I roccocò

 

roccocò

Un dolce campano del periodo natalizio è il roccocò, un biscotto duro a forma di ciambella, preparato anticamente dalle monache del convento napoletano della Maddalena. Come altri dolci della tradizione napoletana il roccocò non ha lievito, a differenza delle brioches e  dei babà importati, e si rifa ai biscotti speziati del Medioevo. La sua durezza fa pensare al termine francese Rocaille e potrebbe avere preso il nome all’inizio del Settecento quando si diffuse l’omonimo stile roccocò.

 

Ingredienti.

1 kg farina

700 g zucchero

500 g mandorle tostate

1 uovo

120g di cedro candito a pezzetti

40 g di pisto ( misto di spezie: chiodi di garofano, noce moscata e cannella)

Buccia grattugiata di un limone verde e di un’arancia  

1 cucchiaino da caffè di ammoniaca in polvere

1 bicchiere d’acqua

 

Disporre a fontana la farina con lo zucchero, le mandorle (metà tritate e metà intere), il cedro,  le spezie, le bucce di agrumi grattugiate e l’ammoniaca. Aggiungere al centro un po’ d’acqua, mescolare  e lavorare, aggiungere acqua  fino ad ottenere un impasto abbastanza duro. Lavorare una pallina di pasta fino ad ottenere una strisciolina lunga 10 cm e larga 2 cm., unire le estremità per formare una ciambella. Disporre carta da forno su una placca, adagiarvi i roccocò spennellati con l’uovo sbattuto. Riscaldare il forno e cuocere per circa 25 minuti a 180°C.

 

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Sartù di riso

Sin dal Medioevo gli  Arabi si nutrivano di arruz, riso, e lo fecero conoscere alle popolazioni del Mediterraneo con cui entrarono in contatto durante  i loro  viaggi di conquista. Nel Mille il riso comparve nelle botteghe degli speziali in Sicilia, insieme allo zucchero e alle spezie provenienti dall’Oriente.

Il riso fu quindi inizialmente coltivato in Sicilia, poi nel Napoletano ad opera degli Aragonesi che nel 1450 avevano riunito il regno di Sicilia e quello di Napoli. Si hanno notizie di coltivazioni di riso a Salerno nel Quattrocento e spesso  il cosiddetto “riso di Salerno”  fu citato nei ricettari fino all’’800. Al riso si deve la preparazione degli arancini e del timballo in Sicilia, del sartù in Campania, divenuti ben presto piatti tipici della tradizione gastronomica di queste regioni. Grazie ai vincoli di parentela tra gli Aragonesi di Napoli e i Visconti di Milano e poi con gli Sforza, il riso arrivò nel Nord Italia dove trovò un ambiente favorevole alla sua coltivazione e diffusione sulle tavole sia dei nobili che dei ceti meno agiati.

Nel ‘700 in Italia questo  sformato di riso conquistò un posto d’onore al centro della tavola reale grazie ai monsù (i monsieurs, cuochi  francesi) e, nella sua equilibrata, elaborata  e ricca composizione, il riso era esposto in bella mostra su un pregiato vassoio  “sur tout”,  da cui il nome sartù, sopra tutti gli altri e più sostanziosi ingredienti. In effetti da tempi remoti i napoletani preferiscono la pasta al riso, che per la sua digeribilità fu  considerato un alimento per convalescenti e anziani, per cui lo camuffarono in un piatto ipercalorico e gustoso.

“Sia perdonato ai napoletani se non amano il riso, come lo amano i cinesi e i lombardi. E sia loro anche perdonato se lo mangiano volentieri solo se sistemato a timballo dopo averlo lessato nel brodo di pollo in un bel tegame rotondo, riempito di polpettine di carne, di salsiccine sminuzzate di mozzarella e di fegatini di pollo con qualche dolce pisellino e cosparso di buonissimo sugo, di pan grattato e cotto in forno. Solo così i napoletani mangiano il riso: a sartù, ma nemmeno ci fanno follie, anche se lo preparano con gusto sopraffino, e lo offrono agli ospiti di riguardo, tuttavia scusandosi (Mario Stefanile, Partenope in cucina).

Eccovi una delle tante ricette del sartù di riso.

Ingredienti.

400 g di riso

200 g di cervellatina (piccola salsiccia di maiale)

2 fegatini di pollo

polpettine ( preparate con 200 g di carne trita, 1 uovo, 1 fetta di pancarrè ammorbidita nel latte)

200 g pisellini

una cipollina

50 g di prosciutto crudo

200 g di mozzarella

2 uova

olio d’oliva

ragù

100 g di parmigiano grattugiato

burro

sale

pangrattato

Per la besciamella: 25 g burro, 20 g di farina, 2.5 cl di latte, sale, pepe, noce moscata.

 Per il ragù.

