Le janare

Sin dalla notte dei tempi nei boschi più nascosti dell’Irpinia e nella Campania più segreta dell’immaginario popolare vivono creature malefiche, di cui sentivo raccontare durante la mia infanzia: streghe, janare e lupi mannari. In particolare mi incuriosivano le janare, che poi in età più tarda scoprii come perfide artefici di malocchi, malefici, filtri magici e di terrificanti sabba orgiastici  intorno a un grande noce presso il fiume Sabato nel beneventano, che trae origine dai rituali longobardi per il dio Wotan. Secondo versioni più soft della tradizione popolare a volte erano donne anziane che ben conoscevano le  proprietà terapeutiche delle erbe e sapevano trovare rimedi a sofferenze di vario genere e antidoti a occulte fatture, ma in seguito furono demonizzate e perseguitate.

Noce_di_BeneventoIntanto  c’è differenza tra streghe e janare:  la strega  è una figura letteraria già presente nelle opere di Ovidio e Plinio, il cui nome deriva da strix (strige), essere notturno alato che si nutriva del sangue dei bambini e richiamava  i demoni  femminili che svolazzavano nell’antica  mitologia mesopotamica.

Invece la janara ha origine da credenze popolari. Il suo nome deriva dal latino ianua (porta), cioè l’uscio di casa che bisognava proteggere con sale o scope per impedirle di entrare, perché non avrebbe resistito alla tentazione di contare i grani di sale o i fili della scopa di saggina, intrattenendosi fino alle prime luci del giorno che l’avrebbero messa in fuga. Secondo un’altra versione etimologica janara deriva da dianara, seguace della dea  Diana, che richiama la terribile Ecate, dea degli Inferi, e in Irpinia prima la Dea Madre e poi Iside. A lei erano devote  “donne depravate, rivolte a satana, e sviate da illusioni e seduzioni diaboliche, che credono e affermano di cavalcare la notte alcune bestie al seguito di Diana, dea dei pagani e di un’innumerevole moltitudine di donne”. Quindi da un mondo fantastico e irreale le streghe  approdarono nella tradizione, ove sconfinano leggende e  superstizioni che ne confermavano l’esistenza reale,  e così da semplici conoscitrici dei segreti delle erbe le janare diventarono creature malefiche possedute dal demonio, solitarie e sterili, che per invidia si accanivano soprattutto sui bambini, rubavano giumente per cavalcarle di notte fino a sfinirle e ne intrecciavano le criniere, facevano fatture che rendevano impotenti o facevano deperire i malcapitati, si sdraiavano sul petto di giovani dormienti impedendo di respirare o provocando improvvisi e agitati risvegli. Si ungevano di una pozione che le rendeva invisibili e, quando all’improvviso di notte si alzava il vento, si credeva che stessero volando a frotte verso il noce. Venivano catturate solo se afferrate per i lunghi capelli e garantivano protezione a chi le liberava e ai suoi discendenti.

Oggi, non a caso in periodo natalizio, vi narro un racconto irpino sulla janara.

“Chi nasce nella notte di Natale, nasce maledetto (perché non può offuscare la nascita del Figlio di Dio). Se è maschio diventa lupo mannaro, se femmina invece janara per tutta la vita. Di giorno la janara è una donna come le altre, solo più irascibile e aggressiva, ma di notte va girando per le case a fare dispetti ai bambini: capovolge le culle, rapisce i neonati e li mette sotto la cenere o li storpia…Una volta una janara bussò  alla porta della casa di una donna incinta, che stava cucinando: “Mi dai un po’ di lardo?” chiese.“Va’ a zappà” le rispose la donna, sbattendole la porta in faccia. Di conseguenza quella le scagliò contro una terribile maledizione: “Possa tu generare  un bambino che non crescerà più di un palmo!”

Dopo qualche mese, la donna  mise al mondo un neonato davvero brutto e piccolo. Con il passare del tempo il bambino non cresceva, né diventava più bello. Ogni sera la janara, volando come un uccello, entrava nella camera e lo storpiava, rendendolo sempre più brutto e deforme. La madre  non sapeva più a quale santo votarsi perché a quattro anni il bambino era ancora piccolo come quando era nato. Un giorno andò a farle visita una comare. Mentre varcava l’uscio di casa, lei vide entrare dalla finestra un uccello e s’insospettì. Corse nella camera del bambino e lo trovò in una bottiglia. Disse quindi alla mamma: “Qua c’è la magia di una janara, cha ha mali pensieri per la testa”. E le diede alcuni consigli.  A dicembre, nel giorno della festa della Madonna, la donna prese un pezzo di formaggio e lo cucì nella piega della veste. Alla vigilia di Natale, dopo la messa cantata, lasciò uscire dalla chiesa tutte le persone, finché rimase solo lei che si guardava intorno  e scorse  una donna  che cercava di nascondersi. Era la janara che subito le andò vicino e le disse: “Non dire a nessuno chi sono. Ti prometto di fare la comare (madrina) del bambino quando si cresimerà”. La janara fu di parola: cresimò il  bambino che da quel giorno  iniziò a crescere tanto che divenne  il giovane più bello e forte di tutti gli altri.” (da “Nella terra delle janare. Viaggio nell’Irpinia segreta, tra leggende, magia e misteri” di Antonio Emanuele Piedimonte)

 

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Virgilio Mago e poeta

 

Virgilio Mago e poeta

Storia  e leggenda avvolge la vita di Publio Virgilio Marone a Napoli, il poeta latino che tra sacro e profano fu  amato come Virgilio Mago  dal popolo e dai notabili, da Posillipo fino al centro della città partenopea. Al Medioevo  si fa risalire la credenza popolare di  Virgilio stregone buono, più comunemente ritenuto uomo saggio, in grado di proteggere e aiutare la città con talismani, sortilegi e incantesimi avendo  ereditato poteri dagli dei, per cui si pensa  che nel XII secolo a  Napoli fossero ancora vive credenze pagane.

