‘A Bella ‘Mbriana

Una schiera di figure magiche, misteriose, presenze oscure o benevoli, tramandate tra storia e leggenda,  popola le credenze popolari napoletane come il  monaciello, che ricordo nuovamente, perché mi ha particolarmente incuriosita. “ ‘O munaciello ( piccolo monaco) è uno spiritello irrequieto, irriverente e beffardo che  si nasconde, appare o si fa solo sentire, ride e diverte, piange e immalinconisce. Un piccolo e bizzarro folletto che  fa sparire oggetti o li fa cadere di mano, disturba il sonno del malcapitato o lo fa inciampare, inaridisce le piante, inacidisce il vino, spaventa gli animali, innervosisce i bambini, provoca sbalzi d’umore nelle fanciulle e pensieri vogliosi nel coniuge. Spesso è dispettoso come un bambino capriccioso, talvolta aiuta l’infelice o il bisognoso. Pare che abbia in simpatia le donne, le belle donne, alle quali lascia ricompense o regali. Animella vagante, triste e rabbiosa, divertente e spiritosa, è di buon augurio se indossa un cappuccio rosso, preannuncia mala sorte se invece ha un cappuccio nero.” (da “Lu munaciello”  in skipblog.it)

mbrianaAl dispettoso monaciello si contrappone una  figura affascinante  che vive  nell’immaginario collettivo dei napoletani: ‘a bella ‘Mbriana. La bell’ Ambriana è il più potente spirito benevolo, invisibile eppure sempre presente, che protegge la casa e i suoi abitanti  che le si rivolgono con fiducia e deferenza perché porta fortuna, un po’ come gli antichi Lari e i Penati divinità minori dell’antichità. È un nume tutelare che sceglie la casa in cui vivere e resta solo se vi trova accoglienza, rispetto, pulizia  altrimenti diventa irascibile, si allontana e se offesa, per esempio  da un trasloco o dai lavori di ristrutturazione da lei non voluti, può provocare la morte di un membro della famiglia. Insomma una fata nascosta, ora generosa e protettiva, ora altera e vendicativa nel caso di un torto subito. Non a caso tempo fa, quando si entrava   per la prima volta in una nuova abitazione si diceva “Bonasera, bella ’Mbriana”, qualcuno le lasciava dolci sul tavolo e comunque sempre una sedia libera, a volte un posto a tavola, un saluto ogni qualvolta si entrava o si usciva dalle tipiche  case antiche con ampie camere, corridoi, stanzini, terrazzini e mezzanini. Di solito è rappresentata come una donna piacente  oppure in  una statuetta di terracotta bifronte che da una parte mostra il volto velato di donna, dall’altro un fallo che simboleggia benessere e prosperità ( spesso in epoca romana lo si trovava anche negli affreschi e mosaici all’ingresso delle ville patrizie come amuleto contro l’ invidia e il malocchio) da nascondere  in un angolo della casa, se non addirittura murare durante la sua costruzione.

finestra2Ambriana deriva dal latino Meridiana (‘ Mmeriana), che indica l’ora più luminosa del giorno. Si crede, anzi si percepisce lievemente la sua presenza nella controra, cioè durante le prime e calde ore del pomeriggio, in un refolo d’aria  che smuove appena le tende o la si vede nel riverbero di una finestra o in una leggiadra farfalla. Da meridiana si pensa che derivi anche il termine napoletano maréa che indica l’ombra umana, che può offrire sollievo ma anche indicare l’inconsistenza  eterea della creatura. L’ombra trae origine anche da una leggenda che narra di una principessa che, in seguito alla morte di un prode e giovane innamorato, iniziò a vagare  come un’ombra  senza pace per la città. Il re, suo padre,  per proteggere la figlia ricompensava in forma  anonima coloro che la accoglievano e le offrivano un riparo sicuro nella loro casa. In conclusione la credenza nei fantasmi è costante in tutti i popoli e in epoche diverse, quindi la bella ‘Mbriana vive nell’intimità delle case per esorcizzare le paure e la precarietà dell’esistenza laddove ci sono malesseri e vi si radica con una presenza discreta finché può.

“Bonasera bella ‘mbriana mia
cca’ nisciuno te votta fora
bonasera bella ‘mbriana mia
rieste appiso a ‘nu filo d’oro,
bonasera aspettanno
‘o tiempo asciutto,
bonasera a chi torna a casa
co core rutto.”

(da “Bella ‘Mbriana” di Pino Daniele)

Le anime pezzentelle del Cimitero delle Fontanelle di Napoli

Il Miglio Sacro è un itinerario restituito alla città di Napoli che parte dalle antiche catacombe di San Gennaro e arriva alla Cappella del Tesoro di San Gennaro  attraversando tutto  il Rione Sanità, un quartiere che può riscattarsi con  la storia millenaria di  un patrimonio artistico ed archeologico  poco reclamizzato.  Questa zona si può considerare la culla del culto dei morti, celebrato e consacrato attraverso funzioni, devozioni e rituali  che fondono religione e magia. Qui sorsero la necropoli greca,  in origine fuori dalle mura della città,  le catacombe paleocristiane ed infine, in una cava di tufo, l’immenso ossario del cimitero delle Fontanelle che di recente è stato riaperto.  