Puntine di maiale, un pezzo di salsiccia, fettine di vitellone o manzo, un gambo di sedano, una cipolla, passata di pomodoro,  mezzo bicchiere di vino bianco, basilico, sale, mezzo  cucchiaio di strutto, olio d’oliva.

Nell’olio e strutto  rosolare i pezzi di carne senza mai distrarsi, aggiungere la cipolla a fettine, il sedano e la carota tritati e mescolare per amalgamarne gli umori;  aggiungere il vino e  lasciarlo evaporare, versarvi  il pomodoro passato e il basilico. Cuocere a fuoco lento lento per un’ora e mezza  mescolando con un cucchiaio di legno.

Preparazione del sartù.

Preparare un ragù di carne, la besciamella, le polpettine piccine picciò fritte in olio d’oliva. In una padella cuocere in poco olio la cipollina, il prosciutto tritato cui si aggiungono i piselli e un po’ d’ acqua, se necessario. Cuocere separatamente in due padelle le cervellatine e i fegatini di pollo con l’olio. Lessare in acqua salata  il riso al dente e lasciarlo raffreddare; condirlo prima col parmigiano poi con la besciamella, con poco ragù e le uova sbattute in modo che risulti un composto rosa. Ungere di burro una teglia e cospargerla di pangrattato, versarvi uno strato di riso, poi uno di mozzarella tagliata a dadini, polpettine, pisellini, un altro strato di riso, versarvi sopra le  cervellatine e i fegatini  spezzettati e ricoprire con un ultimo strato di riso. Cospargere con  qualche fiocco di burro e spolverizzare di pangrattato.

Infornare a 180° per circa un’ora: lasciare riposare prima di sformarlo e  voilà il sartù è pronto!

La sfogliatella: un dolce al femminile.

La sfogliatella è un tipico dolce napoletano, oserei dire il dolce più tipico, da secoli regina della pasticceria napoletana che, come spesso accadde nelle più antiche monarchie, ha vissuto l’alternanza di periodi di sommo splendore  e  di decadenza, cui il tempo ha poi riconosciuto il dovuto prestigio.

sfogliatelle

Remote sono le sue origini: in forma primordiale comparve  nei riti orgiastici mediorientali, dai quali derivava il suo simbolismo erotico,  per poi approdare  nei monasteri napoletani diventando un dolce  scrigno di castità. Infatti le  iniziazioni misteriche e i baccanali per il  culto della dea Cibele  dalla Frigia si diffusero  nelle  colonie elleniche per giungere fino cripta-parco-vergiliano alla cripta di Piedigrotta a Napoli, creduta opera del famoso  Virgilio Mago. Proprio lì dentro  illibate vestali offrivano alla Grande  Madre pani di forma triangolare per propiziarsi la fertilità, simboli  di castità idolatrata che poi finiva col cedere agli sfrenati riti orgiastici. La crypta  neapolitana  diventò poi tempio di Priapo per cui il pane di forma triangolare assunse  un significato  ad alta valenza erotica durante i baccanali, perdendo quello casto e originario.Con l’avvento del cristianesimo sull’empia ara di Piedigrotta sorse la  cappella della Vergine dell’Idra o del serpente, con la speranza che la Madonna allontanasse non solo le presenze maligne, forse le stesse che diedero origine alla crypta in una sola notte, ma  soprattutto il ricordo delle indemoniate  baccanti. Rimase però la tradizione della “sfogliatella”, che perse  il richiamo erotico- pagano  per recuperarne uno di purezza catartica  nei monasteri napoletani,  e  continuò ad essere il simbolo della femminilità e della fertilità. Non a caso si hanno notizie che  dalla metà del ‘300 fino all’800 al tempio di Piedigrotta   giovani spose e donne senza figli “si recavano  a pregare la Vergine perché le proteggesse nel nuovo stato e tal rito si compiva alla prima uscita dalla casa dei mariti e cioè non appena iniziate al mistero coniugale della procreazione”(da  “Gazzetta Napolitana” del 1805)  

Sintesi di sacro e profano, come per altre forme di culto e tradizioni napoletane, la sfogliatella sopravvisse nella storia come dolce al femminile che pian piano si è liberato di un millenario passato intrigante e  misterioso conquistando  il primato di indiscussa regina del buon gusto. Lungo e tortuoso è però il suo “processo di liberazione” perché dal  Medioevo alla  metà  dell’800 il segreto della sfogliatella fu gelosamente custodito  nel  monastero  Croce di Lucca finché  trapelò all’esterno approdando poi nelle pasticcerie napoletane. Infatti nel 1624 un’ inaspettata lettera fu consegnata a Nicola Giudice, principe di  Cellammare  e duca di Giovinazzo, per informarlo  che le giovani figlie Aurelia, Maria ed Eleonora, devote novizie da alcuni anni, avevano violato la regola del silenzio della vita claustrale dando adito a una grave e inopportuna fuga di notizie tale da  meritare un richiamo scritto e ufficiale della madre superiora dell’ordine delle Carmelitane.  Di cosa si erano macchiate le tre sorelline Giudice? Nientemeno  della rivelazione della ricetta della sfogliatella,  consentendo  che gli  ingredienti e le articolate fasi di preparazione del dolce varcassero le mura di altri monasteri, che si cimentarono in  una sorta di concorrenza  gastronomica  per conquistare i palati più sopraffini dell’aristocrazia partenopea.