SAM_2404Egli frequentò a Napoli la scuola di Sirone, aderì poi al neopitagorismo, studiò quindi la  natura  e  si avvicinò al culto di Cerere e Proserpina. Pare che poi  fosse riuscito ad appropriarsi di un libro di negromanzia  dalla tomba del filosofo Chironte , in una città sotterranea all’interno del monte Barbaro situata tra Baia e il lago d’Averno,  addentrandosi nei  misteri di vita e morte, riuscendo ad apprendere le scienze occulte, i rituali magici per effettuare guarigioni ed  esorcizzare gli spiriti malvagi, difendere la città e provvedere ai suoi bisogni . Addirittura fece i primi esperimenti di magia a Roma  per cui fu imprigionato per ordine dell’imperatore Augusto, ma con i compagni di ventura  magicamente  volò via su una barca che aveva disegnato sul muro esterno della prigione, giungendo in Puglia e proseguendo poi per Napoli. Da allora divenne un personaggio leggendario, caro all’ immaginario popolare che lo rese quasi  immortale perché  di fatto  il ritrovamento o la traslazione dei suoi resti sono ancora incerti.

La storia di Virgilio Mago per certi aspetti s’ incrocia con il mito della sirena Parthenope, entrambi protagonisti delle “Leggende napoletane” di Matilde Serao. Napoli, o meglio, l’antica Neapolis  fu voluta da Parthenope e nacque proprio dal suo amore  per Cimone. Il corpo esanime della sirena  si arenò a Megaride, una piccola isola a sé fino al IX sec. a. C.  che poi  fu collegata alla terraferma e divenne sede del  Castel dell’ Ovo durante la dominazione normanna del XII secolo.  Nei sotterranei del castello ci sono i ruderi della sfarzosa villa del patrizio romano  Lucullo (Castrum Lucullarum) , ove soggiornò Virgilio dal 45 al 29 a.C. che in quella quieta bellezza trovò l’ispirazione per scrivere le Bucoliche e quattro libri delle Georgiche e sperimentare le sue arti magiche. “Dopo la poesia di Parthenope, semidia, creatrice, sorge la poesia di Virgilio, creatore, semidio. Noi conosciamo Virgilio, il grande maestro di Dante, ma conosciamo poco di Virgilio Mago….Noi siamo ingrati verso colui che esclama:  Illo Virgilium me tempore dulcis alebat Parthenope…Egli era  giovane, bello, alto della persona, eretto nel busto, ma camminava con la testa curva e mormorando certe sue frasi, in un linguaggio strano che niuno poteva comprendere. Egli abitava sulla sponda del mare dove s’incurva il colle di Posillipo, ma errava ogni giorno nelle campagne che menano a Baia ed a Cuma ; egli errava per le colline che circondano Parthenope, fissando, nella notte, le lucide stelle e parlando loro il suo singolare linguaggio; egli errava sulle sponde del  mare, per la via Platamonia, tendendo l’orecchio all’armonia delle onde, quasi  che elle dicessero a lui solo parole misteriose. Onde fu detto Mago e molti furono i miracoli della sua magia”.

Probabilmente egli entrò in contatto con gli eremiti e i monaci alchimisti, che vivevano a Megaride,  e tra scienza e leggenda a lui  si riconduce la storia medioevale  dell’uovo che,  deposto in una caraffa di vetro racchiusa a sua volta in una gabbietta,  fu murato nelle fondamenta del castello che  appunto  prese il nome di “  castello  dell’ Ovo” e dal quale dipendevano le sorti dell’isola e dell’intera città, che  sarebbero andate in rovina se si fosse rotto. L’uovo era un simbolo noto agli alchimisti, ai filosofi, e soprattutto agli studiosi di esoterismo in quanto comprensivo di due forme perfette cioè del triangolo che rappresenta il divino e la vita, e del cerchio che la protegge.  L’uovo cosmico crea, dà origine alla vita e non a caso ricorre anche  nel mito di Parthenope e nella nascita di Pulcinella. Quando nel  1370 una violenta  tormenta  inondò le prigioni del castello ove era rinchiuso il condottiero  Ambrogio Visconti che in quell’ occasione pensò di evadere rompendo  la caraffa  dell’uovo durante la sua precipitosa fuga nei sotterranei,  franò  proprio l’ala  del castello ove era nascosto l’uovo e i generali timori dei napoletani si placarono solo quando  la regina Giovanna ne fece ricollocare un altro onde evitare nuove sciagure alla città. 

SAM_2418Tanti altri furono i prodigi e le magie di Virgilio: la mosca d’oro , cui insufflò la vita  per distruggere quelle che invasero la città, la guarigione dei cavalli di Augusto da un morbo sconosciuto, la scoperta  di un’acqua miracolosa, la pietra magica che rese pescoso il mare di Napoli, la  sanguisuga  d’oro per bonificare i pozzi  malsani, il  cambio di direzione di un vento troppo caldo, l’invenzione di  un alfabeto magico, la coltivazione di  un giardino di piante medicinali ai piedi di Montevergine e sulla collina di Posillipo, l’uccisione del serpente che aveva divorato tanti bambini del Pendino, la costruzione dei bagni termali a Baia e della lunga  galleria  della Crypta Neapolitana, opera di leggendari demoni notturni che collegava Neapolis con i porti flegrei e divenne sede di rituali orgiastici.

