Le janare

Sin dalla notte dei tempi nei boschi più nascosti dell’Irpinia e nella Campania più segreta dell’immaginario popolare vivono creature malefiche, di cui sentivo raccontare durante la mia infanzia: streghe, janare e lupi mannari. In particolare mi incuriosivano le janare, che poi in età più tarda scoprii come perfide artefici di malocchi, malefici, filtri magici e di terrificanti sabba orgiastici  intorno a un grande noce presso il fiume Sabato nel beneventano, che trae origine dai rituali longobardi per il dio Wotan. Secondo versioni più soft della tradizione popolare a volte erano donne anziane che ben conoscevano le  proprietà terapeutiche delle erbe e sapevano trovare rimedi a sofferenze di vario genere e antidoti a occulte fatture, ma in seguito furono demonizzate e perseguitate.

Noce_di_BeneventoIntanto  c’è differenza tra streghe e janare:  la strega  è una figura letteraria già presente nelle opere di Ovidio e Plinio, il cui nome deriva da strix (strige), essere notturno alato che si nutriva del sangue dei bambini e richiamava  i demoni  femminili che svolazzavano nell’antica  mitologia mesopotamica.

Invece la janara ha origine da credenze popolari. Il suo nome deriva dal latino ianua (porta), cioè l’uscio di casa che bisognava proteggere con sale o scope per impedirle di entrare, perché non avrebbe resistito alla tentazione di contare i grani di sale o i fili della scopa di saggina, intrattenendosi fino alle prime luci del giorno che l’avrebbero messa in fuga. Secondo un’altra versione etimologica janara deriva da dianara, seguace della dea  Diana, che richiama la terribile Ecate, dea degli Inferi, e in Irpinia prima la Dea Madre e poi Iside. A lei erano devote  “donne depravate, rivolte a satana, e sviate da illusioni e seduzioni diaboliche, che credono e affermano di cavalcare la notte alcune bestie al seguito di Diana, dea dei pagani e di un’innumerevole moltitudine di donne”. Quindi da un mondo fantastico e irreale le streghe  approdarono nella tradizione, ove sconfinano leggende e  superstizioni che ne confermavano l’esistenza reale,  e così da semplici conoscitrici dei segreti delle erbe le janare diventarono creature malefiche possedute dal demonio, solitarie e sterili, che per invidia si accanivano soprattutto sui bambini, rubavano giumente per cavalcarle di notte fino a sfinirle e ne intrecciavano le criniere, facevano fatture che rendevano impotenti o facevano deperire i malcapitati, si sdraiavano sul petto di giovani dormienti impedendo di respirare o provocando improvvisi e agitati risvegli. Si ungevano di una pozione che le rendeva invisibili e, quando all’improvviso di notte si alzava il vento, si credeva che stessero volando a frotte verso il noce. Venivano catturate solo se afferrate per i lunghi capelli e garantivano protezione a chi le liberava e ai suoi discendenti.

Oggi, non a caso in periodo natalizio, vi narro un racconto irpino sulla janara.

“Chi nasce nella notte di Natale, nasce maledetto (perché non può offuscare la nascita del Figlio di Dio). Se è maschio diventa lupo mannaro, se femmina invece janara per tutta la vita. Di giorno la janara è una donna come le altre, solo più irascibile e aggressiva, ma di notte va girando per le case a fare dispetti ai bambini: capovolge le culle, rapisce i neonati e li mette sotto la cenere o li storpia…Una volta una janara bussò  alla porta della casa di una donna incinta, che stava cucinando: “Mi dai un po’ di lardo?” chiese.“Va’ a zappà” le rispose la donna, sbattendole la porta in faccia. Di conseguenza quella le scagliò contro una terribile maledizione: “Possa tu generare  un bambino che non crescerà più di un palmo!”

Dopo qualche mese, la donna  mise al mondo un neonato davvero brutto e piccolo. Con il passare del tempo il bambino non cresceva, né diventava più bello. Ogni sera la janara, volando come un uccello, entrava nella camera e lo storpiava, rendendolo sempre più brutto e deforme. La madre  non sapeva più a quale santo votarsi perché a quattro anni il bambino era ancora piccolo come quando era nato. Un giorno andò a farle visita una comare. Mentre varcava l’uscio di casa, lei vide entrare dalla finestra un uccello e s’insospettì. Corse nella camera del bambino e lo trovò in una bottiglia. Disse quindi alla mamma: “Qua c’è la magia di una janara, cha ha mali pensieri per la testa”. E le diede alcuni consigli.  A dicembre, nel giorno della festa della Madonna, la donna prese un pezzo di formaggio e lo cucì nella piega della veste. Alla vigilia di Natale, dopo la messa cantata, lasciò uscire dalla chiesa tutte le persone, finché rimase solo lei che si guardava intorno  e scorse  una donna  che cercava di nascondersi. Era la janara che subito le andò vicino e le disse: “Non dire a nessuno chi sono. Ti prometto di fare la comare (madrina) del bambino quando si cresimerà”. La janara fu di parola: cresimò il  bambino che da quel giorno  iniziò a crescere tanto che divenne  il giovane più bello e forte di tutti gli altri.” (da “Nella terra delle janare. Viaggio nell’Irpinia segreta, tra leggende, magia e misteri” di Antonio Emanuele Piedimonte)

 

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Virgilio Mago e poeta

 

Virgilio Mago e poeta

Storia  e leggenda avvolge la vita di Publio Virgilio Marone a Napoli, il poeta latino che tra sacro e profano fu  amato come Virgilio Mago  dal popolo e dai notabili, da Posillipo fino al centro della città partenopea. Al Medioevo  si fa risalire la credenza popolare di  Virgilio stregone buono, più comunemente ritenuto uomo saggio, in grado di proteggere e aiutare la città con talismani, sortilegi e incantesimi avendo  ereditato poteri dagli dei, per cui si pensa  che nel XII secolo a  Napoli fossero ancora vive credenze pagane.