È interessante sapere che  le carmelitane educavano le pulzelle non solo alla preghiera e alla vita monastica  ma anche alla delizia delle “cose da zuccaro” che erano offerte a parenti, alti prelati e notabili  in visita e quest’arte pasticcera dava prestigio e garantiva buone entrate ai monasteri. Se il monastero di Santa Chiara era famoso per le marasche sciroppate, lasagne e zeppole, quello della Maddalena per le paste reali, quello dell’Egiziaca per i biscotti dei carcerati, la Trinità per le bocca di dama, San Marcellino per i casatielli, Donnalbina per le cuccuzzate in barattolo e il monastero della Concezione della Spagnuola per i ruschigli di cioccolata, Donnaregina, Sapienza e Santa Maria di Costantinopoli per i susamielli, le torte di frutta e il pan di Spagna, invece il Croce di Lucca vantava la sua  delicata sfogliatella. Questo fin quando le figlie  di Cellammare, che avevano il privilegio di ricevere visite della madre e di tre amiche a piacere anche perché il loro padre aveva finanziato i lavori di ristrutturazione del monastero, non passarono alla storia delle sfogliatella come poco abili spie culinarie. Ricetta che circolò non solo a  Napoli ma  anche a Salerno, infatti  proprio tra Furore e Conca dei Marini nel monastero di Santa Rosa fu inventata la variante ripiena di crema e guarnita con amarene, detta appunto  sfogliatella “Santa Rosa”, che parve restituire al dolce  una sensuale femminilità.

Ormai la strada  dello  spionaggio dolciario era segnata dall’illustre precedente del Croce di Lucca tant’è che un’altra, ma ignota, monachella, questa volta  del monastero amalfitano, svelò la ricetta della sfogliatella  che a metà ‘700 giunse alle orecchie di  un pasticciere  napoletano giungendo agevolmente sulle raffinate tavole dei nobili, ma in una veste più semplice, ridotta, casta.Solo nell’800 il famoso pasticciere Pasquale  Pintauro, dopo l’apertura di una famosa trattoria e poi di un caffè, pensò di battere la concorrenza dello svizzero Caflish e dei caffè alla moda francese  inaugurando  una pasticceria  in via sfogliatella_frolla-620x465Toledo  che produceva non solo pastiere, susamielli,  torroni, struffoli, raffioli e sanguinaccio ma soprattutto  sfogliatelle che fino ad allora erano state il  privato privilegio gastronomico dell’elite aristocratica. Così il cavalier Pintauro  consentì il debutto mondano e commerciale della sfogliatella.  Un successone che favorì poi, grazie alla sua inventiva, il lancio della cosiddetta  “frolla”,  variante morbida di quella riccia.

A metà ‘800 però la sfogliatella cadde in bassa fortuna: dopo anni e anni allietati da siffatta pasta, i nobili borbonici reclamarono nuovi dolci e Pintauro “inventò” la zeppola di san Giuseppe guarnita  con crema pasticciera e amarene, variante della zeppola tradizionale. A quanto pare un’altra monachella, stavolta del monastero di santa Chiara, aveva svelato la segreta ricetta delle  zeppole fritte, che così poterono uscire dalle cucine conventuali. Inoltre i sempre più emergenti pasticcieri stranieri snobbavano il dolce locale, come Caflish che proponeva torte di ogni tipo.A un tratto la svolta popolare della pasta, finalmente  accessibile a un’ampia clientela  grazie a Carraturo  che a Porta Capuana e nei laboratori di piazza Garibaldi e dintorni produsse sfogliatelle che ben presto si diffusero  nei vicoli, nella zona della stazione e nel popolare quartiere di Forcella. Agli inizi del ‘900 nel quartiere della Pignasecca del centro storico si aprì la pasticceria dei calabresi Scaturchio, rinomata e lunga dinastia di pasticcieri a Napoli, ancora operanti in piazza San Domenico Maggiore ove si fa tappa obbligata per un buon caffè e  la loro sfogliatella. Per tutto il secolo e fino a oggi i più noti pasticcieri napoletani, Bellavia al Vomero, gli eredi di Pietro Carraturo, Attanasio al vico Ferrovia hanno gareggiato per produrre la migliore sfogliatella. Proprio Mario Scaturchio ha rivendicato e sostenuto l’arte manuale della preparazione di questa pasta che implica la capacità di realizzare una sfoglia molto sottile, piegata più volte, lavorata per ore con la sugna che regala una fragranza inconfondibile, sebbene alcune aziende abbiano meccanizzato la produzione del guscio croccante per garantirne la fornitura ai piccoli laboratori che non riescono ad assicurare una produzione giornaliera.

sfogliatella-conoLa sfogliatella si è anche rinnovata  nel tempo: più recente è la cosiddetta coda di aragosta, dalla forma allungata che viene poi farcita con panna e amarene, o crema al cioccolato o al caffè.  Da poco sono decollate la sfogliatella Vesuvio, avente un cuore di babà con dentro una crema di  panna e cioccolato, e  la sfogliatella cono farcita di gelato.

