La campana di Punta Campanella

La Penisola sorrentina comprende la fascia montuosa di terra e di costa nella parte sud orientale del Golfo di Napoli, ma nella  toponomastica locale si considerano  esclusivamente il versante costiero che va da Castellamare di Stabia a Punta Campanella, limitato a est dal Monte Faito e a sud dai Monti Lattari. Le tante  baie ed insenature, i borghi marinari a ridosso degli scogli, i pendii ricoperti da uliveti argentati e  agrumeti contribuiscono a rendere spettacolare il paesaggio costiero, soprattutto se visto dal mare.

  In questo ambito territoriale convenzionalmente è inclusa anche Capri, un tempo estremità della penisola che in seguito a movimenti tellurici si è separata dalla terraferma. Nel corso dei secoli la penisola, grazie alla sua natura calcarea, è stata interessata da un intenso fenomeno di carsismo delle acque che ha creato un paesaggio costiero e sottomarino ricco di grotte e  insenature  di particolare valenza ambientale e naturalistica.Dal 1997 in quest’area ci sono due zone protette: la riserva marina di Punta Campanella e la baia di Ieranto, luoghi incantevoli compresi in alcuni itinerari di pesca turismo e tutelati da un Consorzio di gestione comprendente i Comuni di Massa Lubrense, Positano, Piano di Sorrento, Sant’Agnello, Sorrento e Vico Equense.

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 Sulla Punta Campanella  sorgeva un tempio, la cui fondazione mitica è attribuita ad Ulisse, e in età classica prese il nome Athenaion in onore della dea Atena. In seguito i romani  vi costruirono la strada che qui giungeva da Sorrento, e in alcuni tratti è ancora visibile il lastricato in pietra. La torre – faro eretta nel 1335 e rifatta nel 1556, segnalava l’arrivo dei pirati col suono di una campana, da cui è derivato il nome della punta. Oggi sono visibili resti di una villa romana del I- II sec d. C e la Torre Minerva di epoca vicereale (1567).

 

 Una nota leggenda popolare riguarda la campana di Punta Campanella tant’è che il  14 febbraio, in cui si festeggia Sant’Antonino patrono di Sorrento, i devoti  di Massa Lubrense e dintorni  erano  solita recarsi lì in processione  perché pare  che in quel giorno si udissero i rintocchi di una campana provenienti dalle profondità del mare, e quanto più erano forti, tanto più il mare era agitato. Credenza legata all’ invasione dei turchi nel 1558, memorabile nella storia sorrentina per atti di pirateria, devastazioni e uccisioni. SAM_2325Non a caso lungo la  costa di Napoli si ergono tante  torri di avvistamento. Sta di fatto che nel 1558 il viceré di Napoli, per Filippo II re di Spagna e delle Indie Don Giovanni Marquinez de Lara della Cueva , informato dell’arrivo di   una flotta turca di centoventi galere, mandò a Sorrento duecento soldati spagnoli. I cavalieri sorrentini però rifiutarono la truppa, temendo oltre alle molestie e ai saccheggi  anche danni ai frutti maturi, per cui fu detto  al viceré che  la vigilanza e la forza dei cittadini sarebbero state sufficienti a difendere la città. Questo fu un grave errore di valutazione del pericolo che costò molto caro ai sorrentini. Nella notte del 12 giugno la flotta ottomana approdò sulla spiaggia di Crapolla e alla marina del Cantone a Massa Lubrense, priva di difesa, mentre venti galere si schierarono di fronte a Marina Grande di Sorrento. I turchi videro la città fortificata,  protetta da solide mura e dall’ alta costa che  impedivano un facile sbarco per cui esitarono ad approdare. Intanto a Sorrento il cavaliere Onofrio Correale e sua moglie Ippolita de Rossi avevano accolto in casa per atto di pietà un servo turco che, istruito alla fede cattolica, prese il nome Ferdinando e ben presto si conquistò la  piena fiducia di tutta la famiglia. I Correale custodivano le chiavi delle quattro porte che consentivano l’accesso alla città di Sorrento, due di terra (Parsano e Marano), e due di mare (capo Cervo e Marina Grande). Proprio quella notte il Correale mandò Ferdinando a Marina Grande ad attendere un parente che arrivava via mare ma quello, vedendo i turchi, li chiamò e  li guidò in città.  Fu una notte di sangue e barbarie. “  Non furono ostacoli pel  truce ottomano né l’età, né il sesso, né la condizione, né la dimora privata, né i sacri templi, imperocchè furono uccisi vegliardi gravi di anni e bambini lattanti nelle fidate braccia delle proprie madri, spesso un sol colpo spegnendo due vite…” (da Leggende popolari sorrentine di Gaetano Canzano Avarna). La strage durò un giorno intero, e al tramonto fu dato il segnale di condurre  alle navi non solo i superstiti sorrentini, destinati al mercato degli schiavi, ma anche la campana della chiesa di sant’Antonino. Le galere turche sparirono per alcuni giorni, poi approdarono a Procida per contrattare il prezzo dei prigionieri che i sorrentini, avendo perso tutto, non poterono riscattare. I turchi quindi presero il largo per tornare alle terre natie. All’altezza di punta Campanella la barca che trasportava la campana non riuscì ad avanzare, come se ci fosse un ostacolo sotto il mare o una forza soprannaturale. Dopo tante e inutili manovre, vedendo  ormai lontana il resto della flotta, la ciurma pensò bene di alleggerire la barca gettando in mare la campana. Solo così la galera riprese la navigazione. Da allora la campana di punta Campanella suona  a distesa dal fondo del mare il 14 febbraio, giorno del patrono di Sorrento.