 

Virgilio  morì a Brindisi il 19 a. C e da sempre si crede che le sue spoglie siano nel colombario di età romana del parco Vergiliano, vicino alla Crypta neapolitana. Forse più probabilmente l’imperatore Augusto, protettore del poeta, gli fece erigere un monumento presso la villa di Vedio Pollione che poi fu  distrutto dal mare. Per altre fonti  i resti del poeta andarono persi  nel Medioevo, secondo altre il re Roberto d’Angiò nel 1326 li fece traslare o murare  nel castel dell’Ovo. Per il  grammatico Elio  Donato la tomba si trovava lungo la via Puteolana, che portava a Pozzuoli, a due miglia dalla città, per  lo storico Julius Beloch invece sarebbe nel tempio dedicato al poeta nel boschetto della villa nella  Riviera di Chiaia, per  altri ancora le due miglia porterebbero verso il Vesuvio, esattamente a san Giovanni a Teduccio.

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 Il culto di Virgilio nel mausoleo del Parco Vergiliano nell’area archeologica di Piedigrotta risale al Trecento. Visitata da personaggi illustri, letterati e potenti signori di ogni epoca storica,  citata da  Alessandro Dumas , che nel 1835 era a Napoli e  dal suo albergo SAM_2425vedeva il sepolcro, e dal marchese De Sade che la visitò nel 1776, di fronte all’entrata  pare ci fosse una lapide, posta dai padri lateranensi della vicina badia di Santa Maria di Piedi grotta nel 1554, con l’iscrizione che fuga ogni perplessità : “QUAE CINERIS TUMULO HOC VESTIGIA CONDITUR. OLIM ILLE HOC QUI.CECINIT PASCUA RURA DUCES… (Quali ceneri? Queste sono le vestigia del tumulo. Fu sepolto qui colui che cantò i pascoli, i campi, i condottieri”) e ne seguì un’altra “Che importa che il tumulo è crollato, che l’urna è rotta? Il nome stesso del poeta basterà a fare celebrare il luogo”. All’ interno del tempietto una stele di marmo posta da Eischoff, il bibliotecario della regina di Francia,  recita l’epitaffio che Virgilio scrisse prima di morire perché fosse inciso sulla sua tomba:

“MANTUA ME GENUIT, CALABRI  RAPUERE,TENET NUNC  PARTHENOPE: CECINI PASCUA RURA DUCES  (Mantova mi generò, la Calabria mi rapì, ora mi tiene Napoli: cantai i pascoli, le campagne gli eroi).

In effetti questo antico colombario romano è per tutti la tomba del poeta Virgilio, anche se si dubita della presenza delle sue ceneri; dubbio mai realmente accertato né fugato. Il mausoleo fu visitato dai grandi della letteratura quali  Dante, Petrarca, Boccaccio e infine da  Leopardi, ignaro che avrebbe riposato vicino a Virgilio.  

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SAM_2405Dapprima affascinato dalla bellezza mozzafiato dei luoghi e del mare, Leopardi  divenne insofferente di quella città che suscitava contrastanti emozioni con le sue innumerevoli contraddizioni, da amare nella sua vitalità, da odiare nelle sue insidie e nell’ invadente e fastidiosa confusione. Nel 1934 fu eretto un imponente monumento al poeta di Recanati proprio nel parco di Piedigrotta, vicino alla galleria di Fuorigrotta e alla stazione di Mergellina, in un angolo  nascosto e immerso  nel verde che rivedo ancora in un’atmosfera quasi surreale  di una calda e silenziosa mattina di agosto  provando  nuovamente  una sorta di muto timore, rispetto reverenziale per quei due grandi della poesia, commossa soggezione   di fronte ai loro mausolei e nel ricordo di alcuni versi, patrimonio universale e immortale. Che importa che il tumulo è crollato, che l’urna è rotta?

“Non vi è che un solo Virgilio: quello che la favolosa cronaca delinea nelle ombre della magia, è proprio il poeta. Invero egli non ha avuto che una magia sola: la grandiosa poesia del suo spirito. Nella cronaca è il poeta….È il poeta  che cerca ed interroga ogni angolo oscuro della natura, è lui che parla alle stelle tremolanti di raggi nelle notti estive, è lui che ascolta il ritmo del mare, quasi fosse il metro per cui il suo verso scandisce… Virgilio mago è Virgilio poeta. E nulla si sa della sua morte. Come Parthenope, la donna, egli scompare. Il poeta non muore.” Del resto anche “ Parthenope non ha tomba, Parthenope non è morta. Ella vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni. Ella corre ancora sui poggi, ella erra sulla spiaggia, ella si affaccia al vulcano, ella si smarrisce nelle vallate. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori: è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene; è lei che rende irresistibile il profumo dell’arancio; è lei che fa fosforeggiare il mare… È lei che fa impazzire la città: è lei che la fa languire ed impallidire di amore: è lei la fa contorcere di passione nelle giornate violente dell’agosto. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non ha tomba, è immortale, è l’amore. Napoli è la città dell’amore.” (da “Leggende napoletane” di Matilde Serao)

Una città dall’ apparenza ora oziosa e  solenne, ora sfacciata e volgare, da scoprire  con diverse e contrastanti letture delle  sue storie appassionate, vere e mitiche, dolci e  tormentate, ironiche e drammatiche, vissute e interpretate, custodite nella memoria di altre generazioni, dimenticate da quelle più recenti. Storie sull’ origine e sulla fine, esorcizzate dalle credenze popolari, da una  devozione superstiziosa, da rituali tramandati pigramente, come alibi poco convincenti ai quali poi si finisce col credere quasi per inerzia. Storie troppo straordinarie per essere credibili, unicamente napoletane.

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Non avevo mai visto occhi così verdi

Un racconto per la terza edizione del Carnevale della Letteratura che  si snoda tra le tante notti e le vicissitudini di Cecilia, Tommaso e il Gatto. 