SAM_2404Egli frequentò a Napoli la scuola di Sirone, aderì poi al neopitagorismo, studiò quindi la  natura  e  si avvicinò al culto di Cerere e Proserpina. Pare che poi  fosse riuscito ad appropriarsi di un libro di negromanzia  dalla tomba del filosofo Chironte , in una città sotterranea all’interno del monte Barbaro situata tra Baia e il lago d’Averno,  addentrandosi nei  misteri di vita e morte, riuscendo ad apprendere le scienze occulte, i rituali magici per effettuare guarigioni ed  esorcizzare gli spiriti malvagi, difendere la città e provvedere ai suoi bisogni . Addirittura fece i primi esperimenti di magia a Roma  per cui fu imprigionato per ordine dell’imperatore Augusto, ma con i compagni di ventura  magicamente  volò via su una barca che aveva disegnato sul muro esterno della prigione, giungendo in Puglia e proseguendo poi per Napoli. Da allora divenne un personaggio leggendario, caro all’ immaginario popolare che lo rese quasi  immortale perché  di fatto  il ritrovamento o la traslazione dei suoi resti sono ancora incerti.

La storia di Virgilio Mago per certi aspetti s’ incrocia con il mito della sirena Parthenope, entrambi protagonisti delle “Leggende napoletane” di Matilde Serao. Napoli, o meglio, l’antica Neapolis  fu voluta da Parthenope e nacque proprio dal suo amore  per Cimone. Il corpo esanime della sirena  si arenò a Megaride, una piccola isola a sé fino al IX sec. a. C.  che poi  fu collegata alla terraferma e divenne sede del  Castel dell’ Ovo durante la dominazione normanna del XII secolo.  Nei sotterranei del castello ci sono i ruderi della sfarzosa villa del patrizio romano  Lucullo (Castrum Lucullarum) , ove soggiornò Virgilio dal 45 al 29 a.C. che in quella quieta bellezza trovò l’ispirazione per scrivere le Bucoliche e quattro libri delle Georgiche e sperimentare le sue arti magiche. “Dopo la poesia di Parthenope, semidia, creatrice, sorge la poesia di Virgilio, creatore, semidio. Noi conosciamo Virgilio, il grande maestro di Dante, ma conosciamo poco di Virgilio Mago….Noi siamo ingrati verso colui che esclama:  Illo Virgilium me tempore dulcis alebat Parthenope…Egli era  giovane, bello, alto della persona, eretto nel busto, ma camminava con la testa curva e mormorando certe sue frasi, in un linguaggio strano che niuno poteva comprendere. Egli abitava sulla sponda del mare dove s’incurva il colle di Posillipo, ma errava ogni giorno nelle campagne che menano a Baia ed a Cuma ; egli errava per le colline che circondano Parthenope, fissando, nella notte, le lucide stelle e parlando loro il suo singolare linguaggio; egli errava sulle sponde del  mare, per la via Platamonia, tendendo l’orecchio all’armonia delle onde, quasi  che elle dicessero a lui solo parole misteriose. Onde fu detto Mago e molti furono i miracoli della sua magia”.

Probabilmente egli entrò in contatto con gli eremiti e i monaci alchimisti, che vivevano a Megaride,  e tra scienza e leggenda a lui  si riconduce la storia medioevale  dell’uovo che,  deposto in una caraffa di vetro racchiusa a sua volta in una gabbietta,  fu murato nelle fondamenta del castello che  appunto  prese il nome di “  castello  dell’ Ovo” e dal quale dipendevano le sorti dell’isola e dell’intera città, che  sarebbero andate in rovina se si fosse rotto. L’uovo era un simbolo noto agli alchimisti, ai filosofi, e soprattutto agli studiosi di esoterismo in quanto comprensivo di due forme perfette cioè del triangolo che rappresenta il divino e la vita, e del cerchio che la protegge.  L’uovo cosmico crea, dà origine alla vita e non a caso ricorre anche  nel mito di Parthenope e nella nascita di Pulcinella. Quando nel  1370 una violenta  tormenta  inondò le prigioni del castello ove era rinchiuso il condottiero  Ambrogio Visconti che in quell’ occasione pensò di evadere rompendo  la caraffa  dell’uovo durante la sua precipitosa fuga nei sotterranei,  franò  proprio l’ala  del castello ove era nascosto l’uovo e i generali timori dei napoletani si placarono solo quando  la regina Giovanna ne fece ricollocare un altro onde evitare nuove sciagure alla città. 

SAM_2418Tanti altri furono i prodigi e le magie di Virgilio: la mosca d’oro , cui insufflò la vita  per distruggere quelle che invasero la città, la guarigione dei cavalli di Augusto da un morbo sconosciuto, la scoperta  di un’acqua miracolosa, la pietra magica che rese pescoso il mare di Napoli, la  sanguisuga  d’oro per bonificare i pozzi  malsani, il  cambio di direzione di un vento troppo caldo, l’invenzione di  un alfabeto magico, la coltivazione di  un giardino di piante medicinali ai piedi di Montevergine e sulla collina di Posillipo, l’uccisione del serpente che aveva divorato tanti bambini del Pendino, la costruzione dei bagni termali a Baia e della lunga  galleria  della Crypta Neapolitana, opera di leggendari demoni notturni che collegava Neapolis con i porti flegrei e divenne sede di rituali orgiastici.

 

Virgilio  morì a Brindisi il 19 a. C e da sempre si crede che le sue spoglie siano nel colombario di età romana del parco Vergiliano, vicino alla Crypta neapolitana. Forse più probabilmente l’imperatore Augusto, protettore del poeta, gli fece erigere un monumento presso la villa di Vedio Pollione che poi fu  distrutto dal mare. Per altre fonti  i resti del poeta andarono persi  nel Medioevo, secondo altre il re Roberto d’Angiò nel 1326 li fece traslare o murare  nel castel dell’Ovo. Per il  grammatico Elio  Donato la tomba si trovava lungo la via Puteolana, che portava a Pozzuoli, a due miglia dalla città, per  lo storico Julius Beloch invece sarebbe nel tempio dedicato al poeta nel boschetto della villa nella  Riviera di Chiaia, per  altri ancora le due miglia porterebbero verso il Vesuvio, esattamente a san Giovanni a Teduccio.

