

un non ultimo sette,

stimolando, oh sì, stimolando la pigra eternità

a durare.

 

Wislawa Szymborska