Le frittelle di Carnevale alla veneziana

Carnevale è principalmente una festa pubblica, che si svolgeva e si svolge in comunità e  all’aperto ove  condividere nuove maschere  o l’abbandono di quelle più usuali.Come ogni festa prevede  dolci tradizionali, quasi sempre fritti e facili a farsi perché in origine si preparavano in strada. Essi richiamano un po’ le “frictilia”, dolci fritti nel grasso, conditi poi con miele e  offerti dai Romani al dio  Saturno .

Le frittelle di Carnevale imperversano in ogni regione d’ Italia, hanno diverso nome  e varia forma: sono  palline, a volte ripiene, come le castagnole, i tortelli , le fritole, oppure  a forma di ciambelle o più comunemente di nastro e ricordano un po’ pezzetti di stelle filanti, dette chiacchiere, bugie, frappe, fiocchi, stracci, cenci ecc…

 

Durante le  feste  rinascimentali del Carnevale veneziano, riservate ai nobili, non mancavano le frittelle alla veneziana , la cui ricetta ufficiale risale a Bartolomeo Scappi, cuoco del papa Pio V e autore di un corposo e famoso trattato di gastronomia del XVI secolo intitolato “Opera”. Solo nel Settecento le frittelle divennero dolce nazionale della Repubblica veneziana, grazie anche alla corporazione dei fritoleri che le cuocevano e  le vendevano , dopo averle esposte  su piatti di stagno o di peltro ben decorati  con a fianco  gli  immancabili ingredienti, cioè  i pinoli, l’uvetta, i pezzetti di cedro .

Frìtoe a la venessiana 

Ingredienti:

500g farina

2 bicchieri di latte

2 uova

130g uvetta

50g cedrini canditi

50g pinoli

100g zucchero

20g lievito di birra

½ bicchiere di grappa

 buccia grattugiata di un’arancia

1 bustina di vanillina

Sale q.b.

Zucchero a velo

Olio per frittura

 

Preparazione

Ammorbidire l’uvetta nella grappa per circa mezz’ora .

In una  ciotola fare un impasto morbido con la farina, un po’ di latte, le uova, lo zucchero; aggiungere poi un po’ di sale, il lievito sciolto nell’acqua tiepida, l’uvetta asciugata, i cedrini, i pinoli e la scorzetta di arancia e amalgamare bene  tutti gli ingredienti. Lasciare  lievitare il composto  per circa due ore in un luogo tiepido, lavorarlo  di nuovo, aggiungendo un po’ di latte, se poco fluido.  Friggerlo a cucchiaiate in abbondante olio bollente, facendo attenzione alla cottura. Asciugare bene  le frittelle su carta assorbente da cucina, spolverarle con zucchero a velo e servirle calde su un bel vassoio.

Come eravamo…a Carnevale

Da bambina mi travestivo sempre da pellerossa , armandomi di scudo e pugnale  rigorosamente finti, per rivendicare con i cugini e mia sorella l’appartenenza  alla Tribù dei Piedi Scalzi e la libertà, almeno a Carnevale, di urlare, correre a piedi nudi nel giardino e dipingermi il viso col rossetto e i tappi di sughero bruciati. Negli anni dell’adolescenza, in cui ero piuttosto disorientata sui miei naturali cambiamenti e sul mio futuro da grande, abbandonai l’usanza del travestimento per non complicarmi ulteriormente la vita col dilemma di un’identità carnevalesca.  

Ormai ventenne, apparentemente con le idee più chiare, iniziai ad accettare inviti a feste in maschera, pur non sapendo assolutamente come fare. Non  potendo  permettermi di noleggiare un costume, decisi di confezionarli  con ciò che trovavo negli armadi e con l’aiuto di una zia che sapeva cucire. La prima volta indossai  una giacchetta di raso rossa, ottenuta in prestito, pantaloni e top nero. Un cilindro o bombetta, il trucco e le pailettes  mi aiutarono a fare la mia sporca figura. L’anno successivo ero piuttosto agguerrita e quindi mi vestii da rivoluzionario francese, con tanto di mantello e tricorno nero, camicia extralarge bianca e  stivali fuori dai pantaloni. Il cerone bianco mi dava un’aria esageratamente pallida, se non funerea, ma anche  misteriosamente tenebrosa.La terza volta mi improvvisai  esploratrice in Africa: riciclai pantaloni estivi e sahariana beige, i soliti stivali e, dopo una supplica di giorni, riuscii ad indossare l’originale cappello da esploratore inglese appartenuto a nonsochi e scovato in uno dei tanti armadi della nonna. Ma non ci fu verso di completare il travestimento portando a spasso il fucile del nonno.