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 Il culto di Virgilio nel mausoleo del Parco Vergiliano nell’area archeologica di Piedigrotta risale al Trecento. Visitata da personaggi illustri, letterati e potenti signori di ogni epoca storica,  citata da  Alessandro Dumas , che nel 1835 era a Napoli e  dal suo albergo SAM_2425vedeva il sepolcro, e dal marchese De Sade che la visitò nel 1776, di fronte all’entrata  pare ci fosse una lapide, posta dai padri lateranensi della vicina badia di Santa Maria di Piedi grotta nel 1554, con l’iscrizione che fuga ogni perplessità : “QUAE CINERIS TUMULO HOC VESTIGIA CONDITUR. OLIM ILLE HOC QUI.CECINIT PASCUA RURA DUCES… (Quali ceneri? Queste sono le vestigia del tumulo. Fu sepolto qui colui che cantò i pascoli, i campi, i condottieri”) e ne seguì un’altra “Che importa che il tumulo è crollato, che l’urna è rotta? Il nome stesso del poeta basterà a fare celebrare il luogo”. All’ interno del tempietto una stele di marmo posta da Eischoff, il bibliotecario della regina di Francia,  recita l’epitaffio che Virgilio scrisse prima di morire perché fosse inciso sulla sua tomba:

“MANTUA ME GENUIT, CALABRI  RAPUERE,TENET NUNC  PARTHENOPE: CECINI PASCUA RURA DUCES  (Mantova mi generò, la Calabria mi rapì, ora mi tiene Napoli: cantai i pascoli, le campagne gli eroi).

In effetti questo antico colombario romano è per tutti la tomba del poeta Virgilio, anche se si dubita della presenza delle sue ceneri; dubbio mai realmente accertato né fugato. Il mausoleo fu visitato dai grandi della letteratura quali  Dante, Petrarca, Boccaccio e infine da  Leopardi, ignaro che avrebbe riposato vicino a Virgilio.  

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SAM_2405Dapprima affascinato dalla bellezza mozzafiato dei luoghi e del mare, Leopardi  divenne insofferente di quella città che suscitava contrastanti emozioni con le sue innumerevoli contraddizioni, da amare nella sua vitalità, da odiare nelle sue insidie e nell’ invadente e fastidiosa confusione. Nel 1934 fu eretto un imponente monumento al poeta di Recanati proprio nel parco di Piedigrotta, vicino alla galleria di Fuorigrotta e alla stazione di Mergellina, in un angolo  nascosto e immerso  nel verde che rivedo ancora in un’atmosfera quasi surreale  di una calda e silenziosa mattina di agosto  provando  nuovamente  una sorta di muto timore, rispetto reverenziale per quei due grandi della poesia, commossa soggezione   di fronte ai loro mausolei e nel ricordo di alcuni versi, patrimonio universale e immortale. Che importa che il tumulo è crollato, che l’urna è rotta?

“Non vi è che un solo Virgilio: quello che la favolosa cronaca delinea nelle ombre della magia, è proprio il poeta. Invero egli non ha avuto che una magia sola: la grandiosa poesia del suo spirito. Nella cronaca è il poeta….È il poeta  che cerca ed interroga ogni angolo oscuro della natura, è lui che parla alle stelle tremolanti di raggi nelle notti estive, è lui che ascolta il ritmo del mare, quasi fosse il metro per cui il suo verso scandisce… Virgilio mago è Virgilio poeta. E nulla si sa della sua morte. Come Parthenope, la donna, egli scompare. Il poeta non muore.” Del resto anche “ Parthenope non ha tomba, Parthenope non è morta. Ella vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni. Ella corre ancora sui poggi, ella erra sulla spiaggia, ella si affaccia al vulcano, ella si smarrisce nelle vallate. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori: è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene; è lei che rende irresistibile il profumo dell’arancio; è lei che fa fosforeggiare il mare… È lei che fa impazzire la città: è lei che la fa languire ed impallidire di amore: è lei la fa contorcere di passione nelle giornate violente dell’agosto. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non ha tomba, è immortale, è l’amore. Napoli è la città dell’amore.” (da “Leggende napoletane” di Matilde Serao)

Una città dall’ apparenza ora oziosa e  solenne, ora sfacciata e volgare, da scoprire  con diverse e contrastanti letture delle  sue storie appassionate, vere e mitiche, dolci e  tormentate, ironiche e drammatiche, vissute e interpretate, custodite nella memoria di altre generazioni, dimenticate da quelle più recenti. Storie sull’ origine e sulla fine, esorcizzate dalle credenze popolari, da una  devozione superstiziosa, da rituali tramandati pigramente, come alibi poco convincenti ai quali poi si finisce col credere quasi per inerzia. Storie troppo straordinarie per essere credibili, unicamente napoletane.

