Sugo alla genovese

La ricetta della carne alla genovese appartiene alla  tradizione culinaria  napoletana,  anche se il nome fa pensare a Genova. Sulla denominazione  “genovese” esistono varie interpretazioni. Forse questo piatto fu  ideato da un cuoco di cognome Genovese, o più probabilmente deriva dall’usanza genovese di cucinare in pentole di terracotta un pezzo di carne che, separato dal condimento, veniva servito come secondo piatto, importata dai marinai della Superba  a Napoli nel  XVIII secolo. Sta di fatto che “la genovese” è citata da Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino  amante della cucina, nell’ opera  “Cucina teorico pratica” del 1837.

 Questa ricetta unisce i sapori della  ricca carne e delle più povere, ma gustose, cipolle in un’unica  salsa, utilizzata per condire sia la carne che la pasta. Ne esistono  più varianti, come vuole la fantasiosa creatività gastronomica. Riporto quella di mia mamma, che tra gli ingredienti mette una punta di peperoncino piccante ma non  il vino che, a suo dire,  indurisce la carne.  Le dosi sono per 6 persone e si possono ridurre o aumentare a seconda del numero dei commensali.

 

 Ingredienti:

 2 kg circa di cipolle bionde

2 carote

una costa di sedano

1 kg circa di sottopaletta (taglio di spalla) o girello

olio di oliva (1 dl circa)

2 cucchiai di salsa di pomodoro

un  peperoncino piccante

sale q.b.

500 g di pasta grossa e rigata ( penne rigate, tortiglioni, paccheri)

 Preparazione.

 Sbucciare e lavare le carote e  cipolle, cercando di non piangere troppo, e tritarle col sedano. Ammiro i  cuochi provetti che si cimentano con la mezzaluna ma, per facile lacrimazione ed incapacità, io ricorro ad un ipercollaudato, superveloce e più sicuro robot da cucina.

In una pentola dal fondo largo, versare l’olio di oliva per rosolare la carne a fuoco basso. Calare le verdure, aggiungendo due cucchiai di salsa di pomodoro, che dà colore, un po’ di sale e una punta di peperoncino piccante. Lasciare cuocere lentamente, aggiungendo due bicchieri di acqua per evitare che il sugo si attacchi sul fondo della pentola. Mescolare di tanto in tanto in modo che la carne  trasferisca il suo umore, il suo “sentimento” alla salsa, che deve risultare color ambra, né troppo liquida, né troppo densa ma  “azzeccosa” quanto basta per legarsi con la pasta grossa e rigata. Quando la carne è ben cotta, estrarla e lasciarla raffreddare. Volendo, frullare il sugo col mix per renderlo più cremoso. Tagliare la carne a fette sottili e rimetterla nel sugo per insaporirla. Cuocere la pasta, preferibilmente penne rigate, rigatoni, paccheri  da condire con “la genovese” e da servire con un po’ di parmigiano grattugiato. Come secondo piatto, la carne col sughetto alla genovese si accompagna bene con le patatine fritte.

 

La minestra maritata o pignato grasso.

La minestra maritata è un antico piatto napoletano che di solito si preparava  per il  pranzo di Natale e di Santo Stefano, ma anche di Capodanno e Pasqua. La ricetta ha subito variazioni nel tempo anche perché alcuni ingredienti sono limitatamente  reperibili o utilizzati .

Ecco cosa ho scoperto nel “Breviario della cucina napoletana” di Mario Stefanile,  un libretto che raccoglie curiosità e divagazioni letterarie  su alcuni piatti tipici di Napoli e dintorni. Già il nome è tutto un programma: un breviario, che mi ricorda brevi lezioni  sulle sacre tradizioni gastronomiche,  tramandate di generazione in generazione e distribuite, mese per mese, in occasione delle  festività e delle celebrazioni dei santi. Sì perché  a Napoli ogni occasione, sacra e profana, è buona per gustare un piatto o un dolce tipico.

 La minestra maritata “ è  stata per secoli la pietanza di gala della cucina napoletana, adesso è l’insegna di un Ordine gastronomico che tenta di rinverdirne la fama, almeno presso le generazioni più giovani, meno attente alle patrie glorie.

Venne a Napoli forse con la dominazione spagnola (una variante della “olla podrida” spagnolesca) e vi restò a trionfare almeno fino ai primi decenni del Novecento, in città e in campagna.