 Sono poi balzata ai Carnevali dei miei figli. Trasformai la primogenita in una paffuta Paperina dal becco arancione e candide piumotte, e più tardi in una tenera Primavera finchè, ormai in grado di intendere e volere almeno un costume carnevalesco, lei ne scelse uno da zebra. Sì, proprio da zebra,e lo indossò per un bel po’di anni. Anche quando divenne troppo piccolo, ne reclamò un altro che dovetti far cucire di proposito. Sin da piccola preannunciava lo spirito di tifosa giuventina e un’autostima altalenante dalle stelle alle stalle, dal bianco al nero senza sfumature intermedie.

 Il secondogenito, dopo una breve parentesi da Peter Pan, fedele sempre fu- taratàn zambù- all’Uomo Ragno. In tutto. Non solo nelle collezioni di pupazzetti e figurine, ma soprattutto nell’abilità ad arrampicarsi dappertutto. Imparò presto, ancor prima di camminare, a scalare  tutto ciò che poteva pregiudicare la sua incolumità. Il suo esordio fu sul tavolo con le rotelle, poi prudentemente smontate per evitare che slittasse nella cristalliera di fronte, per dare l’arrembaggio al porta bon bon che regalmente vi trionfava. In seguito passò alle sbarre del lettino che scavalcava di notte in cerca dei ghinghin , cioè i tre ciucciotti che misteriosamente sfuggivano dalla barriera dei paracolpi. Memorabile fu la conquista della vetta del pitosforo nel giardino della scuola materna sul quale rimase appollaiato un bel po’, fino a quando le maestre trovarono una scala e lo fecero atterrare tra i comuni bipedi umani.

Dopo una fase dark, semi reale, e un’altra horror, per fortuna solo carnevalesca, anche i figli hanno smesso di travestirsi. Guai se oso associare al Carnevale il loro estroso look serale. Meno male che ignorano il mio che, alla loro età, ne vantavo uno indescrivibile…tutti i giorni. 😉

 E voi che cosa ricordate del Carnevale?

 

Il Carnevale a Napoli ovvero come le allegre usanze dai salotti sconfinarono nelle piazze.

La festa di Carnevale ha radici molto antiche, che si diramano un po’ ovunque, sia in Italia che all’estero.

A Napoli il 17 gennaio segnava l’ingresso del Carnevale e, in occasione della festa di Sant’Antonio Abate, si dava fuoco- pratica molto diffusa- a cataste di roba vecchia ( i cippi).Al più comune Carnevale, immaginato come un personaggio grasso e dedito a grandi abbuffate , si affiancava la “ Vecchia ‘o Carnevale”, dalle giovani e prorompenti curve, che trasportava a cavalcioni o sulla gobba un piccolo Pulcinella.

 Giovan Battista del Tufo racconta le tradizioni carnevalesche di Napoli in “Ritratto o modello delle grandezze, delle letizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli”. All’epoca degli aragonesi il Carnevale era sontuosamente festeggiato dai nobili che ambivano gareggiare in tornei e giostre e partecipare a  grandiosi ricevimenti, indossando sfarzosi costumi e fulgide armature. Nel XVI secolo il gaudente popolo partenopeo si appropriò di questa festa, inscenando sguaiati canti e rappresentazioni in maschera lungo Via Toledo e nel Largo di Palazzo (l’attuale piazza Plebiscito). La festa, sovvenzionata dai nobili che vi si intrufolavano volentieri, era organizzata dalle Corporazioni delle Arti e mestieri. Ben presto l’allegra usanza di mascherarsi  scavalcò barriere sociali e sconfinò nelle strade e nelle piazze. Memorabile fu la mascherata promossa dal principe di Tarsia che per le vie della città fece sfilare accanto ai paggi, riccamente vestiti, la corporazione dei pescivendoli ornati di gioielli, prestati dagli orefici in cambio di pesce fresco.