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‘A Bella ‘Mbriana

Una schiera di figure magiche, misteriose, presenze oscure o benevoli, tramandate tra storia e leggenda,  popola le credenze popolari napoletane come il  monaciello, che ricordo nuovamente, perché mi ha particolarmente incuriosita. “ ‘O munaciello ( piccolo monaco) è uno spiritello irrequieto, irriverente e beffardo che  si nasconde, appare o si fa solo sentire, ride e diverte, piange e immalinconisce. Un piccolo e bizzarro folletto che  fa sparire oggetti o li fa cadere di mano, disturba il sonno del malcapitato o lo fa inciampare, inaridisce le piante, inacidisce il vino, spaventa gli animali, innervosisce i bambini, provoca sbalzi d’umore nelle fanciulle e pensieri vogliosi nel coniuge. Spesso è dispettoso come un bambino capriccioso, talvolta aiuta l’infelice o il bisognoso. Pare che abbia in simpatia le donne, le belle donne, alle quali lascia ricompense o regali. Animella vagante, triste e rabbiosa, divertente e spiritosa, è di buon augurio se indossa un cappuccio rosso, preannuncia mala sorte se invece ha un cappuccio nero.” (da “Lu munaciello”  in skipblog.it)

mbrianaAl dispettoso monaciello si contrappone una  figura affascinante  che vive  nell’immaginario collettivo dei napoletani: ‘a bella ‘Mbriana. La bell’ Ambriana è il più potente spirito benevolo, invisibile eppure sempre presente, che protegge la casa e i suoi abitanti  che le si rivolgono con fiducia e deferenza perché porta fortuna, un po’ come gli antichi Lari e i Penati divinità minori dell’antichità. È un nume tutelare che sceglie la casa in cui vivere e resta solo se vi trova accoglienza, rispetto, pulizia  altrimenti diventa irascibile, si allontana e se offesa, per esempio  da un trasloco o dai lavori di ristrutturazione da lei non voluti, può provocare la morte di un membro della famiglia. Insomma una fata nascosta, ora generosa e protettiva, ora altera e vendicativa nel caso di un torto subito. Non a caso tempo fa, quando si entrava   per la prima volta in una nuova abitazione si diceva “Bonasera, bella ’Mbriana”, qualcuno le lasciava dolci sul tavolo e comunque sempre una sedia libera, a volte un posto a tavola, un saluto ogni qualvolta si entrava o si usciva dalle tipiche  case antiche con ampie camere, corridoi, stanzini, terrazzini e mezzanini. Di solito è rappresentata come una donna piacente  oppure in  una statuetta di terracotta bifronte che da una parte mostra il volto velato di donna, dall’altro un fallo che simboleggia benessere e prosperità ( spesso in epoca romana lo si trovava anche negli affreschi e mosaici all’ingresso delle ville patrizie come amuleto contro l’ invidia e il malocchio) da nascondere  in un angolo della casa, se non addirittura murare durante la sua costruzione.

finestra2Ambriana deriva dal latino Meridiana (‘ Mmeriana), che indica l’ora più luminosa del giorno. Si crede, anzi si percepisce lievemente la sua presenza nella controra, cioè durante le prime e calde ore del pomeriggio, in un refolo d’aria  che smuove appena le tende o la si vede nel riverbero di una finestra o in una leggiadra farfalla. Da meridiana si pensa che derivi anche il termine napoletano maréa che indica l’ombra umana, che può offrire sollievo ma anche indicare l’inconsistenza  eterea della creatura. L’ombra trae origine anche da una leggenda che narra di una principessa che, in seguito alla morte di un prode e giovane innamorato, iniziò a vagare  come un’ombra  senza pace per la città. Il re, suo padre,  per proteggere la figlia ricompensava in forma  anonima coloro che la accoglievano e le offrivano un riparo sicuro nella loro casa. In conclusione la credenza nei fantasmi è costante in tutti i popoli e in epoche diverse, quindi la bella ‘Mbriana vive nell’intimità delle case per esorcizzare le paure e la precarietà dell’esistenza laddove ci sono malesseri e vi si radica con una presenza discreta finché può.

“Bonasera bella ‘mbriana mia
cca’ nisciuno te votta fora
bonasera bella ‘mbriana mia
rieste appiso a ‘nu filo d’oro,
bonasera aspettanno
‘o tiempo asciutto,
bonasera a chi torna a casa
co core rutto.”

(da “Bella ‘Mbriana” di Pino Daniele)

La notte di San Giovanni

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La notte di San Giovanni  è nota per gli antichi riti propiziatori di inizio stagione che si svolgevano  in occasione del solstizio d’estate al quale veniva attribuiva il connubio di sole e luna e il conseguente riversamento sulla terra di grandi energie benefiche. Nella stessa  notte  però  le streghe (in napoletano dette anche janare da ianua- porta-  perché passavano invisibilmente sotto le porte oppure da Diana) confluivano a Benevento  da ogni parte per il grande Sabba. Le forze del bene e del male festeggiavano rispettivamente la  luce e l’ ombra  del ciclo della vita,  intersecandosi in antiche credenze popolari e tradizioni della civiltà contadina.

 La  rugiada di questa magica notte difendeva la persona da ogni male e corruzione e le  erbe bagnate dalla rugiada potenziavano le loro proprietà terapeutiche e magiche. Infatti veniva  preparata l’acqua di San Giovanni utilizzando  foglie e fiori di lavanda, iperico mentuccia, ruta e rosmarino che, messi  in un catino pieno d’acqua, erano lasciati all’aperto per tutta la notte. Il giorno dopo le  donne si lavavano con quest’acqua per diventare più belle e preservarsi dalle malattie. Oltre all’acqua si ricorreva  al fuoco, accendendo falò propiziatori e purificatori, per ingraziarsi la benevolenza del sole affinchè rallentasse idealmente  la discesa e continuasse ad irrorare la terra con la sua energia o per allontanare malasorte, avversità, malefici di spiriti maligni e streghe vaganti in cerca di erbe ( spesso si bruciava  un fantoccio di paglia o si facevano  rotolare ruote di fascine lungo i pendii). Nella mattina del 24 giugno i contadini, che possedevano  alberi di noce, intrecciavano spighe di orzo e avena da legare ai tronchi degli alberi per poter garantirsi frutti buoni e  abbondanti. Invece   24 spighe di grano, conservate per tutto l’anno, fungevano   da amuleto contro le avversità.

 Tutt’oggi a San Giovanni si prepara il nocino con noci,  racchiuse nel mallo verde, messe a macerare nell’alcool per circa un mese e mezzo. Poi si strizzano i frutti, si cambia e si zucchera l’alcool, che viene travasato in bottiglioni esposti all’aperto, dopo essere stato filtrato più volte con garze sottili. 