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Vervece

 

Di fronte a Marina della Lobra, borgo marinaro di Massa Lubrense, a circa un miglio di distanza da terra  emerge dal mare lo scoglio del Vervece (dal latino vervex che significa caprone), in dialetto detto ‘o Revece.

 Pare che quest’isolotto abbia determinato la forma del fondoschiena delle donne massesi. Infatti una leggenda popolare narra che le energiche massesi, giovani e meno giovani, zitelle e maritate, decisero di tirare lo scoglio a riva con una robusta fune temendo che i Sorrentini volessero rubarlo o, secondo un’altra versione, per riparare Marina della Lobra  dalle mareggiate. A forza di tirare, la fune si spezzò e le donne caddero all’indietro subendo un grave danno consistente nell’ appiattimento e ingrossamento del deretano. L’aneddoto è descritto da un canonico a Monsignor Giuseppe Giustiniani, arcivescovo di Sorrento dal 1886 al 1917  nel terzo canto del poemetto ‘O Paese mio di Francesco Saverio Mollo.

vervece e capri

Vervece e sullo sfondo Capri

 

Il Vervece fa da scenario anche ad un’altra storia che ha come protagonisti due pittori: Carlo Amalfi e Luigi Blower. Quest’ultimo si rivelò un falso amico, invidioso e malvagio al punto tale da fare imprigionare Carlo. Durante la prigionia l’Amalfi capì l’inganno e meditò la vendetta. Scontata la pena, l’esperto marinaio Carlo invitò l’amico a fare un giro in barca a vela proprio quando s’avvicinava una burrasca. Luigi, non sapendo nuotare e spaventato dal mare agitato, lo pregò di farlo sbarcare. Carlo pensò bene di abbandonarlo sullo scoglio del Vervece, esortandolo a meditare sul male che gli aveva fatto. Il giorno dopo tornò all’ isolotto per recuperarlo, ma non lo trovò. Lo cercò invano e a lungo e per il resto della vita fu tormentato  da incubi di tempeste e naufragi causati dal rimorso di aver provocato la morte di Luigi. Quando capì di essere in fin di vita, Carlo chiamò un frate cappuccino per confessare il presunto delitto e scoprì che quel frate era proprio Luigi Blower che, tratto in salvo da alcuni procidani, si era poi ritirato in convento per espiare i peccati commessi. Così Carlo Amalfi  morì libero dal senso di colpa…ma in compenso l’amico Luigi gli aveva turbato non poco la vita.

 

Il Vervece però è noto perché nelle sue prossimità Enzo Maiorca conquistò il record mondiale di profondità in apnea (1974). Successivamente fu posta una Madonnina di bronzo alla base dello scoglio a circa 15 metri di profondità. Qui ogni anno, la seconda domenica di settembre, è celebrata una messa in onore della Madonna del Vervece, protettrice dei subacquei, alla quale partecipano molti devoti, che raggiungono lo scoglio con ogni tipo di imbarcazione, e sub che s’immergono per deporre fiori.