Tra il Seicento e il Settecento la cava fu utilizzata come cimitero per i poveri e soprattutto per le vittime della peste del 1656 che  a Napoli aveva causato circa 300000  morti e non pochi problemi di igiene  e di reperimento di spazi sufficientemente capienti per seppellirli, anche perché le catacombe avevano già accolto le vittime dell’epidemia del 1479.  Come riferisce il canonico Andrea De Jorio, verso la fine del Settecento persone abbienti chiedevano di essere sepolte nelle chiese ma, a funerali avvenuti, di notte i becchini trasportavano le salme nelle cave inutilizzate per evitare sovraffollamento nelle chiese.

Dopo un allagamento della cava, che  portò in superficie le capuzzelle ( piccole teste, cioè i teschi) in uno scenario apocalittico, le ossa vi  furono ricomposte e  furono  costruiti un muro e un altare nell’antro, riconosciuto ormai come ossario della città. In seguito all’editto napoleonico di Saint Cloud del 1804, che vietò le sepolture nelle città e nei luoghi pubblici, nell’ossario furono raccolti anche i resti umani  rinvenuti nelle terre sante delle tante chiese napoletane o durante gli scavi archeologici , come in Via Acton nei pressi del Maschio Angioino,oltre  le vittime del colera del 1836. Sono visibili decine di migliaia di  teschi e ossa lunghe ad eccezione delle due salme intatte e  vestite di Filippo Carafa, conte di Cerreto e di Maddaloni, e di sua moglie Margherita.

Alla fine dell’Ottocento padre Gaetano Barbati coordinò alcuni devoti per  riordinare le ossa in cataste e fece costruire la sobria chiesa di Maria Santissima del Carmine  nel sito delle Fontanelle.  Da allora sorse uno spontaneo e particolare culto popolare per gli ignoti defunti, che consisteva nell’adozione delle anime pezzentelle del Purgatorio, bisognose di cure e preghiere, in cambio di grazie e favori. Questo culto, ancor oggi limitatamente praticato, è una porta rituale tra il mondo dei vivi e dei morti: i morti chiedono ai vivi una preghiera  e i vivi, perlopiù donne, si rivolgono alle anime abbandonate che fanno da tramite tra la vita terrena e quella ultraterrena. Il limite tra la fede – tradizioni popolari e la superstizione è sottile, ma i devoti sentono più vicini a loro le anime pezzentelle di umili origini nelle quali ritrovano comuni miserie, sofferenze e solitudini.     L’adottante sceglieva  una capuzzella, la puliva e la lucidava, la poneva  su un fazzoletto ricamato ed infine, durante visite periodiche, le offriva lumini, fiori e preghiere “A refrische ‘e ll’anime d’o priatorio”.  Poi la circondava con un rosario e la adagiava su un cuscino, ornato di pizzi e ricami . Solo dopo questo rituale  pare che l’anima purgante apparisse in sogno , richiedendo “refrisco” ( cioè preghiere e cure per essere sollevata dalla sofferenza) e svelando la sua storia personale. Se la capuzzella iniziava a sudare, significava che si stava adoprando per intercessioni a favore del devoto o per concedergli la grazia . In realtà l’alto tasso di umidità della cava ancor oggi  provoca  la formazione di gocce di condensa sui teschi, facendoli sembrare sudati. A questo punto l’animella entrava a fare parte della famiglia e  veniva custodita in un tempietto di marmo o di legno, in una teca di vetro, a volte pure in una semplice scatola metallica di biscotti , sui quali si incidevano  il nome dell’adottante  e l’anno di ricevimento della  grazia. Se però non venivano esaudite le richieste, quali guarigioni, matrimoni,vincite al lotto, il devoto poteva rimpiazzare  la capuzzella con un’altra,  nella speranza che si rivelasse più benevola. Se il teschio non sudava, significava che l’anima pezzentella era in uno stato di sofferenza ed  impossibilitata ad elargire grazie, quindi bisognava confidare in entità celesti più potenti. Nel 1969 il cardinale di Napoli Ursi  vietò come pagana e superstiziosa questa forma di devozione, frutto della religiosità popolare.

 

Gli oltre 40000 resti, sistemati nei lunghi corridoi del cimitero delle Fontanelle, a volte formano macabre strutture come quella del Tribunale e della Biblioteca. Quest’ultima ricorda gli scaffali di una libreria,  formati da teschi e ossa lunghe, ben allineate e calcificate, che incorniciano l’edicola del  Sacro Cuore di Gesù. Inquietante è il Tribunale  con le sue tre croci su un Golgota di teschi, dinanzi al quale- così pare-  i camorristi  convenivano per lugubri rituali di affiliazione. Un’aria decisamente sinistra ha invece  il Monacone, la statua decapitata di San Vincenzo Ferrer.

L’anima purgante più famosa delle Fontanelle è il Capitano, probabilmente spagnolo, che ha aiutato molti devoti . Esistono varie leggende sul Capitano ma la più nota riguarda due sposi. Si narra di una giovane promessa sposa che venerava molto quest’anima pezzentella. Il suo fidanzato, ritenendo che le cure prestate ad ignote ossa fossero inutili, un  giorno accompagnò la futura consorte nell’ossario per veder da vicino il teschio. Infilò un bastone nella sua cavità orbitale e con modi provocatoriamente scherzosi lo invitò al matrimonio. Il giorno delle nozze  tra gli invitati comparve un carabiniere che nessuno conosceva . Quando lo sposo gli chiese da chi fosse stato invitato, questi rispose che proprio lui l’aveva fatto e, aprendo la divisa, si mostrò in tutta la sua nudità scheletrica  provocando la morte di crepacuore dei due sposi. La leggenda vuole che i resti degli sposi siano conservati presso la statua di Gaetano Barbati, mentre si pensa che essi siano stati dipinti sulle pareti delle catacombe di san Gaudioso. Non oso immaginare cosa sia potuto succedere nell’aldilà all’arrivo della promessa e mancata sposa che deve avere fatto una bella sfuriata sia al fantasma del Capitano che allo sprezzante fidanzato.  