Fatta di cicoriette gentili, di verze, di cavoli cappucci e di altri ortaggi tipici della campagna napoletana; messa a cuocere in un brodo lento, ottenuto dalla carne da lesso, con cotenne di maiale e guance e orecchie e muso del medesimo animale e, come se non bastasse ancora, con salsicce di terza qualità, povere residue salsicce ottenute dalla lavorazione dei suini e perfino l’osso spolpatissimo di un prosciutto, tutto insieme in un grande e capace paiolo.

Eppure alla fine, fra tanti grassi un che di finissimo, di vellutato , di gentile, di decantato: e quelle verdure e quegli ortaggi e quelle carni varie tutte a fare non già, come pure si sospetterebbe, un intruglio immangiabile ma una pietanza di una sua classe robusta ma non grossolana, schietta ma non sguaiata, ricca senza tracotanza: una minestra davvero ben maritata che fu l’orgoglio delle vecchie massaie e che ancora oggi fa cimentare qualche nostalgica signora in una preparazione che richiede oltre tutto un gran mucchio di tempo, oltre che di pazienza, moneta fuori corso per le frettolose cuciniere di oggi.”

Mi reputo una frettolosa cuciniera , ggiovane così così, forse anche poco attenta alle patrie glorie, ma sicuramente non vecchia massaia , per cui non sono dedita alla preparazione di questo piatto, ma ho aiutato una zia, ben zavorrata alle antiche tradizioni, a prepararlo. Innanzitutto  lo consiglio quando si hanno tanti commensali, perché vi assicuro che alla fine si ottiene un pentolone di minestra maritata che può bastare fino a Pasqua.

 Ingredienti.

Le quantità sono a piacere. I pezzi di carne, perlopiù di maiale, sono a vostro gusto.

Io suggerisco 3 kg di verdure a foglie tra bietole, cicoria, un po’ di  verza, piccole scarole, broccoletti, torzelle ( se le trovate), un po’ di borragine o catalogna.

2 carote

2 patate

1 cipolla

1 costa di sedano

2-3 costine di maiale

uno zampino di maiale

un osso di prosciutto

un po’ di salsiccia

un pezzo di bollito o mezza gallina

sale q.b.

un peperoncino

un po’ di pecorino o parmigiano grattugiato

 Preparazione.

La minestra maritata si prepara con 6-7 tipi di verdure  a foglie (bietole, cicoria, verza, borragine o catalogna, scarulelle, torzelle o broccoletti.

Il giorno prima si prepara  un brodo con le carni elencate sopra, due carote, due patate  una cipolla e una costa di sedano. Si lascia bollire il tutto in un litro e mezzo di acqua a fuoco lento per circa due ore, si tolgono prima  la schiuma che si forma in superficie, e infine gli odori (carote, patate, cipolla e sedano), a cottura ultimata delle carni. Si sgrassa il brodo freddo, togliendo con un cucchiaio il grasso che si è addensato, si estraggono le carni che si mettono da  parte in un piatto, e si continua a filtrare il brodo.

In pentole diverse, perché è diverso il tempo di cottura, si dà un bollo a ogni verdura in acqua salata.

Si porta di nuovo a ebollizione il brodo con la carne, si regola di sale e, una volta scolate ben bene tutte le verdure, si calano nel brodo aggiungendo un peperoncino piccante.Si lascia cuocere per un quarto d’ora a  fuoco basso, per amalgamare i sapori, e si lascia riposare.

La minestra va servita  con un pezzetto di carne per ogni commensale e un po’ di parmigiano o pecorino grattugiato.

 A pensarci bene “Breviario della cucina napoletana” potrebbe anche indicare una raccolta di salmi e orazioni da recitare con devozione a Santa Pazienza, mentre si spignatta, per invocare  la buona riuscita della minestra maritata  :)

 

Gli struffoli

 La cucina napoletana può vantare tanti dolci, uno per ogni festa, santo e ricorrenza che , non a caso, poi sedimentano bene sui fianchi e non solo. Sulla tavola imbandita per Natale  non mancano mai gli struffoli e le zeppole, dolci fritti di pasta dolce, di cui non troverete mai un’unica ricetta, come per la pastiera, in quanto ogni famiglia custodisce la propria che si tramanda di generazione in generazione con un  piccolo segreto o variante.