 In  questa notte si svolgevano  anche forme di divinazione. Per esempio dall’albume d’uovo, coperto d’acqua ed esposto alla rugiada della notte, si traevano auspici sul futuro, anche sentimentale, o dalla forma che assumeva il  piombo fuso e versato nell’acqua, si facevano  previsioni  sul mestiere del futuro marito. E altri riti praticati nella “notte che  parla d’Amore”sono splendidamente descritti dalla Placida Signora del web.

 Una curiosità: a San Giovanni molti mangiano le lumache, per preservarsi  dalla sfortuna e eventuali tradimenti amorosi. La lumaca è considerata un simbolo lunare  di rigenerazione periodica, rappresentata dalle  sue antenne  che si distendono e si ritirano come la luna che appare e scompare nel suo ciclo.

 Ma preferisco ricordare la notte di San Giovanni con  i versi  tratti da Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare

 La tua virtù è la mia sicurezza. 

E allora non è notte se ti guardo in volto,
e perciò non mi par di andar nel buio,
e nel bosco non manco compagnia.
Perchè per me tu sei l’intero mondo.
E come posso dire di esser sola se tutto il mondo è qui che mi contempla?

 

Intanto auguri a tutti i Giovanni e Giovanne e attenzione alle streghe!  😉

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La storia infinita del presepe napoletano: i tetri personaggi del presepe, ormai scomparsi.

 Nel  Complesso Monumentale di San Lorenzo Maggiore in Piazza San Gaetano a Napoli ( nei pressi di San Gregorio Armeno, sede delle botteghe degli artigiani del presepe), nel dicembre del 2009 ebbi l’occasione di visitare l’interessantissima mostra “Tradizione in azione- un percorso d’arte tra tradizione e contemporaneità”,  realizzata dai fratelli Scuotto, dalla quale ho molto appreso sulla storia e sull’arte del presepe.

Da anni i fratelli Scuotto trasformano l’artigianato in arte pura.  Ideatori e creatori della bottega “La Scarabattola” e dell’Associazione culturale EsseArte, dal 1996 svolgono un lavoro curato, ironico, fedele alla tradizione ma altamente innovativo dell’arte presepiale che, sin dal ‘700, da semplice espressione folkloristica di successo del popolo si elevò a raffinata espressione culturale di Napoli. Documentandosi sui testi “Il Presepe popolare napoletano” e “Le storie e i racconti dei dodici giorni di Natale” del Maestro Roberto De Simone, hanno  scoperto che il presepe nasconde dei simboli straordinari, esoterici e interessanti. 

De Simone  ha recuperato e riproposto  il patrimonio culturale, teatrale e musicale della tradizione popolare campana, riscoprendo e diffondendo anche la tradizione napoletana del Natale. “…La tradizione come scrigno della memoria, ma anche specchio che riflette in modo oggettivo le mutevolezze della nostra identità nel sovrapporsi delle epoche…. il Natale ha  origini arcaiche risalente a  epoche antecedenti e pagane. Timorosi per il futuro, buio e spoglio paventato dall’inverno, i popoli primitivi esorcizzavano le loro paure con rituali propiziatori al ritorno della luce e del calore oppure, più tardi, alla rottura simbolica del tempo con la speranza di arrestare gli eventi nefasti e rigenerare un tempo nuovo, più equo e giusto. Di questo si può intravedere qualche traccia,ormai sbiadita, nell’usanza di tagliare a pezzi il capitone o l’anguilla e nel consumo dei tipici struffoli o del susamiello , dalla caratteristica forma serpentina. (Roberto De Simone:  da “Personaggi di terrore, demoniaci e magico religiosi della tradizione natalizia meridionale-2008)

 Il presepe è quindi la rappresentazione tangibile e visibile della tradizione, non solo come devozione per il Salvatore , ma anche come espressione di tutti i simboli del codice onirico della tradizione (quali il ponte, il pozzo, la fontana, il mulino, il fiume, l’osteria)  vissuti da personaggi tipici di leggende, credenze,superstizioni popolari in una commistione di sacro e profano, magia e religione.                                

Tra i personaggi del presepe napoletano c’erano figure un po’ tetre, alcune demoniache, ritenute depositarie di messaggi terrificanti e perciò, probabilmente, pian piano sono scomparse ma sopravvivono nella costante presenza del pozzo, del ponte e dell’acqua. 

Tra questi personaggi, grazie ai fratelli Scuotto, rivive la mostruosa Maria ‘a Manilonga: nell’Avellinese i bambini devono stare lontani dai pozzi nelle sere delle festività natalizie perchè Maria, essere demoniaco, li cattura (Roberto De Simone) trascinandoli nelle profondità delle acque sotterranee, negli Inferi. Il pozzo rappresenta gli abissi e quindi la comunicazione col mondo dei morti.

Forse non a caso, già nell’intuizione popolare, alla Madonna si contrapponeva  Maria ‘a Manilonga che potrebbero essere  aspetti dell’ambivalente  sentimento materno di madre-matrigna, amore e odio originato dalla doppia e conflittuale soggettività delle madri, il cui figlio vive e si nutre del loro sacrificio. Un sentimento naturale- come sostiene  Umberto Galimberti in “ I miti del nostro tempo” ed. Feltrinelli- sempre esistito, testimoniato dalla mitica Medea, e sempre ripudiato con terrore collettivo  perché intacca la sacralità della vita. L’abisso della solitudine può  trasformare la madre in matrigna con potere di vita ma anche di morte quando quel figlio è troppo distante dai suoi desideri e sogni.

 

 

Mamma Sirena: è il personaggio di una favola che narra di un giovane  pastore che,  lungo la riva del mare, intonava  un canto per favorire il ritorno della sorella dagli abissi marini in cui era tenuta prigioniera. Le pecorelle, mangiando le perle che cadevano dai capelli della fanciulla, acquistavano poteri vaticinanti, svelavano arcani misteri e davano infallibili oracoli.