Caro lettore accingiti a seguirmi  e a percorrere con calma lunghe strade  di polvere e  germogli  tracciate nella memoria dei cuori e delle menti di chi narra storie e leggende, ora nascoste  dalle  tenebre della superstizione  e della vendetta, ora illuminate dalla  dolcezza dell’amore  e dalla magia della natura.

bambina con gatto

 

Il tutto inizia in una notte più buia e cupa del solito, in cui  la luna è tenuta in ostaggio da nubi minacciose e pare  avvolta in nere gramaglie. Anche l’aria è ferma, calda e immobile fa presagire l’arrivo di un qualcosa che allerta i sensi.  Nella misera casetta il cui stato di abbandono conferisce un’aria di decadenza e  lascia immaginare uno stato migliore in altri tempi, la fiamma del camino brilla lasciando trapelare all’esterno un’intimità raccolta e intinta nei  colori della brace. L’anziana Maria  è impegnata a selezionare erbe, fiori e verdure sul tavolo della cucina, e di tanto in tanto se ne allontana per mescolare attentamente nel paiolo  con un cucchiaio di legno.

“Svegliati, presto”. Cecilia  dorme  già un sonno profondo in cui esplora  i  sogni con un dolce sorriso. La carnagione levigata, anche se sporca, e i capelli arruffati non la privano della delicatezza dei lineamenti, regalando  allo sguardo  un’aria innocente  mista  a una bellezza un po’ selvatica.

“Cecilia svegliati, fai presto” le grido nella mente miagolando quel tanto che basta a farmi sentire . La bimba si tocca la guancia per la sensazione di qualcosa di leggermente ruvido e poi di vellutato sulla fronte. Apre gli occhi e si scioglie in un sorriso. “Gatto sei tu!” e mi abbraccia  con il solito trasporto. “Presto, andiamo…”

 Io sono Gatto, non ho un nome particolare e sono già fortunato ad essere chiamato Gatto da Cecilia e da  quei pochi che mi sopportano. Non so che mi ha preso questa notte, ma ho sentito  di dovere andare dalla mia beniamina che  mi ha salvato da morte certa;  forse mi meritavo il nome di Mosè salvato dalle acque, ma credo che di questi tempi non si possa troppo scherzare su sacro e profano. Anche se il più delle volte il profano è spacciato per  sacro e alla fine gli umani ascoltano ciò che vogliono  ascoltare e credono in ciò che trovano più rispondente alle  loro intime  paure e convinzioni.

 

gatto nero

Spicco  un salto verso la finestra socchiusa  e svicolo fuori,  seguito dalla mia compagna di  furtive scorribande nel grande prato. Mi lascio  accarezzare e poi inizio  a correre verso il ponte e Cecilia, credendo che sia un nuovo gioco, mi insegue   ridendo e guardando bene a non inciampare nell’erba bagnata dalla notte. L’umidità dell’aria le scivola sulla pelle con perle di sudore sulla fronte, una strana quiete  nell’aria  preannuncia un temporale estivo. Si ferma al ruscello sotto il ponte  per lasciare decantare l’affanno.  La luna continua a stare nascosta e i miei  occhi fosforescenti la guidano nel buio e le fanno compagnia. La notte pare svegliarsi di colpo: un’aria fresca  inizia a danzare tra le  spighe di avena  e i papaveri. Le stelle brillano in lontananza nella  cupola velata di seta nera e la signora dei cieli  inizia senza pudore a denudarsi dei neri drappi  per rischiarare e vegliare dall’alto la collina. Cecilia ha un fremito, un brivido di freddo. Di notte accadono cose che a volte si fatica a comprendere. Si sentono. Accadono cose che Cecilia non può capire, ma ha solo un brutto presagio.

D’un tratto sentiamo  voci sommesse di uomini. Passano sul ponte  con un carro tre incappucciati, silenziosi  come le ombre che lentamente li precedono. Sentiamo poi un grosso colpo, un grido di donna e un gran fracasso di stoviglie rotte e di legni spezzati .Vigile drizzo le orecchie e spalanco gli occhi,  la piccola si appiattisce sotto un’arcata del ponte. I tre briganti escono in gran fretta dalla casa di Cecilia con un fagotto sulle spalle che viene  spinto in malo modo sul carro e se ne vanno in silenzio così come sono venuti, avvolti da ampi  mantelli colore del buio.

La bambina   è  tutta bagnata, questa volta non di sudore, ma di paura. Si sciacqua le gambette nel rio, prende in mano gli zoccoli e si accovaccia tremante. La conforto facendo le fusa  e ci allontaniamo di nascosto, ancora in preda allo spavento . Lei mi stringe a sé, affonda il suo viso nella mia morbida pelliccia nera e  ci addormentiamo abbracciati in una piccola grotta al confine con il bosco. 

“Tu sei figlia dell’acqua e del vento” diceva la nonna quando  Cecilia chiedeva dei suoi genitori. Sua madre era un a giovane vedova, così pare, di un uomo partito per una guerra non sua e mai più tornato. Dalla bellezza materna  Cecilia aveva ereditato i grandi occhi verdi e i capelli ramati. In quegli occhi più di un uomo, scapolo o ammogliato, si era perso e se lei era additata come una svergognata lavandaia , tuttavia era tollerata perché viveva ai margini del borgo oltre che della comunità. Ogni tanto la si vedeva uscire dal bosco con un sorriso e una baldanza che le facevano godere della vita. Si sa che il paese è piccolo e pieno di devozione. Non riuscireste a immaginare  quanta ne ispirassero la gelosia e l’invidia non solo di  donne e di ragazze da marito, ma anche di vecchi  ormai esclusi per vigore  tra i pretendenti alla sua freschezza. Le chiacchiere infestano come la mala erba, ma sono  più che convinto che un uomo l’abbia amata davvero e continui ad amarla. Ci sono segreti  nei cuori degli uomini sepolti  con cura  dalla rassegnazione, dagli obblighi  familiari e dalle apparenze. E credo che Anna , depredata troppo presto delle gioie coniugali da un  destino ingrato, avesse deciso di non privarsi dei piaceri della vita, di quelle pause spensierate che le consentivano di andare avanti tra rinunce e sogni infranti.