Pare che i Greci abbiano importato gli struffoli nel golfo di Napoli al tempo dell’antica Partenope e che  struffoli quindi derivi dal greco “strongoulos pristòs” , cioè pallina rotonda tagliata. Gli struffoli  o , privi di una effe, strufoli sono citati in due famosi trattati di cucina del 1600 del Latini e del Nascia, e si sono rapidamente diffusi in gran parte dell’Italia centro meridionale, seppur  con qualche variante nel nome ( ad esempio si chiamano cicerchiata in Umbria e in Abruzzo).

Come tanti altri dolci, le palline di pasta fritta condite col miele venivano spesso preparate dalle suore  su ordinazione per essere regalate durante le feste di Natale. Oggi si trovano facilmente in pasticceria e in ogni casa ,anche perché la ricetta è molto semplice.

Una curiosità da tenere presente come accorgimento durante l’esecuzione della ricetta, e come informazione storica. Gli struffoli devono essere piccoli, perché più sono piccoli , più si ricoprono di miele. Cosa  molto gradita in passato quando la vita e l’alimentazione erano grame  e un po’ di miele in più era sicuramente ben accetto alla salute e al palato di coloro che aspettavano le feste per potere mangiare meglio.

Ecco la  ricetta scoperta a casa della nonna.

Ingredienti:

 3 uova

1 cucchiaio di zucchero

1 cucchiaio di olio di oliva

1 bicchierino di whisky

1 pizzico di sale

Farina setacciata quanta ne assorbe l’impasto.

 Sbattere le uova , aggiungere piano piano gli altri ingredienti continuando  a mescolare, per ultimo la farina. Lavorare l’impasto  con le mani fino  a quando risulti omogeneo e un po’ elastico,  dividerlo in pezzi,  formare serpentelli di pasta da tagliare poi in  piccoli pezzi, possibilmente lunghi 1 cm circa. Friggerli pochi alla volta  in abbondante olio  e in una pentola larga  dai bordi alti  perché c’è il rischio che, gonfiandosi gli struffoli, l’olio schiumi e fuoriesca dalla padella.  Asciugare bene su  carta assorbente.

 Condimento

300 g di miele

2 cucchiai di zucchero

2 cucchiai di anice

bucce di un mandarino e di un limone, tagliate in piccoli pezzi

confettini colorati ( che a Napoli si chiamano “diavulilli”)

150 g di frutta candita (cedro, arancia e zucca) tagliati a pezzettini

In una pentola sciogliere il miele con lo zucchero, l’anice, una parte delle bucce di agrumi e della frutta candita . Versarvi dentro gli struffoli un po’ alla volta ,mescolarli ben bene nel miele, estrarli con la schiumarola, adagiarli su un piatto di portata a mò di piramide, cospargerli di confettini. Ripetere il procedimento con gli altri struffoli, aggiungendo di volta in volta nel miele i pezzetti di bucce e di frutta candita.

 Volendo,  si può formare una ciambella di struffoli:  basta mettere al centro del piatto un barattolo vuoto, da togliere  quando si è solidificato il miele.

 Buone Feste!  

 

Caccavella alla sorrentina

Tempo fa una commentatrice del precedente SkipBlog  mi ha messo  una pulce saltellante tra i fornelli nell’orecchio, parlando di un tipo di pasta che si chiama “’a caccavella”.

Durante le vacanze a Sorrento sono partita  alla ricerca della “caccavella” tra i  vari negozi alimentari, avvalendomi della proficua collaborazione del consorte che quando si parla di  pappatoria è sempre pronto all’assalto. Gira di qua e chiedi di là ho avuto la fortuna di incappare subito nella confezione delle 4 caccavelle con tegamini di terracotta di Vietri sul mare, nei quali cuocere e servire le caccavelle prodotte  da “ La fabbrica della pasta” di Gragnano che produce questo formato di pasta simile a  una  pentolina. Poi ho scovato anche la ricarica della caccavella ed entusiasta della mia recente scoperta mi sono messa ai  fornelli per sperimentare la ricetta “a’ caccavella alla sorrentina”.

In pratica l’ho farcita con il ripieno che di solito si usa per i cannelloni.