Altra anima pezzentella , per la quale si nutre particolare devozione, è  la sposa Lucia, morta in naufragio col suo sposo o travolta da un’onda mentre lo attendeva su una scogliera. La sua capuzzella è ornata di velo nuziale ed omaggiata di  fiori, lumini e suppliche scritte. Si trova però in via dei Tribunali, precisamente nella  chiesa delle Anime del Purgatorio ad Arco, dall’ inconfondibile facciata barocca, realizzata da Cosimo Fanzago, adorna di  teschi e femori di bronzo. La Chiesa, comunemente detta d’e cape ‘e morte o d’e capuzzelle fu costruita nel 1638 ad opera di una  congregazione di nobili che dal 1604 raccoglieva  fondi per la celebrazione di messe in suffragio alle anime del Purgatorio. Qui è esposta la tela  la “Madonna delle Anime Purganti” di Massimo Stanzione (nel 1635) . Quando la chiesa fu chiusa in seguito al terremoto del 1980, molti devoti chiesero di potere accedere all’ipogeo in quanto spesso chiamati in sogno dalle anime purganti  ma  poterono riprendere le visite soltanto nel 1992.

Questo culto così particolare non solo è una sorta di misericordiosa alleanza e complice intesa tra i poveri vivi e i poveri morti per un aiuto reciproco, ma anche  un’occasione per riflettere sull’aldilà attraverso  i teschi, simboli di contemplazione dei santi nelle  opere dei grandi autori, quali Caravaggio, Jusepe de Ribera, El Greco, Van Dick, Georges deLa Tour, Rembrandt.

Il culto delle anime pezzentelle approda alla consapevolezza che in fondo  “all’ àutro munno simm tutte eguale” e “Simm tutt cape ‘e  morte”, cioè che  “la morte è la completa uguaglianza degli ineguali”, è “una livella”  a detta di  Totò: ciò che era visibile e rilevante in vita diviene invisibile ed irrilevante nella  dimensione sospesa (“queste pagliacciate le fanno solo i vivi: noi siamo seri…apparteniamo alla morte”,  proclama l’ombra del netturbino a quella del marchese che disdegnava di essere sepolto accanto a lui) .

Napoli si legge anche  tra i vicoli , negli usi e costumi e in ciò che a prima vista non appare, come una metafora tra le righe. Visitare questi luoghi di culto popolare  consente di esplorare il mistero, ove si confondono riti sacri e profani, religione e magia. L’iniziale incredulità o scetticismo  svaniscono man mano che nel rituale delle anime pezzentelle si riconoscono un generale  bisogno di essere ascoltati per ricevere conforto e sollievo, di ascoltarsi nel raccoglimento di una preghiera, per gli altri e per se stessi, di trovare conferme di protezione nei meandri della fede o della suggestione superstiziosa. Alla sensazione di profanare l’intimità della morte subentra la pietosa accoglienza  del silenzio delle anime purganti e proprio nelle tenebre, percependo il destino dell’umanità  di sempre, si intravede una speranza di redenzione dei vivi e dei morti per scattare in avanti nella vita terrena e ultraterrena.

“Questo guazzabuglio di fede e di errore, di misticismo e di sensualità, questo culto esterno così pagano, questa idolatria, vi spaventano? Vi dolete di queste cose, degne dei selvaggi? E chi ha fatto nulla per la coscienza del popolo napoletano? Quali ammaestramenti, quali parole, quali esempi, si è pensato di dare a questa gente così espansiva, così facile a conquidere, così naturalmente entusiasta? In verità, dalla miseria profonda della sua vita reale, essa non ha avuto altro conforto che nelle illusioni della propria fantasia: e altro rifugio che in Dio.”

(Da “Il ventre di Napoli” di Matilde Serao)

 Articoli correlati:

Chiesa di San Giovanni a Carbonara, Napoli

L’incostante bellezza del rione Sanità: palazzo Sanfelice e palazzo dello Spagnolo

Rione Sanità- le catacombe di Napoli

 

Tra i demoni di ieri e di oggi nel presepe… e non solo.

 

“Certo l’immaginario popolare napoletano è ricchissimo di aneddoti”, nota Roberto De Simone. “Si vuole che sulla Terra, nel periodo da Santa Lucia all’Epifania, oltre ai santi ci siano esseri demoniaci che si tengono lontani con l’incenso ed erbe pungenti.”

Il diavolo, simbolo del male e dell’imperfezione, apparteneva al presepe nello scenario di vita e morte, realtà e immaginazione, sacro e profano, religione e magia. Poi è scomparso insieme ad altre figure esoteriche e straordinarie cedendo il posto a derelitti, deformi e  mendicanti, riprodotti con estremo realismo nel  presepe del ‘600 . Il diavolo è il simbolo del malessere dell’anima, di una maligna forza sovrannaturale che svuota, ossessiona, acceca, immobilizza e soggioga  nel male e nel terrore.