La sfogliatella rappresenta un po’ la complessa napoletanità, viene spesso citata ma di fatto  è poco conosciuta la sua lunga e movimentata storia, un po’ come capita con la leggendaria bellezza  di una nobildonna del passato, spesso ricordata da tanti ma che forse pochi  hanno avuto occasione di  vedere perché restia a mostrarsi.  Forse non  è un caso che questa pasta abbia attraversato indenne secoli e secoli  di storia  regalando sempre  la stessa fragranza, simile a quella della ridarella di noi bambini che riecheggia nella memoria, regalandoci con il profumo di vaniglia  l’atmosfera di altri tempi.

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E chiudendo gli occhi, mi pare di sentire  quel buon odore che inondava fin troppo casa mia di buon mattino, quando per un anno ho abitato su un laboratorio di pasticceria e le  immagino  allineate “Nella guantiera di candido cartone…dodici ricce ricce, dodici damine in fila per tre , con le loro gonne ondulate e gonfie, dodici bambine ordinate con le vestine  che si aprivano tutte plissettate spruzzate di bianco bellelle bellelle!”  (Maria Orsini Natale).

 

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Graffe

graffe

La graffe è un dolce napoletano, a base di farina e patate, che  deriva il nome da “krapfen” , una frittella  gonfia ripiena di crema o marmellata inventata dalla pasticciera austriaca Veronica Krapf.

 

Ingredienti.

1 kg di farina

100 g di zucchero

6 uova

100 g di burro

30 g lievito di birra

200 g patate lesse

1 pizzico di sale

latte q.b.

olio di semi

  Esecuzione.

 Pelare, lessare e passare le patate nello schiacciapatate. Disporre  zucchero e farina a fontana. Versare dentro il burro sciolto, le uova, il sale, le patate passate e infine il lievito precedentemente sciolto  nel latte. Impastare raccogliendo un po’ alla volta la farina intorno  e aggiungere latte quanto ne assorbe l’impasto che deve risultare morbido. Lasciare lievitare per almeno un’ora. Tagliare l’impasto in pezzi e con ognuno formare serpentelli da chiudere a forma di ciambella, adagiarle sulla spianatoia cosparsa di farina per evitare che si attacchino. Lasciare  lievitare ancora per mezz’ ora. In una pentola larga con i bordi alti friggere le graffe in  abbondante olio di semi  bollente e, quando sono dorate, estrarle, asciugarle su carta assorbente da cucina e infine girarle bene bene  nello zucchero. 

Pere ‘mbuttunate ( pere e’ Mast’ Antuono ripiene)

pere-e-MastAntuono-300x200Le pere ‘mbuttunate sono un dolce sorrentino, per la precisione metese, del mese di agosto perché in questo periodo maturano le pere e’ Mast’ Antuono che sono piccole, tondeggianti, profumate, croccanti e quindi anche adatte per essere cucinate in zuppe, dolci e marmellate.

Questo dolce non si trova in vendita nelle pasticcerie, ma è perlopiù preparato in casa grazie a ricette tramandate di generazione in generazione per fare sopravvivere la tradizione gastronomica locale.

Ingredienti:

1,5 Kg di pere e’ Mast’ Antuono, non troppo mature ( sono un prodotto tipico della costiera sorrentina)

250 g di ricotta

200 g di zucchero

100 g di amaretti

200g di cioccolato fondente grattugiato

due bicchierini di marsala

acqua (due tazzine da caffè)

Volendo si possono aggiungere una manciata di pinoli e di cedro candito, oppure un po’ di crema.

Esecuzione.

Lavare e asciugare le pere, tagliare con un coltello la parte attaccata al picciolo che servirà da cappuccetto poi, lasciando la buccia, svuotarle pian piano del torsolo e della polpa.

Amalgamare la ricotta con lo zucchero, gli amaretti sbriciolati e 100 g di cioccolato fondente e con questo composto riempire le pere che infine saranno coperte con la parte superiore precedentemente tagliata. 

In un pentolino lasciar cuocere la polpa della frutta in un po’ d’acqua. Quando è ben fluida, filtrarla con un passaverdure e raccoglierne il succo. In una teglia o pirofila versare il succo di pera, aggiungervi due bicchierini di marsala, adagiarvi le pere e cospargerle con i rimanenti 100g di cioccolato fondente .