Premetto che le caccavelle pesano circa 50g ciascuna e devono cuocere in abbondante acqua bollente e salata per circa 10 minuti. È importante scolarle una per una, togliendole con delicatezza dalla pentola con la schiumarola per svuotarle bene dell’acqua di cottura. Per il ripieno saltare la carne, senza alcun condimento, in una  padella antiaderente e poi  lasciarla intiepidire. In una terrina amalgamare la ricotta con l’uovo, aggiungere la mozzarella tagliata a cubetti, la carne, una manciata di parmigiano, qualche fogliolina di basilico fresco a pezzetti e un pizzico di sale.

 Mescolare bene gli ingredienti; se il ripieno è troppo denso aggiungere un uovo, se è troppo liquido un po’ di mozzarella. In verità io mi regolo – come si suol dire- “a occhio”. Preparare a parte una salsa di pomodoro un po’ liquida, condita con  basilico e un filo di olio d’oliva. Riempire di salsa i tegamini, adagiarvi le caccavelle ripiene e lasciare cuocere in forno per 15- 20 minuti. Consiglio di servire in tavola nel tegamino di terracotta.

Sulla storia della pasta

La pasta ha origini  remote e si può fare risalire a  quando l’uomo riuscì a  mantenere compatto nell’acqua bollente l’impasto di acqua e farina; inizialmente la pasta, strappata in piccoli pezzi, veniva aggiunta a minestre di legumi e verdure, poi  iniziò ad essere modellata con le dita. Nel I sec a. C.  si cuocevano in acqua o in olio i lagana, strisce di schiacciata di farina , citate da Cicerone e Orazio, da cui discendono le lasagne.

Di antica origine sono anche  i vermicelli e gli ziti . I primi, fatti a mano, erano corti, storti e simili a vermiciattoli ,  invece gli ziti , detti anche zite o maccheroni della zita ( cioè della sposa) erano preparati per il pranzo nuziale. Controversa è l’origine dei maccheroni, derivante dal genovese macaròn o dal siciliano maccaruni. In verità maccheroni e vermicelli erano prodotti in Liguria, Sardegna e poi in Campania, ma si ritiene che fino al XV secolo fossero una produzione siciliana acquisita  tramite gli arabi che fecero conoscere la pasta secca ai popoli coi quali commerciavano. Ben presto la pasta fu apprezzata come alimento non deteriorabile e facilmente trasportabile. Sin dal Medioevo la pasta era un piatto riservato ai  ricchi ma, viaggiando da Nord a Sud e viceversa, si esportavano anche cibi e ricette così i  maccheroni  trionfarono  a Napoli  come piatto tipico, gradito quotidianamente dai lazzari, borghesi e nobili .

All’inizio del Cinquecento maccheroni e vermicelli erano largamente  diffusi nel napoletano per cui si resero necessari interventi  legislativi per  regolamentarne la produzione e la vendita e per riconoscere le categorie  dei vermicellari, poi dei maccheronari.

Nel Seicento i napoletani attuarono una vera e propria rivoluzione gastronomica e da mangiafoglie (mangiatori di minestre di verdure)  divennero mangiamaccheroni. La pasta, importata dalla Sicilia e dalla Sardegna che coltivavano grano duro, nella prima metà del Seicento fu prodotta a Napoli e dintorni (Gragnano, Torre Annunziata e località costiere le cui condizioni climatiche ne favorivano l’essiccazione) . Nella Valle dei Mulini , presso Gragnano, sorgevano  trenta mulini ove si macinava il grano e si produceva la semola. Poichè i mulini erano distanti dalle abitazioni, le donne di casa  preparavano i  maccheroni e tutti insieme, padroni e lavoranti, li consumavano a pranzo . Ben presto una clientela sempre più allargata iniziò a recarsi ai mulini per  comprare i maccheroni . Dalla macinazione del grano si passò quindi ad  una produzione artigianale e poi industriale della pasta. Dal primo pastificio , fondato da Montella e Garofalo nel 1789, Gragnano  arrivò ad averne  un centinaio nell’Ottocento, grazie anche al  re Francesco I che promosse lo sviluppo dell’industria pastaria  con sistemi che rendevano più organizzata e igienicamente sicura la produzione della pasta.