“La provvidenza vede e provvede.”  Così tuonò il prevosto, quando finalmente cessò quella fastidiosa presenza, sigillando le chiacchiere del paese con  una tacita pietas. In un’afosa  notte di  agosto, di quelle abbaglianti di stelle che avvicinano la cupola celeste ai sogni di tanti  e   lasciano ben intravedere le costellazioni  e le vie del cielo ai poeti, ai  naviganti e agli  amanti, in una notte che protegge e avvolge  con  la  complice tenerezza di una madre affettuosa che gioca con il figlio,  il destino volle portare  con sé  l’ultimo respiro di Anna e regalare al mondo   il primo respiro di Cecilia.

 Tra persiane e porte socchiuse ogni comunità racchiude da generazioni segreti, fondati o  abilmente partoriti dai malpensanti,  e la piccola Cecilia veniva semplicemente tollerata come figlia di un peccato, di certo  non suo, provato dagli inconfondibili occhi di foglia. Del padre non si vociferava nulla, perché da sempre  all’uomo era consentito soddisfare le voglie in una generale ipocrisia ora avallata con nonchalance, ora sfacciatamente  ostentata.

Io giro spesso solitario tra i vicoli del borgo, di soppiatto cerco qualcosa da mangiare e sto allerta per timore che mi lancino pietre e insulti. Sono troppo nero e incuto paura , a volte suscito grida e fughe, come una creatura malefica. Solo Cecilia non mi ha mai temuto , anzi  mi ha accolto nella sua ingenuità infantile. Strano a  dirsi ma non comprende  né avverte la solitudine, forse perché non ha la percezione della vita in comune avendo sempre vissuto fuori dal paese, conscia di una sola dimensione fatta di spontaneità e istinto e ritmata dal sole e dalla luna, dai colori e dalla ciclicità delle stagioni e della natura. Io appartengo al mondo di Cecilia popolato da insetti, lepri, rane, volpi, uccelli notturni e diurni, animali domestici e selvatici. Ecco forse lei  appartiene a questi ultimi in quanto leggermente addomesticata dalle parole, ma di sicuro  non dalle regole dell’ umana convivenza.

 Questa mattina andando di buon’ora a pescare nel ruscello, all’altezza del ponte,  sono passato davanti alla casa di Cecilia. Ho con me  una pagnotta e un po’ di latte fresco che spesso mio padre Pietro  mi fa consegnare a Maria, per pietà di quella vecchia che cresce  la piccola come può. Mi aspetto di vederla  accovacciata tra i cespugli di lavanda e rosmarino a giocare con i sassolini o venirmi  incontro, privilegiandomi della sua attenzione. C’è un muro di dubbi e sospetti  su quella casa  ma io,  che di san Tommaso porto il nome, non credo se non vedo , scrollo le spalle, non capisco  né voglio capire le incomprensibili questioni degli adulti.  Mentre accelero il passo, noto la porta sfondata. Non sento  i soliti  rumori  del risveglio di ogni casa. Ho un buon intuito e d’istinto torno indietro  da mio padre che  lascia tutto e si precipita  con  il vicino di casa Elio e Oreste, suo figlio. Arrivati di corsa, tutti insieme  con  sguardi indagatori e  preoccupati contempliamo attoniti   la violazione della casa, sempre più manifesta man mano che ci addentriamo. Oreste corre  verso il borgo a dare l’allarme e i due uomini si dirigono verso il  bosco con la speranza di trovare qualche indizio, se non addirittura le malcapitate. Mio padre è triste e preoccupato, mi sembra di colpo molto vecchio.  Li seguo con lo sguardo e mi fermo stanco nel grande prato guardando dall’alto il ponte e la casa di Donna Lucrezia con tutte le persiane e le finestre spalancate. Sulla terrazza scorgo controluce una sagoma che mi fa cenno di avvicinarmi e scendo verso la villa. Angelina mi apre il portone  e mi conduce dalla signora Lucrezia, una stimata nobildonna  di città, molto colta e ricca, arrivata non si sa se per scelta o per confino, la quale  conduce una vita riservata ma, chissà come, riesce a sapere sempre tutto della vita del borgo. Con timore quasi riverenziale misto a timidezza mi presento al suo cospetto tenendo gli occhi bassi . Lei mi incarica di cercarla nei pressi del bosco perché, a suo dire,  alle prime luci dell’alba ha intravisto Cecilia che camminava nel prato con il suo inseparabile Gatto nero.

Mi nascondo ai piedi del ponte da cui posso osservare il prato che confina con il bosco, la casa di Cecilia e di Donna Lucrezia. In cuor mio spero di trovare la mia amica anche se non capisco cosa possa essere successo alla nonna. Girano voci su  briganti che a volte di notte rapiscono le donne come è  già successo altrove, in base a  notizie giunte tramite donna Lucrezia che ha amici influenti e bene informati in città. Di queste donne,  giovani e anziane, nessuna è più tornata . Una subdola ansia mi prende con il timore che sia successo qualcosa di grave a Cecilia. D’un tratto vedo  mio padre uscire dalla selva con un’aria sconsolata e afflitta, mi pare  che pianga. Non è da lui  che è sempre poco incline a manifestare  i propri sentimenti con atteggiamenti di distacco, pacati, saggi e meditati .