 I demoni presenti in forma subdola nelle menti e nell’animo umano, hanno preso consistenza grazie alla maestria tecnica e alla creatività dei famosi Fratelli Scuotto che reinterpretano la tradizione in forme artistiche sempre nuove  e originali nella bottega “La Scarabattola” in via dei Tribunali, nel centro storico di Napoli.

 

Qui  pare quasi che le creature diaboliche si autocompiacciano  di essere ammirate nella loro mostruosità o ammaliante bellezza artistica, come per dire che bisogna temere ciò che è intangibile e invisibile e si insinua in forme più subdole.

Un girotondo di angeli dannati e beffardi ostenta sfacciatamente se stessa ed esula dalle figure stereotipate del presepe artigianale. Orride e fantastiche creature, a volte goffe, ambigue e  quasi ridicole, a volte sensuali, affascinanti e seducenti, spodestate dall’immaginario collettivo hanno preso forma grazie ai fratelli Scuotto. Non sembrano artefici di incubi, né di malefici, ma appaiono neutralizzate dalla loro visibilità rivelata, esorcizzate dall’ intrigante ed originale raffinatezza dell’opera d’arte.

 I demoni sono circondati  da un’umanità di sofferenti  ed esclusi,  ricreati in modo originale, vittime di pregiudizi, di imprudenza, di ingiustizie, di  paure come gli appestati, il femminiello, gli schiavi, i bambini rapiti da Maria a’ Manilonga, la suicida Mafalda, lo Zi Michele atterrito dal Lupo Mannaro. A loro si  contrappongono schiere di angeli, luminose  e dolci  Natività, e  sono arginati  dal capitone su meridiana, frazionato per  rompere la linearità del tempo con la speranza di arrestare gli eventi nefasti e rigenerare un tempo nuovo, più equo e giusto.

  

Eccone alcuni, esposti nella mostra “Tradizione in azione” del  2009.

Flagromor  è l’urlo di Satana, vive nel suo fiato e alimenta roghi blasfemi appiccati per riti pagani.

Bersyl  ha rughe incise dagli artigli del demonio per rubare la fiducia degli uomini in nome della saggezza.

 

 

 

Demorciso, plasmato da Lucifero nell’argilla, è l’immagine della vanità dell’uomo e si nasconde nei riflessi compiaciuti degli specchi. La sua esistenza è andata sparendo nell’inganno della bellezza effimera, che lo ha ridotto all’inconsistenza del suo stesso riflesso.

 

Gelfo 333, troppo curioso per scrutare nelle fiamme del male, ha scorso l’altra metà del tutto ove alberga il bene. Pertanto è stato punito da Satana che gli ha cavato un occhio.

Raptoreves: in inverno il demone bianco (nella prima foto del post) si allea con Satana per confondersi nel gelido freddo delle anime perse che hanno smarrito il calore della speranza.

A fine inverno gli subentra Lividus Gruneraptor (nella seconda foto del post), suo alter ego, che vive nelle ombre dei giorni estivi. Il demone nero segue le prede, fino al calar del sole, per trafugare i sogni dell’uomo fino a rubargli l’anima.

Questo percorso d’arte tra tradizione e contemporaneità, tracciato con genialità dai fratelli Scuotto, si riassume nella figura del Pulcibastiano,trafitto dai corni delle molteplici contraddizioni di una città dalle tante emergenze. Ha  un’espressione di sofferenza sul viso per le spine che si innestano sul suo tronco vitale. “Pulcinella è in scena come ortodossa maschera di napoletanità e anche come emblema di cambiamento.” (Salvatore Scuotto).

Esprime “Il cruento trapasso dallo stadio di superstizione a quello di super azione e martirio. Necessario dolore pagato al miracolo della rinascita urgente e inevitabile come la muta di un serpente che vuole crescere.” 

La sua visione, all’interno della sala,  mi fu  anticipata da un piccolo Pulcinella coricato sulla luna sul pozzo del cortile di San Lorenzo, uno dei  complessi conventuali più importanti del Medioevo napoletano. Abbracciato alla sua malinconia, sembrava avvilito, stanco, inerte. La luna si frapponeva alla demoniaca Maria ‘a Manilonga che dagli abissi continua nel nostro immaginario ad allungare gli artigli per rapire bambini imprudenti. La luna piena lo sostiene ancor oggi,  gli dona  un’aura quasi surreale, sospesa tra il passato, presente e futuro delle tradizioni e della cultura napoletana, che compensano una napoletanità a volte colpevole, ma il più delle volte bistrattata da altri mali. La luna indica trasformazione, crescita, rinnovamento ciclico e fa sperare che trasmetta energia a Pulcinella perché torni ad essere  burlone, scanzonato, vitale, malandrino senza dovere più vendere l’anima al diavolo del facile compromesso e dell’illecito.

Se il piccolo Pulcinella, di ieri e di oggi, crea l’attesa di una nuova risata e suscita qualche profonda emozione, significa che vive ancora in tanti. Come la voglia di rialzarsi e riscattarsi.

 

La storia infinita del presepe napoletano: i tetri personaggi del presepe, ormai scomparsi.

 Nel  Complesso Monumentale di San Lorenzo Maggiore in Piazza San Gaetano a Napoli ( nei pressi di San Gregorio Armeno, sede delle botteghe degli artigiani del presepe), nel dicembre del 2009 ebbi l’occasione di visitare l’interessantissima mostra “Tradizione in azione- un percorso d’arte tra tradizione e contemporaneità”,  realizzata dai fratelli Scuotto, dalla quale ho molto appreso sulla storia e sull’arte del presepe.