Infornare a 200° per circa 40 minuti. Sono un ottimo dessert freddo.

Cianfotta alla sorrentina

Durante le vacanze estive, che trascorrevo da sola a casa della nonna, mi piaceva molto andare con il cane nel giardino di buon mattino, soprattutto per aprire da sola il cancello dell’orto e raccogliere pomodori, peperoni, melanzane, zucchine e basilico a volontà che servivano per il menu del giorno. Una piccola- grande incombenza per una bambina di 7- 8 anni. Ricordo che la nonna trascorreva tutta la mattina in cucina: innanzitutto cucinava ai suoi gattoni il pappone di riso con le  alici diliscate, poi puliva le verdure e preparava  il pranzo che noi nipoti trovavamo   nella credenza quando tornavamo stanchi ed  accaldati dal mare. Piatti tipici erano le frittelle di fiori di zucca, che in quattro e quattr’otto sparivano dalla tavola, e la cianfotta che mi limitavo ad assaggiare perché non amavo le verdure, che ho imparato ad apprezzare e a gustare anni dopo.

La cianfotta era ed è preparata esclusivamente d’estate per consumare le tante zucchine e zucchette dell’orto in un miscuglio colorato e profumato (pare che cianfotta derivi da chabrot, antico termine dialettale francese, che significa appunto miscuglio)

 

Ingredienti per 6 persone.

 400 g pomodori da salsa, preferibilmente San Marzano

300 g patate

200 g carote

1 kg tra zucchine, zucca lunga e zucchetta

una melanzana

4-5 prugne secche snocciolate

6 pere e’ Mast’Antuono  acerbe o  spadone

basilico

uno spicchio d’aglio

una cipolla

un peperoncino piccante

sale q.b.

olio d’oliva

 

Preparazione:

Pulire e lavare  gli ortaggi, tagliarli a pezzetti. In un tegame largo e dai bordi alti versare circa quattro cucchiai di olio d’oliva e rosolare la cipolla, finemente affettata, con lo spicchio d’aglio e il peperoncino. Aggiungere poi i pomodori e, dopo circa dieci minuti, le carote, le patate e un bicchiere d’acqua. In seguito le zucchine, le zucchette e la melanzana a pezzetti e coprire con acqua, salare e lasciare cuocere a fuoco basso per circa 50 minuti senza mescolare troppo; aggiungere le prugne snocciolate e le pere, sbucciate e a pezzi, e lasciare cuocere ancora per quindici minuti. Quando è ben cotta , aromatizzare la cianfotta con basilico fresco e lasciare intiepidire.

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Il limone tra storia, leggenda e limoncello .

Frederic_Leighton_-_The_Garden_of_the_HesperidesAi limoni, raggi di luce divenuti  frutti, fa capo una delle dodici fatiche di  Ercole  che uccise il drago Ladone incaricato  con  le Esperidi  di vigilare su un giardino, per custodire i pomi d’oro che Gea aveva donato a Era in occasione delle sue  nozze con Zeus. Con l’aiuto delle ninfe,  Ercole si procurò i frutti e li portò ad Euristeo. Nella cultura medio orientale, soprattutto ebraica, si  parlava perlopiù dei cedri che  crescevano in Israele quando gli  ebrei rientrarono da Babilonia nel VI sec. a. C. ;  cedri denominati meli di Persia da Teofrasto di Ereso, filosofo greco ed esperto id botanica,  nel 300 a. C .

La presenza dei limoni nel mondo romano fu confermata non solo  da Plinio il Vecchio  che lasciò notizie  sul trasporto del cedro in tante regioni ma anche  dalle piante da frutto, tra cui due limoni,  particolare albero da fruttodipinte sulle pareti della casa del frutteto di Pompei  e dalle trentotto piante di limone in vaso, trovate nella villa Oplonti di Torre Annunziata .Nel 1952 l’archeologo Maiuri concluse che il limone citrino ovale si era già acclimatato in Italia sin dal I  sec. d. C. In epoca romana  però non si distinse ancora  la differenza tra limone e cedro, cui si giunse verso il X secolo. Sicuramente gli arabi portarono i limoni durante le invasioni della Spagna e dell’Italia meridionale  tra il X e il XII secolo ma anche  i crociati, di ritorno dalle guerre sante,  importarono   le piante di limoni, ben presto coltivate nelle zone a clima caldo-temperato. In verità nella costiera sorrentina –amalfitana il limone era già presente nell’Alto  Medio Evo (V I sec. d. C.), come documentano le testimonianze dei medici salernitani che lo usavano a scopo terapeutico. Certamente  il “citrus limon massese” o “ femminiello massese” di Massa Lubrense, nota per i suoi limoni,  fu importato dall’oriente dai monaci gesuiti nel lontano XVII secolo e proprio il gesuita massese padre Vincenzo Maggio promosse la coltivazione dei limoni. A fine ‘500 Napoli e dintorni  erano ormai  “un gioioso loco” ricco di aranci, limoni  e cedri, tanto da fare esclamare più tardi a Goethe  “Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni? Nel verde fogliame splendono arance d’oro. Un vento lieve spira dal cielo azzurro, tranquillo è il mirto, sereno è l’alloro. Lo conosci tu bene? …”