Quando la noia e la stanchezza stanno avendo il sopravvento e il cielo si tinge  delle sfumature violacee del crepuscolo,  inizio a ingannare il tempo cercando  rane finché sento un fruscio in un cespuglio poco distante. Con calma prendo un sasso in attesa che compaia una biscia o chissà che altro, ma d’un tratto mi appare  il baldanzoso Gatto nero. Dopo qualche istante vedo brillare gli  occhi verdi di Cecilia che, spalancati di paura più che di sorpresa, tradiscono la  diffidenza che i bambini hanno verso gli sconosciuti. Bagna   i piedini con circospezione,  mi sembra  ancor più piccola dei suoi cinque anni nella tunichetta  sporca e un po’ corta, non ha più l’aria sfrontata o  incurante di sempre. Ho quasi paura di chiamarla e che scappi via, la guardo  quasi commosso cogliendo  in quegli occhi i pensieri  di una bambina più grande. Non ho mai visto occhi così verdi, e resto  immobile tra lo stupore e il timore di spaventarla. “Cecilia”, riesco  a dirle quasi sottovoce, scandendo dolcemente le sillabe, e la bimba mi sorride.

 

 “Madonna santa”, esclama Angelina quando apre il portone. “Anima innocente, chi ti ha ridotto così?” e subito ci lascia entrare accompagnandoci nella grande cucina. In fretta si premura di sfamarci  con pane fresco, latte e miele. Sulla porta compare Donna Lucrezia alla quale non sfugge nulla e questa volta deve  fare sentire ancor più e di persona  la sua presenza. “Sei la nipote di Maria, vero?” La bimba assente con la testolina  ingrovigliata  di erba secca e terra. La signora si sdebita con me, come promesso, e dà disposizioni ad Angelina per ripulire e rifocillare la bimba annunciando  che da quel dì vivrà in quella casa con loro. La fidata  serva  è ben felice di accogliere la  creaturella, finalmente avrà un aiuto e una compagnia. Così Cecilia trova   un tetto-  e che tetto!-,  tante premure e tra lenzuola  fresche e profumate il sonno ristoratore  la ritempra  dagli stenti patiti fino ad ora così che un bel giorno si scopre allo specchio  come non avrebbe mai immaginato. 

il gatto e la lunaMi manca Cecilia, mi  mancano le scorribande notturne nel grande prato tra lucciole e grilli d’estate, e i nebbiosi sbuffi dell’ alito d’inverno. Spesso mi ritrovo solo sul ponte, costretto a vagare indomito padrone  della notte e perlopiù, esule senza patria, a dormire nascosto di giorno. Durante una notte placida ma  fredda, me ne sto sul ponte a  guardare i  colori caldi dell’autunno, quando mi sento osservato, mi volto di scatto già pronto a difendermi da eventuali attacchi ma mi  incanto dinanzi a una  gatta, nera come me, dolcemente  elegante e sinuosa  nei movimenti. Nerina, nel mio semplice immaginario di gatto, si chiama Nerina. Stiamo per un po’ sul muretto del ponte a studiarci reciprocamente finché  ci inseguiamo nel prato, mi cimento in prodezze acrobatiche e fusa pur di  conquistarla, ma all’improvviso non la trovo più.

 

L’ho trovata finalmente, se no che Gatto sarei. Ho ritrovato  Cecilia che  è in carne, serena, davvero bella, non l’avrei riconosciuta  se non per quegli occhi ipnotici che ti leggono dentro e poi vispi vagano intorno, spinti dal  pensiero veloce  e dall’innata  curiosità.  

Angelina è una brava donna, generosa e affettuosa:  di sera mi lascia entrare in cucina servendomi un po’ degli  avanzi  e finge di non sapere che la bambina  apre la finestra  per farmi  dormire ai piedi del suo letto nelle fredde notti invernali. La solitudine  accomuna e Angelina sa bene quanto  sia prezioso amare e sentirsi amati , anche se da un gatto. Intanto  il mondo di Cecilia si popola di nuove abitudini, consuetudini, precetti di vita civile e religiosa, nella conquista di un sempre più esteso consenso sociale grazie anche alla  protezione di Donna Lucrezia. Le origini della bimba sono appena bisbigliate dalle donne di una certa età alle figlie e alle nipoti nubili , poco ambite dai giovani del paese, ai cui occhi Cecilia   risulta essere una potenziale rivale troppo aggraziata.

 Gli anni passano e non ho più tempo per giocare con la mia amica. L’affetto  di compagni d’infanzia si sta sciogliendo  nell’attrazione dei sensi e mio padre cerca di impegnarmi  tutto il giorno, secondo me, per timore che la  frequenti troppo . Ogni tanto sbrigo piccole commissioni per Angelina e Donna Lucrezia  e la scorgo in cucina impegnata ad aiutare in faccende domestiche, o mentre  si esercita a leggere con la signora  e a ricamare. Vorrei invitarla a ballare al Calendimaggio, alla festa della primavera e della fertilità intorno all’albero fiorito, per  celebrare l’arrivo della bella stagione. Sono sicuro che Cecilia sarà prescelta come reginetta della festa.

 

Le notti si susseguono tra trine di  nubi  e stelle di diamanti e la vita pulsa sempre più forte nella  natura, anche in quella umana. Sto invecchiando e non ho più l’agilità di una volta. Devo essere prudente, poco tempo fa quell’Oreste mi ha colpito con un grosso sasso e mi ha azzoppato, sono scappato nei vicoli del borgo ma il dolore era insopportabile e, quando credevo di non avere via di scampo, ho incontrato Nerina che mi ha condotto in salvo in una cantina. Quell’Oreste non mi piace. È  inquieto in un corpo troppo forte, è diventato un ragazzone spavaldo e prepotente con i ragazzi, smargiasso con le ragazze che seduce nel  bosco.  Ho l’impressione che abbia messo  gli occhi su Cecilia perché si aggira sempre nei paraggi della villa. Non devo farmi scorgere, se no sono guai.