Da anni i fratelli Scuotto trasformano l’artigianato in arte pura.  Ideatori e creatori della bottega “La Scarabattola” e dell’Associazione culturale EsseArte, dal 1996 svolgono un lavoro curato, ironico, fedele alla tradizione ma altamente innovativo dell’arte presepiale che, sin dal ‘700, da semplice espressione folkloristica di successo del popolo si elevò a raffinata espressione culturale di Napoli. Documentandosi sui testi “Il Presepe popolare napoletano” e “Le storie e i racconti dei dodici giorni di Natale” del Maestro Roberto De Simone, hanno  scoperto che il presepe nasconde dei simboli straordinari, esoterici e interessanti. 

De Simone  ha recuperato e riproposto  il patrimonio culturale, teatrale e musicale della tradizione popolare campana, riscoprendo e diffondendo anche la tradizione napoletana del Natale. “…La tradizione come scrigno della memoria, ma anche specchio che riflette in modo oggettivo le mutevolezze della nostra identità nel sovrapporsi delle epoche…. il Natale ha  origini arcaiche risalente a  epoche antecedenti e pagane. Timorosi per il futuro, buio e spoglio paventato dall’inverno, i popoli primitivi esorcizzavano le loro paure con rituali propiziatori al ritorno della luce e del calore oppure, più tardi, alla rottura simbolica del tempo con la speranza di arrestare gli eventi nefasti e rigenerare un tempo nuovo, più equo e giusto. Di questo si può intravedere qualche traccia,ormai sbiadita, nell’usanza di tagliare a pezzi il capitone o l’anguilla e nel consumo dei tipici struffoli o del susamiello , dalla caratteristica forma serpentina. (Roberto De Simone:  da “Personaggi di terrore, demoniaci e magico religiosi della tradizione natalizia meridionale-2008)

 Il presepe è quindi la rappresentazione tangibile e visibile della tradizione, non solo come devozione per il Salvatore , ma anche come espressione di tutti i simboli del codice onirico della tradizione (quali il ponte, il pozzo, la fontana, il mulino, il fiume, l’osteria)  vissuti da personaggi tipici di leggende, credenze,superstizioni popolari in una commistione di sacro e profano, magia e religione.                                

Tra i personaggi del presepe napoletano c’erano figure un po’ tetre, alcune demoniache, ritenute depositarie di messaggi terrificanti e perciò, probabilmente, pian piano sono scomparse ma sopravvivono nella costante presenza del pozzo, del ponte e dell’acqua. 

Tra questi personaggi, grazie ai fratelli Scuotto, rivive la mostruosa Maria ‘a Manilonga: nell’Avellinese i bambini devono stare lontani dai pozzi nelle sere delle festività natalizie perchè Maria, essere demoniaco, li cattura (Roberto De Simone) trascinandoli nelle profondità delle acque sotterranee, negli Inferi. Il pozzo rappresenta gli abissi e quindi la comunicazione col mondo dei morti.

Forse non a caso, già nell’intuizione popolare, alla Madonna si contrapponeva  Maria ‘a Manilonga che potrebbero essere  aspetti dell’ambivalente  sentimento materno di madre-matrigna, amore e odio originato dalla doppia e conflittuale soggettività delle madri, il cui figlio vive e si nutre del loro sacrificio. Un sentimento naturale- come sostiene  Umberto Galimberti in “ I miti del nostro tempo” ed. Feltrinelli- sempre esistito, testimoniato dalla mitica Medea, e sempre ripudiato con terrore collettivo  perché intacca la sacralità della vita. L’abisso della solitudine può  trasformare la madre in matrigna con potere di vita ma anche di morte quando quel figlio è troppo distante dai suoi desideri e sogni.

 

 

Mamma Sirena: è il personaggio di una favola che narra di un giovane  pastore che,  lungo la riva del mare, intonava  un canto per favorire il ritorno della sorella dagli abissi marini in cui era tenuta prigioniera. Le pecorelle, mangiando le perle che cadevano dai capelli della fanciulla, acquistavano poteri vaticinanti, svelavano arcani misteri e davano infallibili oracoli.

 

 

Il ponte dei carmelitani: in riferimento al segno del  ponte a Grottaglie e a Napoli, nel giorno dell’Epifania il presepe si arricchiva di una scena singolare. Vale a dire che lì, dove è situato un ponte tra due dirupi, si collocavano dodici figurine di monaci scalzi ed incappucciati, che si rifanno alla Madonna del Carmelo, che è appunto la Madonna delle anime del Purgatorio. Mostravano il pollice della mano sinistra fiammeggiante: essi rappresentavano i mesi morti o i dodici giorni del periodo natalizio che, al seguito dei Magi, ritornavano nell’aldilà .

 

 Il ponte consente il  transito tra il mondo dei vivi e quello dei morti . È un  luogo di manifestazioni magico-fantastiche, rappresentate per esempio dal lupo Mannaro e da Mafalda.

A mezzanotte meno dieci Zi Michele procedeva col suo carretto  in direzione di un crocevia e , da lontano,scorse una strana figura. Giunto al crocevia non lo vide più. Esclamò “Mamma mia, l’ho visto un momento fa. Ma sto sognando, o che mi sta succedendo? ” Non appena attraversò il crocevia, gli si presentò il mostro, il famigerato lupo Mannaro.