 

 

Il popolo  prediligeva i maccheroni “vierdi vierdi”, cioè duri come i frutti acerbi , a differenza dei nobili che li lasciavano cuocere anche per un paio di ore per consumarli scotti, fino a quando in “Cucina teorica-pratica”  del 1837 il nobile gastronomo napoletano Ippolito Cavalcanti Duca di Buonvicino ufficialmente sancì la regola della cottura al dente. Se i ricchi potevano permettersi di condire la pasta con burro, zucchero, cannella e spezie, il popolo mangiava i maccheroni in bianco, poco sgocciolati, con un po’ di pepe, a volte formaggio (pecorino o caciocavallo), oppure un filo d’olio d’oliva o strutto. Solo nel Seicento nel Regno di Napoli si iniziò ad usare il pomodoro come condimento per la pasta , superando pregiudizi radicati in molti paesi fino al Settecento perché si riteneva che lo sgargiante  pomodoro fosse velenoso ed utilizzabile solo per decorazioni o preparati medicinali. Nell’Ottocento il sugo al pomodoro fu finalmente apprezzato come condimento ideale per la pasta,  insaporito anche con olio, cipolla, aglio,basilico, peperoncino.

Re Ferdinando IV, (poi I), amava la pasta e molto poco la formalità tant’è  che soprannominò “lasagnone” il figlio Francesco. Alla sua  corte si consumavano di frequente ravioli, vermicelli al burro , tagliolini e maccheroni con salsicce o pomodoro e ad ogni pranzo di gala non mancava l’ ipersostanzioso timballo di maccheroni, che tutt’oggi vale per primo, secondo e contorno.

Il re sposò la plebea  consuetudine di mangiare i  maccheroni portandoli alla bocca con le mani e rivolgendo gli occhi al cielo  perché “ ‘O maccarone se magna guardanno ‘ncielo!” . In verità questo gesto era  quasi un invito a ringraziare Dio per la bontà concessa, sebbene suscitasse lo sdegno della raffinata sua consorte, la regina Maria Carolina.  Ben presto questa pratica da unti e bisunti  si trasformò in   un’attrazione turistica (della serie:  vedi un po’ ch’a s’adda fa’ pe’ campà) e i “maccaroni eaters” ( mangia maccheroni)  guadagnarono con la loro fame cronica una fama internazionale.  Comunque sia, grazie ad attori napoletani, maccheroni e vermicelli sbarcarono in Francia con  la maschera popolare dell’affamato Pulcinella, esperto “abbrancatore” di pasta.

La pasta però si diffuse all’estero anche  per merito di grandi cuochi come  Francesco Leonardi che, dopo avere servito  re e nobili del Bel Paese e non solo, con le sue ricette a base di pasta conquistò la corte  di Caterina II Imperatrice di tutte le Russie.

“I maccheroni sono un’acuta invenzione della miseria. Essi costituivano la più semplice, la più razionale, la più essenziale utilizzazione del grano. Si mangiavano verdi e sciularielli.

Se ne prendeva un ciuffo con tre dita e si facevano cadere in bocca: la bocca li assorbiva, li succhiava, quasi senza colpo di dente ( ecco perché  in napoletano si dice sciularielli )…

 

Il maccaronaro era lo snack -bar dei lazzari…

 

Lo stato di animo di Pulcinella, il suo permanente stato di animo, è la fame; il suo sogno costante, e mai del tutto appagato, i maccheroni; i maccheroni che erano già nel sei, nel sette e nell’ottocento il piatto unico, la pietanza nazionale dei napoletani…

 

I maccheroni sono la spina dorsale della gastronomia della libertà. I maccheroni chiedono una salsa o un complemento”

 

(Alberto Consiglio, Sentimento del gusto ovvero della cucina napoletana)

 

La pasta al pomodoro ormai è un piatto conosciuto in tutto il mondo. Oggi la fantasia culinaria di piatti a base di pasta si sbizzarrisce in sempre nuovi abbinamenti con salse ed alimenti di origine animale o vegetale che sono una nutriente ed energetica tentazione gastronomica, ma anche una conquista dell’estro creativo che amalgama sapori,colori, odori e buon gusto  senza porre limiti alla storia della pasta.

Notizie tratte da “Maccheronea” di Lejla Mancusi Sorrentino- Grimaldi & C.  Editori ( un libro da divorare!), immagine dal web.