 Il gran giorno è arrivato,  la natura inizia a  rinascere e con lei la speranza di un buon raccolto. Le ragazze hanno colto fiori di campo e intrecciato ghirlande, si sono  di bianco vestite per festeggiare  con canti e danze l’arrivo della primavera. Anch’io sono  lì e ballo volentieri, sotto lo sguardo fiero dei miei  e della mia dama di turno. Oggi pare che regni l’armonia, c’è voglia di gioire, di vivere la giovinezza  e il presente  senza rivalità e  rancori.  Angelina contempla compiaciuta la sua Cecilia, proprio lei, che madre  non è mai stata, ha ricevuto una figlia più bella del sole. La danza scioglie ogni inibizione nei sorrisi e nelle movenze, la fanciulla rincorre la sua musica interiore e con disinvoltura riesce a cimentarsi in quella sua prima occasione di vita, in quel rito di iniziazione all’adolescenza.

Le voglie di amorosi sensi pungono in corpo, soprattutto ad Oreste che si è dichiarato senza successo a Cecilia. Il diniego amoroso a volte può ferire  più di un’offesa  verbale e Oreste non è il tipo che dimentica e perdona facilmente, anche perché deriso dagli altri ragazzi in quanto  la più giovane e  bella ha osato ridimensionarlo. In buona fede però, perché i primi approcci e le  schermaglie  amorose  non sono note a Cecilia, ancora infantile nella sua timidezza e inconsapevole di suscitare le attenzioni dei maschietti ruspanti.

 

Un’altra notte, silenziosa e calma, tanta quiete stranamente mi innervosisce. Ho  già gatto-e-lunasentito una notte del genere, quest’umidità mi appiattisce il pelo. C’è uno strano silenzio, i grilli e le rane tacciono. Eccoli  di nuovo,  gli  incappucciati, ma che fanno? Aprono la finestra e afferrano Cecilia e la portano via su un carro avvolta in un sacco,proprio come la nonna. Il giorno dopo  le grida di Angelina risvegliano  il borgo e le coscienze  in tristi ricordi che si volevano dimenticare, mentre  la signora Lucrezia  ha mandato  a chiamare d’urgenza Tommaso per  consegnare una lettera in città. Ovunque, in ogni casa, bottega, piazza non si fa altro che parlare del rapimento di Cecilia. La gente ha paura, si è ripetuto un dramma  già vissuto, questa volta si teme che i briganti approfittino della ragazza. Si insinuano dubbi e sospetti, le maldicenze riemergono  e volano velocissime  di bocca in bocca offuscando i  giorni sereni appena trascorsi.

 Donna   Lucrezia e Angelina partono , in fretta e furia portano  quanto più possono in grandi bauli. Troppi bagagli fanno presagire  che faranno un lungo viaggio o che comunque non ritorneranno presto o mai più nella bella villa sul ponte. C’è chi dice che la signora raggiungerà  suoi lontani parenti in Francia o    un suo potente amante con la speranza di  trovare la sua figlioccia, mentre la buona  Angelina si ritirerà  in un convento per trovare conforto nella fede per  un dolore così devastante. Povera Angelina! Non sa che proprio quella fede ottenebra il ben dell’intelletto in un delirio collettivo che si accanisce cercando un capro espiatorio per ogni carestia, epidemia, moria di animali, morte di parto, scontento, tempesta , irregolare soffio di vento o marea e un tribunale di ecclesiastici, detto santo ma  che di santo non ha proprio nulla , senza alcuna compassione, né umanità e tanto meno obiettività indaga, inquisisce,  individua una vittima da sacrificare sull’altare dei secoli bui.

  Io lavoro, lavoro tanto e, quando i  cattivi pensieri mi sbattono ossessivamente nella testa, bevo, bevo troppo fino a stordirmi. Vorrei annegare  nella bottiglia per non immaginarla più, vorrei annegarci per colmare questo vuoto. Che darei per averla ancora qui, rinuncerei anche a vederla pur di saperla sana e salva . La rivedo ancora ,  bocciolo non ancora sbocciato, durante la festa del Calendimaggio. L’altra notte, mentre  una luna piena  inargentava ogni spiga  e ogni foglia  e si specchiava in ogni goccia d’acqua, ho visto uno stormo di uccelli con volti umani  diretti verso il bosco. Ero brillo, confuso, ho intravisto  la signora Lucrezia, Anna, Maria  e altre donne, giovani e vecchie, bellissime  e orrende…avevo caldo, mi sentivo in preda ai fumi dell’alcol  e al rimorso di non aver protetto abbastanza Cecilia.  Che scherzi fa il vino!

Ad un tratto tutta l’acqua è ribollita, come se dal fondo delle viscere della terra  ci fosse stata un’esplosione che facesse sobbalzare e gorgogliare ogni polla e corso d’acqua e un forte vento ha scatenato le chiome in un vortice sempre più vasto e furioso di  foglie,  di fiori,  di frutti, di polvere, pietre, rami  ed erbe  che come in un’ invisibile cornucopia si sono levati verso il cielo e l’ho vista, l’ho vista , era lei  che dava le mani al Gatto e rideva  danzando un girotondo con Gatto in un turbinio di scintille luminose e fiamme. Credo poi di essermi addormentato.

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E’ stata una notte tremenda, infernale. Strani prodigi stanno accadendo, la gente ha paura e non si sente sicura nemmeno in casa propria. Durante quella tromba d’aria che ha sollevato tegole e scoperchiato tetti, sradicato alberi  e  terrorizzato gli animali nelle stalle e nel bosco, sconvolto gli uomini  e  fatto piangere le donne e i bambini ,  d’un tratto si è sentito l’Oreste che urlava .È uscito sull’uscio di casa, con la faccia sfregiata da graffi  e la camicia insanguinata. Si dice  che due gatti neri  siano passati  rasenti al muro di casa sua, uno dietro l’altro,  e il più grosso  è stato trovato morto poco distante con il cranio sfondato. Il tetto del campanile si è sgretolato ed è precipitato giù sul sagrato della chiesa. Il campanile si erge ora solitario, incredulo quanto noi di questa furia che si è scatenata all’improvviso.