Sotto il ponte invece compariva,  in veste di  monaca, il fantasma di Mafalda o, per alcuni  della Principessa Cicinelli, che appartiene alla tradizione campana e pugliese. Suo  padre le  aveva vietato di vedere il paggio di cui si era innamorata  e voleva che si ritirasse in convento. “Quando giunse la sventurata giovane, raccolse piangendo il capo mozzo del suo amato , lo depose nella bisaccia e si trafisse con lo stesso pugnale che il padre aveva lasciato per terra.” (Roberto De Simone).

 Ecco sul ponte il tempo che passa, sotto il mondo dei morti con Mafalda in basso a sinistra.

La tradizione riproposta  con un linguaggio artistico libero, come deve essere sempre l’arte, (Salvatore Scuotto) rivive nella passione artistica  e nella creatività dei fratelli Scuotto.

 

Articoli correlati:

A Eduardo direi: “Sì mi piace il presepe”

Simbolismo del presepe: luoghi e personaggi

 

Lu munaciello

‘O munaciello ( piccolo monaco) è uno spiritello irrequieto, irriverente e beffardo che  si nasconde, appare o si fa solo sentire, ride e diverte, piange e immalinconisce. Un piccolo e bizzarro folletto che  fa sparire oggetti o li fa cadere di mano, disturba il sonno del malcapitato o lo fa inciampare, inaridisce le piante, inacidisce il vino, spaventa gli animali, innervosisce i bambini, provoca sbalzi d’umore nelle fanciulle e pensieri vogliosi nel coniuge. Spesso è dispettoso come un bambino capriccioso, talvolta aiuta l’infelice o il bisognoso. Pare che abbia in simpatia le donne, le belle donne, alle quali lascia ricompense o regali. Animella vagante, triste e rabbiosa, divertente e spiritosa, è di buon augurio se indossa un cappuccio rosso, preannuncia mala sorte se invece ha un cappuccio nero.                                  

Una schiera di creature misteriose, magiche e soprannaturali  popola  caverne, foreste, montagne, pianure, campi, stagni e fiumi nelle tante leggende europee e in quelle delle nostre regioni italiane ( in Puglia un personaggio simile è detto scazzambrèidde, a Potenza ‘u munaciedd, in Basilicata  monacchicchi, in Calabria augurielli o fuddettu, in Sicilia spiritu ‘nfullettu, in Veneto mazacal, in Toscana linchetto, in Emilia Romagna barabanen, in Piemonte sarvanot, nelle Marche mazamuriello).

 

 

Il monaciello appartiene invece alla tradizione napoletana: la sua esistenza è stata tramandata tra storia e leggenda, come racconta  Matilde Serao in “Leggende napoletane” precisando che “ il discernere cose vere dalle false, lo speculare quale sia la favola, quale verità, lo lascio e lo raccomando alla prudenza ed alla saggezza del lettore”. 

 

La quale istoria fu così. Nell’anno 1445 dalla fruttifera Incarnazione, regnando Alfonso d’Aragona, una fanciulla a nome Caterina Frezza, figlia di un mercante di panni, si innamorò di un nobile garzone, Stefano Mariconda. E com’è usanza d’amore, il garzone la ricambiò di grandissimo affetto e di rado fu vista coppia d’amanti egualmente innamorata e fedele. E ciò non senza molto loro cordoglio, poiché per la disparità delle nascite che proibiva loro il nodo coniugale, grande guerra ferveva in casa Mariconda contro Stefano – ela Catarinella, in casa sua, era con ogni sorta di tormenti dal padre e dai fratelli torturata. Ma per tanto e continuo dolore, che si può dire mangiassero veleno e bevessero lagrime, avevano ore di gioia inestimabile. A tarda notte, quando nei chiassuoli dei mercanti non compariva viandante veruno, Stefano Mariconda avvolto dal bruno mantello, che mai sempre protesse ladri ed amanti, penetrava in andito nero ed angusto, saliva per una scala fangosa e dirupata, dove era facile il pericolo della rottura del collo, si trovava sopra un tetto e di là scavalcando, terrazzo per terrazzo, con una sveltezza ed una sicurezza che amore rinforzava, arrivava sul terrazzino dove lo aspettava, tremante dalla paura, Catarinella Frezza. Lettor mio, se mai fremesti d’amore, immagina quei momenti e non chiederne descrizione alla debole penna. Ma in una notte profonda, quando più alle anime loro si schiudeva la celestiale beatitudine del paradiso, mani traditrici e borghesi afferrarono Stefano alle spalle, e togliendogli ogni difesa, dalla ferriata lo precipitarono nella via, mentre Catarinella gridando e torcendosi le braccia, s’aggrappava ai panni degli assassini. Il bel corpo di Stefano Maricorda giacque, orribilmente sfracellato, nella fetida via per una notte ed un giorno: fino a che lo raccolse di là la pietà dei parenti, dandogli onorata sepoltura. Ma invero fu quella morte ignobilmente violenta; e perché vi è dubbio sul destino di quell’anima, strappata dalla terra e mandata innanzi all’Eterno carica di peccati, e perché a gentiluomo non conviensi altra morte violenta che di spada.