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Gran parte dell’economia sorrentina ruotò intorno all’agrumicoltura, che dall’ 800 sostituì colture non più redditizie come quella dei gelsi , anche per la sempre più massiccia importazione dall’oriente dei bozzoli destinati all’industria serica. Proprio per l’esportazione pagliarelledi arance e limoni verso il nord Europa e l’America agli inizi dell’800  si sviluppò la  cantieristica navale  e  di conseguenza  sempre più la tradizione marinara della penisola sorrentina, ancor oggi radicata.  Nel 1917 in penisola circolavano circa ottocento tra cavali, asini e muli per il trasporto di agrumi e  la commercializzazione dei limoni all’ estero  fu garantita tutto l’anno perché d’inverno erano conservati nelle grotte e le  piante venivano  protette  con le “pagliarelle”. Queste, ancora in uso,  sono stuoie di paglia appoggiate su pergolati   per formare una sorta di tetto sul limoneto ed  evitare che i limoni siano danneggiati dalle gelate.

Solo con il limone della costiera amalfitana e sorrentina aventi il marchio IGP, cioè lo sfusato di Amalfi e l’ovale di Sorrento, si produce il limoncello, liquore digestivo di fama internazionale.

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L’origine del limoncello è piuttosto controversa e contesa tra Capri, Sorrento e Amalfi.  Se per i capresi l’imprenditore  Massimo Canale fu il primo a registrare il marchio “Limoncello” negli anni ’80, per   gli amalfitani  le origini del limoncello si fanno risalire a epoche remote,  addirittura  al tempo delle invasioni saracene quando i pescatori lo bevevano per combattere il freddo. Probabilmente invece fu  prodotto in un monastero, come tanti dolci e prelibatezza campane, anche se i sorrentini sostengono  che sin dall’inizio del ‘900 le nobili famiglie del luogo lo offrivano agli ospiti illustri, secondo una ricetta tradizionale.

Per Achille Bonito Oliva  il limoncello è il liquore bambino.

“Liquore di antica famiglia, il limoncino, casa e chiesa, silenzioso e senza malizia di sapore, è per gli adulti senza essere vietato ai bambini. Ha il colore paziente del convitto, senza oggetto o decisione di fondo, ma con sapore continuo alla gola. Fatto per lo sguardo e malinconica distrazione, non permette e non trattiene ricordi. Liquore di passaggio, il limoncino. Un giallo che rimanda all’azzurro. Non ama essere versato ma preservato in ampolle sicure e personali. Il diminutivo limoncino dichiara un liquore infantile anzi bambino, che nasce limone e desidera diventare limoncino, sicuramente in vitro, così trasparente e guarda dalla bottiglia in girotondo…”

 

Esistono molte varianti della ricetta sia per le diverse percentuali di zucchero e alcool, sia  per il procedimento.

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Ricetta del limoncello

Ingredienti:

10 limoni non verdi

1 lt di alcool per liquori

750g di zucchero

 

Procedimento:

Sbucciare i limoni senza intaccare il mesocarpo o albèdo (la parte interna  bianca del limone), mettere le bucce in infusione nell’ alcool in un recipiente di vetro chiuso e  in un luogo fresco e buio per 9 giorni. Quando è concluso il periodo di macerazione, preparare il giulebbe versando  750 g di zucchero in un litro d’acqua, mescolando e lasciando bollire per 5 minuti circa finché lo zucchero non si sia sciolto. Quando lo sciroppo si è raffreddato, aggiungervi l’alcool con le bucce, girare e infine  filtrare con una garza e imbottigliare. Il limoncello è un ottimo digestivo da servire preferibilmente in bicchierini gelati, oppure lo si può conservare  nel congelatore  in quanto zucchero e alcool gli impediscono di congelare.