Le voci corrono, soprattutto queste. Mio padre sta perdendo la ragione, in preda a sensi di colpa per un’ignavia che probabilmente non riesce a perdonarsi. Cecilia , sorella che non ho mai potuto abbracciare come tale,  sei durata poco come tutte le cose troppo delicate e preziose. Sono andato in città per avere conferma di quanto ho capito e sentito, e sono solo riuscito a  scorgere i tuoi piedi bluastri e allungati che uscivano da un carro tra sacchi insanguinati  mentre ti portavano via. Non ho osato soffermarmi, voglio ricordarti come eri. Non meritavi tutto questo, sei nata sola e te ne sei andata ancora più sola, affidando al vento e all’acqua il tuo strazio.

 

“Vieni Notte, madre amabile che mi hai  finora protetta dal male degli uomini. Accoglimi pietosa, regala i tuoi respiri a me che hanno tolto l’aria.  Mi hanno invidiato come ragazza quando a stento ho vissuto da bambina, mi hanno  desiderato  come femmina quando non ero ancora una donna, mi hanno reso sterile prima ancora che divenissi fertile. Raccogli  i miei sogni e i miei sospiri, cullami, nascondimi più in alto che puoi nell’oscurità e poi nelle vie del cielo. Indicami la strada, dea del silenzio e della compassione, strappami da questa sofferenza  che  dilania  le membra  e l’anima. Non ho più parole, né lacrime, né forze, né battiti per questo mondo. Notte, saggia e incorruttibile, salvami ora e per sempre dalla follia dell’uomo , dalla cecità  della superstizione e dall’ottusità della fede. Scendi Notte pudica , lascia riecheggiare la calma del silenzio anche dentro di me, cala un velo su quel che sono ora e avrei voluto diventare, frutto di un peccato che non mi appartiene come i demoni  che scalpitano nelle loro menti malate , perverse e malvagie. Portami via, sventrata di ogni dignità e vitalità, Signora del cielo diffondi ovunque quel  mio istinto  a comprendere le voci della natura, mai compreso, che  seduce , conquista, affascina  quando la natura è benevola,  ma provoca terrore e vendetta   quando è  maligna.”

 

Non so se si possa impazzire di dolore. La violenza su Cecilia, additata come  strega bambina, mi ha sconvolto. Sono partito, il mare ridimensiona ogni cosa  e cambia  prospettiva,  nell’infinito del  cielo notturno che sconfina nel  buio silenzioso e fermo dell’oceano ho ritrovato un po’ me stesso e sto imparando a cicatrizzare le mie ferite.  In fondo le  persone della nostra vita sono un po’ come le stelle.
Tutte comunque lasciano una scia indelebile dentro, lasciano una traccia che nulla potrà oscurare e spegnere: una luce fatta di polvere di stelle, che scalda, rischiara, anima e dà un senso al nostro passaggio nell’universo, al nostro sentirci sospesi tra due infiniti. A volte siamo come un orizzonte, linea di demarcazione irraggiungibile e indefinibile eppure esistente, protratti verso un infinito che va oltre ogni confine e ogni tempo. Cecilia continua a brillare, ovunque tu sia.

Durante l’ultima  tempesta  le onde hanno invaso  il ponte , spezzato le sartie,  abbattuto  l’albero  maestro. La natura fa il suo corso, divinità indomabile e imprevedibile ha il vero potere di vita e di morte. I marinai dicono di avere  visto un gatto nero nella stiva e poco dopo il vento si è placato e con lui i marosi. Io credo invece che la paura suggestioni un po’ tutti e che fosse uno dei soliti  topi che sale  a bordo nei porti. La paura però innesca il coraggio di vivere, è tempo di non sfuggire a me stesso e alla mia memoria, è tempo di  tornare alla mia terra, alla vita dei campi, a casa.

 Quante donne, tutte  qui a dispensare rassicuranti litanie, a preparare acqua calda e pezze sterili e calde. Una processione di donne devote e io sono qui che aspetto. Non sopporto più le sue grida. Notte, che accogli le confidenze di chi ama e di chi soffre, assisti e proteggi mia  moglie …

 Mi sento impotente di fronte ai suoi lamenti e guardo fuori dalla finestra. Una notte come la magiatante, quante ne ho scrutate per diventare uomo. Mentre osservo la mia ombra  che si allunga sul muro di fronte casa, ho la leggera percezione di un’ altra ombra  che corre furtiva , forse di un ratto. Alzando lo sguardo  li capto, sono due grandi occhi verdi brillanti nel buio. Un gatto nero, snello ed elegante è lì seduto di fronte a me, sul muro, mimetizzato nelle tenebre. Pare mi fissi e penso a Gatto, ma è più piccolo, come lui però è maestosamente regale e misterioso. Ci fissiamo immobili, non sento più le voci, gli strilli, l’ansia dell’attesa. Penso all’istante in cui da bambino colsi  l’intensità di  quegli occhi così verdi che non avevo mai visto prima.

Mi toccano la spalla, mi volto. Mia madre mi porge mia figlia. È nata, finalmente! Guardo per un attimo il cielo che forse  mi ha ascoltato, o semplicemente era destino che andasse così.

 Sorrido alla mia donna, osservo con attenzione la mia bambina, nata in una notte di inquieta attesa, frutto del desiderio e dell’istinto alla vita e le sussurro “Benvenuta tra noi, piccola Cecilia”.

 

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