 

 

Il ponte dei carmelitani: in riferimento al segno del  ponte a Grottaglie e a Napoli, nel giorno dell’Epifania il presepe si arricchiva di una scena singolare. Vale a dire che lì, dove è situato un ponte tra due dirupi, si collocavano dodici figurine di monaci scalzi ed incappucciati, che si rifanno alla Madonna del Carmelo, che è appunto la Madonna delle anime del Purgatorio. Mostravano il pollice della mano sinistra fiammeggiante: essi rappresentavano i mesi morti o i dodici giorni del periodo natalizio che, al seguito dei Magi, ritornavano nell’aldilà .

 

 Il ponte consente il  transito tra il mondo dei vivi e quello dei morti . È un  luogo di manifestazioni magico-fantastiche, rappresentate per esempio dal lupo Mannaro e da Mafalda.

A mezzanotte meno dieci Zi Michele procedeva col suo carretto  in direzione di un crocevia e , da lontano,scorse una strana figura. Giunto al crocevia non lo vide più. Esclamò “Mamma mia, l’ho visto un momento fa. Ma sto sognando, o che mi sta succedendo? ” Non appena attraversò il crocevia, gli si presentò il mostro, il famigerato lupo Mannaro.

Sotto il ponte invece compariva,  in veste di  monaca, il fantasma di Mafalda o, per alcuni  della Principessa Cicinelli, che appartiene alla tradizione campana e pugliese. Suo  padre le  aveva vietato di vedere il paggio di cui si era innamorata  e voleva che si ritirasse in convento. “Quando giunse la sventurata giovane, raccolse piangendo il capo mozzo del suo amato , lo depose nella bisaccia e si trafisse con lo stesso pugnale che il padre aveva lasciato per terra.” (Roberto De Simone).

 Ecco sul ponte il tempo che passa, sotto il mondo dei morti con Mafalda in basso a sinistra.

La tradizione riproposta  con un linguaggio artistico libero, come deve essere sempre l’arte, (Salvatore Scuotto) rivive nella passione artistica  e nella creatività dei fratelli Scuotto.

 

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Lu munaciello

‘O munaciello ( piccolo monaco) è uno spiritello irrequieto, irriverente e beffardo che  si nasconde, appare o si fa solo sentire, ride e diverte, piange e immalinconisce. Un piccolo e bizzarro folletto che  fa sparire oggetti o li fa cadere di mano, disturba il sonno del malcapitato o lo fa inciampare, inaridisce le piante, inacidisce il vino, spaventa gli animali, innervosisce i bambini, provoca sbalzi d’umore nelle fanciulle e pensieri vogliosi nel coniuge. Spesso è dispettoso come un bambino capriccioso, talvolta aiuta l’infelice o il bisognoso. Pare che abbia in simpatia le donne, le belle donne, alle quali lascia ricompense o regali. Animella vagante, triste e rabbiosa, divertente e spiritosa, è di buon augurio se indossa un cappuccio rosso, preannuncia mala sorte se invece ha un cappuccio nero.                                  

Una schiera di creature misteriose, magiche e soprannaturali  popola  caverne, foreste, montagne, pianure, campi, stagni e fiumi nelle tante leggende europee e in quelle delle nostre regioni italiane ( in Puglia un personaggio simile è detto scazzambrèidde, a Potenza ‘u munaciedd, in Basilicata  monacchicchi, in Calabria augurielli o fuddettu, in Sicilia spiritu ‘nfullettu, in Veneto mazacal, in Toscana linchetto, in Emilia Romagna barabanen, in Piemonte sarvanot, nelle Marche mazamuriello).

 

 

Il monaciello appartiene invece alla tradizione napoletana: la sua esistenza è stata tramandata tra storia e leggenda, come racconta  Matilde Serao in “Leggende napoletane” precisando che “ il discernere cose vere dalle false, lo speculare quale sia la favola, quale verità, lo lascio e lo raccomando alla prudenza ed alla saggezza del lettore”. 

 

La quale istoria fu così. Nell’anno 1445 dalla fruttifera Incarnazione, regnando Alfonso d’Aragona, una fanciulla a nome Caterina Frezza, figlia di un mercante di panni, si innamorò di un nobile garzone, Stefano Mariconda. E com’è usanza d’amore, il garzone la ricambiò di grandissimo affetto e di rado fu vista coppia d’amanti egualmente innamorata e fedele. E ciò non senza molto loro cordoglio, poiché per la disparità delle nascite che proibiva loro il nodo coniugale, grande guerra ferveva in casa Mariconda contro Stefano – ela Catarinella, in casa sua, era con ogni sorta di tormenti dal padre e dai fratelli torturata. Ma per tanto e continuo dolore, che si può dire mangiassero veleno e bevessero lagrime, avevano ore di gioia inestimabile. A tarda notte, quando nei chiassuoli dei mercanti non compariva viandante veruno, Stefano Mariconda avvolto dal bruno mantello, che mai sempre protesse ladri ed amanti, penetrava in andito nero ed angusto, saliva per una scala fangosa e dirupata, dove era facile il pericolo della rottura del collo, si trovava sopra un tetto e di là scavalcando, terrazzo per terrazzo, con una sveltezza ed una sicurezza che amore rinforzava, arrivava sul terrazzino dove lo aspettava, tremante dalla paura, Catarinella Frezza. Lettor mio, se mai fremesti d’amore, immagina quei momenti e non chiederne descrizione alla debole penna. Ma in una notte profonda, quando più alle anime loro si schiudeva la celestiale beatitudine del paradiso, mani traditrici e borghesi afferrarono Stefano alle spalle, e togliendogli ogni difesa, dalla ferriata lo precipitarono nella via, mentre Catarinella gridando e torcendosi le braccia, s’aggrappava ai panni degli assassini. Il bel corpo di Stefano Maricorda giacque, orribilmente sfracellato, nella fetida via per una notte ed un giorno: fino a che lo raccolse di là la pietà dei parenti, dandogli onorata sepoltura. Ma invero fu quella morte ignobilmente violenta; e perché vi è dubbio sul destino di quell’anima, strappata dalla terra e mandata innanzi all’Eterno carica di peccati, e perché a gentiluomo non conviensi altra morte violenta che di spada.