 

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I susamielli

 susamielli-napoletaniUn dolce natalizio della Campania è il susamiello, il cui nome probabilmente deriva dal sesamo, i cui semi  ricoprivano i globulos degli antichi romani, palline di formaggio fritte poi immerse nel miele. Cristoforo da Messimburgo, che lavorò prima alla corte degli Estensi e poi dei Gonzaga a Mantova,  nella metà del ‘500 parla dei Sosamielli Perfettissimi preparati con un impasto di farina, zucchero, cedro candito e uova, aromatizzato con  cannella, pepe, varie spezie tipiche della cucina dei nobili, acqua di rose e un’essenza estratta dalle ghiandole del cervo, detta muschio. Dopo un secolo si trovano gli stessi ingredienti nel ricettario di napoletano Antonio Latini e nel ‘700 – ‘ 800 nel Credenziere del Buon Gusto di Vincenzo Corrado che descrisse i Sosamielli delle monache, che forse erano quelle del convento della  Sapienza, cui si devono anche le sapienze , simili ai susamielli e anch’esse dolce tipico  nel periodo natalizio. Nella loro ricetta tra gli ingredienti ci sono anche le mandorle tostate e tritate e i sosamielli di forma ovale sono ricoperti da una glassa all’arancia. In seguito Salvatore Campisi Pistoja li definisce “susamielli “ fatti con farina, miele, spezie e giulebbe d’arancia, sia a forma circolare con buco centrale che a forma di otto. Nel 1830 il cuoco Angioletti della corte parmense parla di susamielli napoletani, senza mandorle e con glassa al cioccolato. La tipica forma di S probabilmente è più recente, risale ai tre diversi susamielli: quello dei nobili preparati con farina fine, quelli degli zampognari o dei poveri con farina più grossolana, e quelli del Buon cammino, ripieni di  marmellata, che venivano offerti ai preti che facevano la questua per le case a Natale. La forma di serpente ha un significato beneaugurale.

Questa è l’ antica  ricetta tratta da “Il credenziere del Buon Gusto” di Vincenzo Corrado, 1820

Ingredienti:

640 g di miele

320 g di giulebbe

1.280 kg di farina

640 g zucchero

110 g di mandorle tostate

160 g di scorzette di arance candite

26 g di cannella in polvere

13 g di chiodi di garofano in polvere

6 g di pepe

Buccia grattugiata di mezza arancia fresca

Per la ghiaccia:

320 g di zucchero

2 arance

 In un pentolino portare a ebollizione miele e giulebbe, schiumandoli fin quando non diventano limpidi. Disporre la farina a fontana, versarvi il miele caldo, lo zucchero, le mandorle tritate, le spezie, la buccia grattugiata di arancia e le scorzette candite. Impastare bene, servendosi di spatole perché l’impasto è caldo, avvolgere in un panno e lasciare fermentare la pasta per 24 ore. Poi tagliarla a pezzi, stenderla fino allo spessore di un dito, tagliare ovali ( oggi si dà la forma di S)  , disporli su una placca da forno e lasciare cuocere  a media temperatura (180° al massimo per 20 minuti). Grattugiare la buccia delle arance, bagnarla con un po’ di succo, filtrare il tutto, unirvi i 320 g di zucchero e mescolare fino a ottenere una crema filante da spennellare sui susamielli.

Oggi esistono ricette più semplici, inoltre  non si lascia fermentare l’impasto per 24 ore e spesso  ai vari  ingredienti  si aggiunge un pizzico ammoniaca.

 

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I mostaccioli

 

Le zeppole di Natale alla sorrentina

zeppole di Natale alla sorrentina

Le zeppole sono un dolce tipico del Cilento e della penisola sorrentina e amalfitana da gustare durante le feste di Natale. Sono frittelle di pasta, a forma di nocchette, condite con miele aromatizzato. Pare abbiano antichissima origine in quanto già gli egizi preparavano dolcetti a forma di serpente e di animali, mentre i greci preparavano ciambelle, simili alle zeppole, che nella forma ricordano anche la lettera alfa. Ai  Romani invece si fanno risalire le “serpulae”da cui deriverebbe il nome zeppole. Esistono varie ricette di questo dolce povero. Per esempio a Ravello si usa preparare un impasto con uova , latte e patate, come  quello delle graffe, invece a Sorrento le zeppole sono semplicissime frittelle di acqua e farina.

Ingredienti per l’impasto.

due tazze di farina

due tazze di acqua

 

Mettere l’acqua in una pentola sul fuoco e, non appena bolle, versarvi in un sol colpo la farina. Mescolare energicamente con un cucchiaio di legno cercando di rendere omogeneo l’impasto e, quando si stacca dalla pentola, rovesciarlo su una spianatoia o sul marmo, precedentemente unti, e lavorarlo a lungo con forza, sbattendolo, per eliminare i grumi (altrimenti le zeppole scoppiano nell’ olio bollente). Tagliare l’impasto e con le mani formare dei serpentelli di pasta  di circa 15cm di lunghezza da annodare come nocchette. Friggerle poche alla volta in abbondante olio e in una pentola larga dai bordi alti, facendo attenzione perché qualche zeppola potrebbe scoppiare. Asciugare bene su carta assorbente da cucina.