 La Catarinella fuggì di casa, pazza di dolore, e fu piamente ricoverata in un monastero di monachelle. In un giorno, quando ancora il tempo assegnato dalla ragion divina e dalla ragion medica non era scorso, ella dette alla luce un bimbo piccino piccino, pallido e dagli occhi sgomentati. Per pietà di quel piccolo essere, le suore lasciarono la madre a nutrirlo e curarlo. Ma col tempo che passava, non cresceva molto il bambino e la madre, cui rimaneva confitta nella mente la bella ed aitante persona di Stefano Maricorda, se ne crucciava. Le suore la consigliarono di votarsi alla Madonna perché desse una fiorente salute al bambino; ed ella votossi e fece indossare al bimbo un abito nero e bianco da piccolo monaco. Ma ben altro aveva disposto il Signore nella sua infinita saggezza ela Catarinella non s’ebbe la grazia chiesta.

Il figliuoletto suo, crescendo negli anni, non crebbe che pochissimo nel corpo e fu simile a quei graziosi nani di cui si allietano molte corti di sovrani potenti. Sibbene ella continuò a vestirlo da piccolo monaco; onde è che la gente chiamava in suo volgare il bambino; ‘o munaciello. Le monache lo amavano, ma la gente della via, ma i bottegai delle strade Armieri, Lanzieri, Cortellari, Taffettanari, Mercanti, si mostravano a dito il bambino troppo piccolo, dalla testa troppo grande e quasi mostruosa, dal volto terreo in cui gli occhi apparivano anche più grandi, anche più spaventati, dall’abituccio strano: e talvolta lo ingiuravano, come fa spesso la plebe contro persona debole ed inerme. Quando ‘o munaciello passava innanzi la bottega dei Frezza, zii e cugini uscivano sulla soglia e gli scagliavano le imprecazioni più orribili. Non è dato a me indagare quanto comprendesse ‘o munaciello degli sgarbi e delle disoneste parole che gli venivano dirette, ma è certo che egli riedeva alla madre triste e melanconico. A volte un lampo di collera gli balenava negli occhi e allora la madre lo faceva inginocchiare e gli dettava le sante parole dell’orazione. A poco a poco in quei bassi quartieri dove egli muoveva i passi, si divulgò la voce che ‘o munaciello avesse in sé qualche cosa di magico, di soprannaturale. Ad incontrarlo, la gente si segnava e mormorava parole di scongiuro. Quando ‘o munaciello portava il cappuccetto rosso che la madre gli aveva tagliato in un pezzetto di lana porpora, allora era buon augurio; ma quando il cappuccetto era nero, allora cattivo augurio. Ma come il cappuccetto rosso compariva molto raramente, ‘o munaciello era bestemmiato e maledetto.

Era lui che attirava l’aria mefitica nei quartieri bassi, che vi portava la febbre e la malsania; lui che, guardando nei pozzi, guastava e faceva imputridire l’acqua, lui che toccando i cani li faceva arrabbiare, lui che portava la mala fortuna nei negozi ed il caro del pane, lui che, spirito maligno, suggeriva al re nuovi balzelli. Appena ‘o munaciello scantonava, a capo basso, con l’occhio diffidente e pauroso, correndo o nascondendosi fra la folla, un coro di maledizioni lo colpiva. Il fango della via gli scagliavano a insudiciargli la tonacella; le bucce delle frutte troppo mature lo ferivano nel volto. egli fuggiva, senza parlare, arrotando i denti, tormentato più dall’impotenza della piccola persona che dal villano insulto di quella borghesia. Catarinella Frezza era morta; non lo poteva consolar più. Le monache lo impiegavano ai minuti servizi dell’orto; ma, anche esse, a vederlo d’improvviso, in un corridoio, nella penombra, si sgomentavano come per apparizione diabolica. S’avvalorava il detto della faccia cupa del munaciello, dal non averlo mai visto in chiesa, dal trovarlo in tutti i luoghi a poca distanza di tempo. Finché una sera ‘o munaciello scomparve. Non mancò chi disse che il diavolo lo avesse portato via pei capelli, come è solito per ogni anima a lui venduta. Ma per fede onesta di cronista, mi è d’uopo aggiungere che furono molto sospettati, e forse non a torto, i Frezza d’aver malamente strangolato ‘o munaciello e gittatolo in una cloaca lì presso, da certe ossa piccine e da un teschio grande che vi fu trovato. Il discernere le cose vere dalle false, e lo speculare quale sia favola, quale verità, lascio e raccomando specialmente alla prudenza e saggezza del lettore.

 Questa qui è la cronaca. Ma nulla è finito – soggiungo io, oscuro commentatore moderno – con la morte del munaciello. Anzitutto è ricominciato. La borghesia che vive nelle strade strette e buie e malinconicamente larghe senza orizzonte, che ignora l’alba, che ignora il tramonto, che ignora il mare, che non sa nulla del cielo, nulla della poesia, nulla dell’arte; questa borghesia che non conosce, che non conosce se stessa, quadrata, piatta, scialba, grassa, pesante, gonfia di vanità, gonfia di nullaggine; questa borghesia che non ha, non può avere, non avrà mai il dono celeste della fantasia, ha il suo folletto. Non è lo gnomo che danza sull’erba molle dei prati, non è lo spiritello che canta sulla riva del fiume; è il maligno folletto delle vecchie case di Napoli, è ‘o munaciello. Non abita i quartieri aristocratici di Chiaia, di S. Ferdinando, del Chiatamone, di Toledo; non abita i quartieri nuovi di Mergellina, Rione Amedeo, Corso Salvator Rosa, Capodimonte: la parte ariosa, luminosa, linda della città non gli appartiene. Ma per i vicoli che da Toledo portano giù, per le tetre vie dei Tribunali e della Sapienza, per la triste strada di Foria, per i quartieri cupi e bassi di Vicaria, Mercato, Porto e Pendino il folletto borghese estende l’incontrastato suo regno.