 La Catarinella fuggì di casa, pazza di dolore, e fu piamente ricoverata in un monastero di monachelle. In un giorno, quando ancora il tempo assegnato dalla ragion divina e dalla ragion medica non era scorso, ella dette alla luce un bimbo piccino piccino, pallido e dagli occhi sgomentati. Per pietà di quel piccolo essere, le suore lasciarono la madre a nutrirlo e curarlo. Ma col tempo che passava, non cresceva molto il bambino e la madre, cui rimaneva confitta nella mente la bella ed aitante persona di Stefano Maricorda, se ne crucciava. Le suore la consigliarono di votarsi alla Madonna perché desse una fiorente salute al bambino; ed ella votossi e fece indossare al bimbo un abito nero e bianco da piccolo monaco. Ma ben altro aveva disposto il Signore nella sua infinita saggezza ela Catarinella non s’ebbe la grazia chiesta.

Il figliuoletto suo, crescendo negli anni, non crebbe che pochissimo nel corpo e fu simile a quei graziosi nani di cui si allietano molte corti di sovrani potenti. Sibbene ella continuò a vestirlo da piccolo monaco; onde è che la gente chiamava in suo volgare il bambino; ‘o munaciello. Le monache lo amavano, ma la gente della via, ma i bottegai delle strade Armieri, Lanzieri, Cortellari, Taffettanari, Mercanti, si mostravano a dito il bambino troppo piccolo, dalla testa troppo grande e quasi mostruosa, dal volto terreo in cui gli occhi apparivano anche più grandi, anche più spaventati, dall’abituccio strano: e talvolta lo ingiuravano, come fa spesso la plebe contro persona debole ed inerme. Quando ‘o munaciello passava innanzi la bottega dei Frezza, zii e cugini uscivano sulla soglia e gli scagliavano le imprecazioni più orribili. Non è dato a me indagare quanto comprendesse ‘o munaciello degli sgarbi e delle disoneste parole che gli venivano dirette, ma è certo che egli riedeva alla madre triste e melanconico. A volte un lampo di collera gli balenava negli occhi e allora la madre lo faceva inginocchiare e gli dettava le sante parole dell’orazione. A poco a poco in quei bassi quartieri dove egli muoveva i passi, si divulgò la voce che ‘o munaciello avesse in sé qualche cosa di magico, di soprannaturale. Ad incontrarlo, la gente si segnava e mormorava parole di scongiuro. Quando ‘o munaciello portava il cappuccetto rosso che la madre gli aveva tagliato in un pezzetto di lana porpora, allora era buon augurio; ma quando il cappuccetto era nero, allora cattivo augurio. Ma come il cappuccetto rosso compariva molto raramente, ‘o munaciello era bestemmiato e maledetto.

Era lui che attirava l’aria mefitica nei quartieri bassi, che vi portava la febbre e la malsania; lui che, guardando nei pozzi, guastava e faceva imputridire l’acqua, lui che toccando i cani li faceva arrabbiare, lui che portava la mala fortuna nei negozi ed il caro del pane, lui che, spirito maligno, suggeriva al re nuovi balzelli. Appena ‘o munaciello scantonava, a capo basso, con l’occhio diffidente e pauroso, correndo o nascondendosi fra la folla, un coro di maledizioni lo colpiva. Il fango della via gli scagliavano a insudiciargli la tonacella; le bucce delle frutte troppo mature lo ferivano nel volto. egli fuggiva, senza parlare, arrotando i denti, tormentato più dall’impotenza della piccola persona che dal villano insulto di quella borghesia. Catarinella Frezza era morta; non lo poteva consolar più. Le monache lo impiegavano ai minuti servizi dell’orto; ma, anche esse, a vederlo d’improvviso, in un corridoio, nella penombra, si sgomentavano come per apparizione diabolica. S’avvalorava il detto della faccia cupa del munaciello, dal non averlo mai visto in chiesa, dal trovarlo in tutti i luoghi a poca distanza di tempo. Finché una sera ‘o munaciello scomparve. Non mancò chi disse che il diavolo lo avesse portato via pei capelli, come è solito per ogni anima a lui venduta. Ma per fede onesta di cronista, mi è d’uopo aggiungere che furono molto sospettati, e forse non a torto, i Frezza d’aver malamente strangolato ‘o munaciello e gittatolo in una cloaca lì presso, da certe ossa piccine e da un teschio grande che vi fu trovato. Il discernere le cose vere dalle false, e lo speculare quale sia favola, quale verità, lascio e raccomando specialmente alla prudenza e saggezza del lettore.

 Questa qui è la cronaca. Ma nulla è finito – soggiungo io, oscuro commentatore moderno – con la morte del munaciello. Anzitutto è ricominciato. La borghesia che vive nelle strade strette e buie e malinconicamente larghe senza orizzonte, che ignora l’alba, che ignora il tramonto, che ignora il mare, che non sa nulla del cielo, nulla della poesia, nulla dell’arte; questa borghesia che non conosce, che non conosce se stessa, quadrata, piatta, scialba, grassa, pesante, gonfia di vanità, gonfia di nullaggine; questa borghesia che non ha, non può avere, non avrà mai il dono celeste della fantasia, ha il suo folletto. Non è lo gnomo che danza sull’erba molle dei prati, non è lo spiritello che canta sulla riva del fiume; è il maligno folletto delle vecchie case di Napoli, è ‘o munaciello. Non abita i quartieri aristocratici di Chiaia, di S. Ferdinando, del Chiatamone, di Toledo; non abita i quartieri nuovi di Mergellina, Rione Amedeo, Corso Salvator Rosa, Capodimonte: la parte ariosa, luminosa, linda della città non gli appartiene. Ma per i vicoli che da Toledo portano giù, per le tetre vie dei Tribunali e della Sapienza, per la triste strada di Foria, per i quartieri cupi e bassi di Vicaria, Mercato, Porto e Pendino il folletto borghese estende l’incontrastato suo regno.