Ingredienti per il condimento:

500g di miele

2 cucchiai di anice

1 cucchiaio di zucchero

la buccia  grattugiata di un limone verde

la buccia di un mandarino a pezzetti

confettini colorati ( i cosiddetti diavulilli)

un rametto di rosmarino

In una pentola sciogliere il miele con lo zucchero, l’anice, le bucce di mandarino e di  limone. Versarvi dentro un po’ alla volta le zeppole, girarle ben bene nel miele, estrarle con delicatezza e adagiarle su un piatto di portata a mò di piramide, cospargendole infine di confettini. Ripetere il procedimento fino a esaurimento delle zeppole, aggiungendo di volta in volta nel miele pezzetti di bucce. Decorare con qualche foglia di rosmarino.

Buon appetito!

I mostaccioli

mostaccioliA Napoli e in Campania i dolci tipici delle  feste natalizie sono tanti: le paste reali di San Gregorio Armeno, i Divino Amore, le sapienze, gli struffoli, le zeppole, i  roccocò, i mostaccioli ,i susamielli, i raffioli. Solo a leggere questa varietà si ingrassa, ma ne vale davvero la pena . I miei preferiti sono i mostaccioli che hanno forma di rombo e sono ricoperti di cioccolato, mentre la pasta interna è a base di miele e frutta candita.

I mostaccioli hanno una lunga origine. Catone ha lasciato la ricetta dei mostacea , un impasto di mosto e farina, grasso e formaggio, speziato da anice, cumino e alloro che veniva cotto su una piastra . Un piatto dei matrimoni romani che sembra molto lontano dai nostri squisiti mostaccioli. In verità dal 200 a. C. di Catone e i primi ricettari del tardo Medioevo si sa poco grazie a notizie frammentarie e a testi arabi. Per i Romani il mosto di Catone era, insieme al miele, un dolcificante, mentre lo zucchero fu portato poi dagli arabi. Nei ricettari del Rinascimento compaiono  farina, zucchero e spezie come  ingredienti degli antenati dei  mostaccioli napoletani  che forse derivano dai pani speziati del Medioevo e dai dolci romboidali di marzapane della  Provenza. Nel 1557 Cristoforo di Messimburgo parla di biscotti preparati con  miele, farina, zafferano, cedro candito, noce moscata e cinnamono. Questi servivano come addensante di sapori per una famosa torta al gusto di cantalupo di Bartolomeo Scappi, cuoco del papa Pio V. Nella sua variante di mostaccioli venivano utilizzate le uova, mentre nel ‘600 si aggiungono mandorle tostate e tritate e proprio alla fine del secolo Antonio Latini  descrive mostaccioli con cedri canditi, mandorle, spezie e una glassa di zucchero alla cannella. Alla fine del ‘700 arriva il cioccolato e nel 1778 Vincenzo Corrado parla di una glassa di cioccolato, quindi si pensa che i mostaccioli napoletani  nascano alla fine del ‘700. Esistevano anche una variante con cannella, chiodi di garofano e noce moscata, un’ altra con cedro e mandorle. Nel 1810 Michele Somma di Nola descrive un mostacciolo fatto con farina, zucchero, mandorle e coperto di cioccolato. Nel 1977 Jeanne Carola ha variato la ricetta  riducendo le spezie e introducendo buccia d’arancia e uno strato di marmellata di albicocche creando  mostaccioli un po’ più morbidi e …squisitissimi.

Come per la maggior parte dei dolci campani esistono tante ricette e varianti, vi propongo quella di Jeanne Carola Francesconi tratta da la Cucina Napoletana.

 

Ingredienti:mostaccioli 1

per la pasta:

500g farina

400g zucchero

100 g acqua

5g spezie in polvere

un pizzico di vaniglia

raschiatura di mezza arancia

0,5 g di carbonato di ammoniaca

 Per la ghiaccia:

300 g zucchero

140g cacao

una punta di cucchiaino di bicarbonato di sodio

50g marmellata di albicocche

2 cucchiai di zucchero

½ bicchiere di acqua

Mescolare farina e zucchero, gli aromi indicati, la raschiatura di buccia di arancia e aggiungere  l’acqua e il carbonato di ammoniaca amalgamando gli ingredienti in una pasta dura. Lasciare riposare per 15 minuti. Stendere la pasta (4 mm di altezza), dividerla in strisce larghe 10 cm da ritagliare in rombi. Riutilizzare i ritagli , impastando di nuovo e formando altri rombi. Spennellare con acqua fredda, metterli su una placca oleata e lasciare cuocere a media temperatura per 7-8 minuti circa rivoltandoli. Estrarre dal forno e lasciare raffreddare. Preparare la ghiaccia al cioccolato con 50 g di cacao, velare una faccia dei mostaccioli e lasciare asciugare. Sull’altra faccia spennellare un sottile strato di marmellata di albicocche, cotta con due cucchiai di zucchero e mezzo bicchiere d’acqua  per 4-5 minuti. Aggiungere alla ghiaccia altri 40g di cacao e stenderla sullo strato di marmellata. Lasciare asciugare i mostaccioli in forno aperto riscaldato per dieci minuti.