Dove è stato vivo, s’aggira come spirito; dove è apparso il suo corpo piccino, la testa grossa, la faccia pallida, i grandi occhi lucenti, la tonacella nera, la pazienza di lana bianca ed il cappuccetto nero, lì ricomparve; nella medesima parvenza, pel terrore delle donne, dei fanciulli e degli uomini. Dove lo hanno fatto soffrire, anima sconosciuta e forse grande in un corpo rattrappito, debole e malaticcio, là egli ritorna, spirito malizioso e maligno, nel desiderio di una lunga e insaziabile vendetta. Egli si vendica epicamente, tormentando coloro che lo hanno tormentato. Chiedete ad un vecchio, ad una fanciulla, ad una madre, ad un uomo, ad un bambino se veramente questo munaciello esiste e scorrazza per le case, e vi faranno un brutto volto, come lo farebbero a chi offende la fede. Se volete sentirne delle storie, ne sentirete; se volete averne dei documenti autentici, ne avrete. Di tutto è capace il munaciello…

 Quando la buona massaia trova la porta della dispensa spalancata, la vescica dello strutto sfondata, il vaso dell’olio riverso e il prosciutto addentato dalla gatta, è senza dubbio la malizia del munaciello che ha schiusa quella porta e scagionato il disastro. Quando alla serva sbadata cade di mano il vassoio ed i bicchieri vanno in mille pezzi, colui che l’ha fatta incespicare è proprio lui, lo spiritello impertinente; è lui che urta il gomito della fanciulla borghese che lavora all’uncinetto e le fa pungere il dito; è lui che fa traboccare il brodo dalla pentola ed il caffè dalla cogoma; è lui che fa inacidire il vino dalle bottiglie; è lui che dà la iettatura alle galline che ammiseriscono e muoiono; è lui che pianta il prezzemolo, fa ingiallire la maggiorana e rosicchia le radici del basilico. Se la vendita in bottega va male, se il superiore dell’uffizio fa una rimenata, se un matrimonio stabilito si disfà, se uno zio ricco muore lasciando tutto alla parrocchia, se al lotto vien fuori 34, 62, 87 invece di 35, 61,88, è la mano diabolica del folletto che ha preparato queste sventure grandi e piccole.

Quando il bambino grida, piange, non vuole andare a scuola, scalpita, corre, salta sui mobili, rompe i vetri e si graffia le ginocchia, è il munaciello che gli mette i diavoli in corpo; quando la fanciulla diventa pallida e rossa senza ragione, s’immalinconisce, sorride guardando le stelle, sospira guardando la luna, e piange nelle tranquille notti di autunno, è il munaciello che le guasta così la vita; quando il giovanotto compra cravatte irresistibili, mette il profumo nel fazzoletto, e si fa arricciare i capelli, rincasa a tarda notte, col volto pallido e stanco, gli occhi pieni di visioni, l’aspetto trasognato, è il munaciello che turba la sua esistenza; quando la moglie fedele si ferma a guardar troppo il profilo aquilino ed i mustacchi biondi del primo commesso di suo marito e, nelle fredde notti invernali, veglia con gli occhi aperti nel vuoto e le labbra che invano tentano mormorare la salvatrice Avemmaria, è il munaciello che la tenta, è il diavolo che ha preso la forma del munaciello, è il diavoletto che dà al marito il vago desiderio di dare un pizzicotto alla serva MariaFrancesca; è il folletto che fa cadere in convulsioni le zitellone. È il munaciello che scombussola la casa, disordina i mobili, turba i cuori, scompiglia le menti, empiendole di paura. È lui, lo spirito tormentato e tormentatore, che porta il tumulto nella sua tonacella nera, la rovina nel suo cappuccetto nero.

Ma la cronaca veridica lo dice, o buon lettore: quando il munaciello portava il cappuccetto rosso, la sua venuta era di buon augurio. È per questa sua strana mescolanza di bene e di male, di cattiveria e di bontà, che il munaciello è rispettato, temuto ed amato. È per questo che le fanciulle innamorate si mettono sotto la sua protezione perché non venga scoperto il gentile segreto; è per questo che le zitellone lo invocano a mezzanotte, fuori il balcone, per nove giorni, perché mandi loro il marito che si fa tanto aspettare; è per questo che il disperato giuocatore di lotto gli fa scongiuro tre volte, per averne i numeri sicuri; è per questo che i bambini gli parlano, dicendogli di portar loro i dolci e di balocchi che desiderano.

 La casa dove il munaciello è apparso è guardata con diffidenza, ma non senza soddisfazione; la persona che, allucinata, ha visto il folletto, è guardata compassionevolamente, ma non senza invidia. Ma colei che lo ha visto – apparisce per lo più a fanciulle ed a bimbi – tiene per sé il prezioso segreto, forse apportatore di fortuna. Infine il folletto della leggenda rassomiglia al munaciello della cronaca napoletana: è, vale a dire, un’anima ignota, grande e sofferente in un corpo bizzarramente piccolo, in un abito stranamente piccolo, in un abito stranamente simbolico; un’anima umana, dolente e rabbiosa; un’anima che ha un pianto e fa piangere; che ha sorriso e fa sorridere; un bimbo che gli uomini hanno torturato ed ucciso come un uomo; un folletto che tormenta gli uomini come un bambino capriccioso, e li carezza, e li consola come un bambino ingenuo ed innocente.