Nel 1656 si allestirono carri allegorici, addobbati anche con prodotti mangerecci. Usanza molto gradita che si perpetrò negli anni successivi, grazie alla generosità del re e delle Corporazioni. I carri – cuccagna, che accompagnavano le cavalcate e le quadriglie dei baroni, dei cavalieri e delle Corporazioni delle Arti, venivano poi presi d’assalto dal sempre affamato popolo napoletano. Le maschere al seguito dei carri si esibivano in cartelli carnevaleschi propri, cioè canzoni dialettali scritte su pezzi di carta o di stoffa che scherzosamente decantavano le attività e i  prodotti delle corporazioni e infine venivano lanciati al pubblico e al re.

 

Poiché a volte il saccheggio dei carri provocò gravissimi incidenti, nel 1746  re Carlo di Borbone stabilì che i carri –cuccagna, invece di attraversare la città, fossero allestiti nel largo di Palazzo e fossero presidiati da truppe armate fino all’inizio dei  festeggiamenti.  I carri furono poi sostituiti da  più stanziali  cuccagne, allestite in sei giorni da una schiera di architetti e artigiani e, addobbate con caciocavalli, prosciutti, pollastri, capretti, quarti di bue, agnelli e vino, venivano poi offerte alla plebe durante le quattro domeniche di Carnevale. Dopo pochi minuti dallo sparo del cannone che dava il via all’arrembaggio, delle cuccagne ovviamente non rimaneva nulla. Nel 1764 ci fu una grave carestia , e la cuccagna fu una tentazione troppo forte per il deperito popolo che quindi assalì i soldati e portò via ogni cosa prima dell’inizio dei festeggiamenti. Si rese necessario l’intervento della cavalleria  per riportare l’ordine dopo un inevitabile spargimento di sangue. Così la cuccagna fu sospesa fino al 1773; l’ultima festa si ebbe nel 1778  con saccheggi e tumulti a volte qualche ora, a volte giorni prima dell’inizio. L’anno dopo la Gazzetta Universale annunciò che l’eletto del popolo D. Ferdinando Lignola aveva deciso di abolire questa forma di divertimento rivelatasi troppo pericolosa. Il re pensò bene di devolvere per il matrimonio di  venti povere ragazze la somma destinata al Carnevale.

  Al tempo dei Borboni la festa era annunciata al popolo con il prolungato suono di grosse conchiglie, dette tofe. E via per le strade si riversavano festosi e baldanzosi cortei che danzavano al ritmo di strani e rumorosi strumenti  detti  ‘o putipù,  ‘o triccaballacche e  ‘o scetavaiasse ( quest’ultimo- come dice il nome-poteva addirittura svegliare le volgari vaiasse, che pare sprofondassero in un sonno ristoratore dopo estenuanti fatiche).Una folla chiassosa di uomini,donne e scugnizzi invadeva ogni luogo, circondava le carrozze e ossequiava con coriandoli e uova piene di farina  i malcapitati nobili o abati. Gli aristocratici quindi si limitavano a lanciare coriandoli e fiori da balconi addobbati a festa. I signori preferivano festeggiare partecipando al ballo e al pranzo nel teatro San Carlo, che veniva trasformato per l’occasione . In verità alcune dame e cavalieri approfittavano del Carnevale per travestirsi e mescolarsi al popolo e poter  compiere, indisturbati, lascive trasgressioni.

Nell’800 l’allegra fantasia carnevalesca straripò in idee e costruzioni originali. Basti ricordare  l’insolita e divertente cavalcata di struzzi, che annunciavano il passaggio dei carri allegorici in Via Toledo, oppure i carri con  il cavallo impennato, simbolo della città, con l’immancabile e sorridente popolana al balcone, o la cornucopia dell’Abbondanza o  la seducente sirena Partenope.