Dove è stato vivo, s’aggira come spirito; dove è apparso il suo corpo piccino, la testa grossa, la faccia pallida, i grandi occhi lucenti, la tonacella nera, la pazienza di lana bianca ed il cappuccetto nero, lì ricomparve; nella medesima parvenza, pel terrore delle donne, dei fanciulli e degli uomini. Dove lo hanno fatto soffrire, anima sconosciuta e forse grande in un corpo rattrappito, debole e malaticcio, là egli ritorna, spirito malizioso e maligno, nel desiderio di una lunga e insaziabile vendetta. Egli si vendica epicamente, tormentando coloro che lo hanno tormentato. Chiedete ad un vecchio, ad una fanciulla, ad una madre, ad un uomo, ad un bambino se veramente questo munaciello esiste e scorrazza per le case, e vi faranno un brutto volto, come lo farebbero a chi offende la fede. Se volete sentirne delle storie, ne sentirete; se volete averne dei documenti autentici, ne avrete. Di tutto è capace il munaciello…

 Quando la buona massaia trova la porta della dispensa spalancata, la vescica dello strutto sfondata, il vaso dell’olio riverso e il prosciutto addentato dalla gatta, è senza dubbio la malizia del munaciello che ha schiusa quella porta e scagionato il disastro. Quando alla serva sbadata cade di mano il vassoio ed i bicchieri vanno in mille pezzi, colui che l’ha fatta incespicare è proprio lui, lo spiritello impertinente; è lui che urta il gomito della fanciulla borghese che lavora all’uncinetto e le fa pungere il dito; è lui che fa traboccare il brodo dalla pentola ed il caffè dalla cogoma; è lui che fa inacidire il vino dalle bottiglie; è lui che dà la iettatura alle galline che ammiseriscono e muoiono; è lui che pianta il prezzemolo, fa ingiallire la maggiorana e rosicchia le radici del basilico. Se la vendita in bottega va male, se il superiore dell’uffizio fa una rimenata, se un matrimonio stabilito si disfà, se uno zio ricco muore lasciando tutto alla parrocchia, se al lotto vien fuori 34, 62, 87 invece di 35, 61,88, è la mano diabolica del folletto che ha preparato queste sventure grandi e piccole.

Quando il bambino grida, piange, non vuole andare a scuola, scalpita, corre, salta sui mobili, rompe i vetri e si graffia le ginocchia, è il munaciello che gli mette i diavoli in corpo; quando la fanciulla diventa pallida e rossa senza ragione, s’immalinconisce, sorride guardando le stelle, sospira guardando la luna, e piange nelle tranquille notti di autunno, è il munaciello che le guasta così la vita; quando il giovanotto compra cravatte irresistibili, mette il profumo nel fazzoletto, e si fa arricciare i capelli, rincasa a tarda notte, col volto pallido e stanco, gli occhi pieni di visioni, l’aspetto trasognato, è il munaciello che turba la sua esistenza; quando la moglie fedele si ferma a guardar troppo il profilo aquilino ed i mustacchi biondi del primo commesso di suo marito e, nelle fredde notti invernali, veglia con gli occhi aperti nel vuoto e le labbra che invano tentano mormorare la salvatrice Avemmaria, è il munaciello che la tenta, è il diavolo che ha preso la forma del munaciello, è il diavoletto che dà al marito il vago desiderio di dare un pizzicotto alla serva MariaFrancesca; è il folletto che fa cadere in convulsioni le zitellone. È il munaciello che scombussola la casa, disordina i mobili, turba i cuori, scompiglia le menti, empiendole di paura. È lui, lo spirito tormentato e tormentatore, che porta il tumulto nella sua tonacella nera, la rovina nel suo cappuccetto nero.

Ma la cronaca veridica lo dice, o buon lettore: quando il munaciello portava il cappuccetto rosso, la sua venuta era di buon augurio. È per questa sua strana mescolanza di bene e di male, di cattiveria e di bontà, che il munaciello è rispettato, temuto ed amato. È per questo che le fanciulle innamorate si mettono sotto la sua protezione perché non venga scoperto il gentile segreto; è per questo che le zitellone lo invocano a mezzanotte, fuori il balcone, per nove giorni, perché mandi loro il marito che si fa tanto aspettare; è per questo che il disperato giuocatore di lotto gli fa scongiuro tre volte, per averne i numeri sicuri; è per questo che i bambini gli parlano, dicendogli di portar loro i dolci e di balocchi che desiderano.

 La casa dove il munaciello è apparso è guardata con diffidenza, ma non senza soddisfazione; la persona che, allucinata, ha visto il folletto, è guardata compassionevolamente, ma non senza invidia. Ma colei che lo ha visto – apparisce per lo più a fanciulle ed a bimbi – tiene per sé il prezioso segreto, forse apportatore di fortuna. Infine il folletto della leggenda rassomiglia al munaciello della cronaca napoletana: è, vale a dire, un’anima ignota, grande e sofferente in un corpo bizzarramente piccolo, in un abito stranamente piccolo, in un abito stranamente simbolico; un’anima umana, dolente e rabbiosa; un’anima che ha un pianto e fa piangere; che ha sorriso e fa sorridere; un bimbo che gli uomini hanno torturato ed ucciso come un uomo; un folletto che tormenta gli uomini come un bambino capriccioso, e li carezza, e li consola come un bambino ingenuo ed innocente.