Pian piano i festeggiamenti del Carnevale si ridussero a feste rionali. Su un carro troneggiava un  grasso Carnevale , ornato di provoloni, salsicce e prosciutti . Al seguito sfilavano donne in lacrime per il suo cattivo stato di salute, che recitavano le infelici diagnosi dei medici dei tre rioni più popolari di Napoli ( il Mercato, il Pendino e il Porto)  alle quali si  contrapponevano un generale e buon augurio di lunga vita.

E vui ca l’avite visto st’anno/

lu puzzate vede’a ca a cient’anne

(e voi che l’avete visto quest’anno, possiate vedere da qui  a cent’anni).

Interveniva quindi O’ mast’ e festa ( il maestro della festa) che girovagava per le botteghe per  fare la questua in nome del Carnevale e  racimolare qualcosa come rimborso delle spese sostenute.

 Ormai  del Carnevale è rimasto ben poco, se non le mascherate perlopiù dei bambini, e qualche piatto tipico, come la lasagna e la pizza di Carnevale. Il sanguinaccio, gustosa crema di cioccolata fatta – ahimè- col sangue di maiale,  è stato vietato da recenti norme sanitarie e sostituito dal più comune cacao.

 

 

Le stelle filanti

 

 

Le stelle filanti 

Perché si chiamano stelle filanti?
Non sono mica stelline del cielo?
Ma sono strisce a colori sgargianti,
fatte di carta che pare di velo.
Sembran piuttosto festoni gettati
da casa a casa, da pianta a pianta;
collane, dondoli colorati,
dove il vento ci balla e ci canta.
Poi, le notti di luna piena
un raggio d’oro ci fa l’altalena.

 

Mario Lodi

 

Giù la maschera

 

Nelle antiche feste religiose pagane si faceva uso delle maschere per allontanare gli spiriti maligni, finchè con il  cristianesimo questi riti persero il carattere magico e divennero semplicemente forme di divertimento popolare.

Durante il Medioevo e il Rinascimento i festeggiamenti in occasione del Carnevale furono introdotti anche nelle corti europee ed assunsero forme più raffinate, legate anche al teatro, alla danza e alla musica.

 Oggi il Carnevale si esprime attraverso il travestimento, le sfilate di maschere e carri allegorici e rappresenta un’occasione di festa  nel  periodo che precede il mercoledì delle ceneri, primo giorno di Quaresima.

 Mi affascina l’eleganza austera e statuaria dei personaggi che in un trionfo di colori spiccano tra le calle, i canali e i palazzi della Serenissima. Ogni anno rivivono in una dimensione sfarzosamente irreale comparse teatrali sospese nel tempo, misteriose nei sorrisi indecifrabili e negli  sguardi imperscrutabili in  un’armoniosa coreografia di drappeggi, trine, piumaggi e fantasiose acconciature e copricapi.

 La maschera: intrigante espediente per rivelare una tantum ciò che si vorrebbe essere e azzardarsi in sembianze esilaranti, talvolta provocatorie, conturbanti per apparire diversi, stupire, divertirsi e divertire al di là dell’immaginazione. Realtà e finzione si amalgamano sul palcoscenico del proprio Io. Persona e personaggio convivono tenendosi sotto braccio senza alcun limite, timore, perplessità, inibizione grazie ad un’indulgente, incondizionata, liberatoria concessione ad un’identità insolita. Come quando da bambini si giocava ad indossare i vestiti e a calzare le scarpe degli adulti per provare a sentirsi grandi, in una dimensione che non ci apparteneva ma si ambiva di emulare. Il Carnevale è soprattutto la festa dei bambini che, più flessibili e capaci di adattarsi ad un’identità transitoria, mitica, gratificante, si  divertono nell’ incanto di un mondo in cui la fantasia può concretizzarsi nel reale. Da adulti si cede al disagio, almeno iniziale, di spogliarsi da maschere più concrete e apparentemente normali. Quelle che talvolta  si indossano per fingere compiacenza, sicurezza, serenità in funzione degli altri e dei propri ruoli. A volte è necessario, a volte è una menzogna recitata principalmente a se stessi. Nessun giudice è più equo della consapevolezza che si raggiunge quando si regge il proprio sguardo allo specchio, riuscendo a coglierne la trasparenza. Bagliori naturali e spontanei. Immunemente incondizionati e  originari. Spudoratamente autentici. Senza maschera.