Lo struscio : quando la gente elegante correva ai miserere per fare sfoggio di vestimenta.

Il rituale del giovedì  santo prevede la visita dei  sepolcri, cioè di un numero dispari di chiese, non inferiore a tre.  A  Napoli il giro dei  sepolcri si chiama “struscio”; letteralmente strusciare significa strofinare o trascinare qualcosa per terra, ma può anche significare lisciare, adulare. Di qui si pensa che struscio possa significare adulare i santi, in riferimento alle  adorazioni, oppure assumere un altro e più condiviso significato risalente  ai tempi di Fernández Pacheco de Acun͂a, viceré spagnolo nella Napoli del Settecento. Questi  emanò un bando nel 1704 per vietare  la circolazione di carrozze dal mezzogiorno del giovedì  fino al tempo della messa solenne del sabato santo inizialmente per le vie centrali della città, poi solo per via Toledo, la strada principale di Napoli. Qui  la famiglia reale in pompa magna,  con l’intera compagnia delle Real Guardie del Corpo e un corteo di cortigiani al seguito, dopo il vespro del giovedì santo si recava a piedi nelle vicine chiese per visitare i sepolcri. Ben presto i napoletani  considerarono lo struscio  come la festa della primavera  durante la quale non solo i nobili, ma anche i borghesi si esibivano in uno struscio di piedi per terra e di abiti nuovi, eleganti e fruscianti. Lo struscio divenne una sorta di gara di sfarzo tanto che nel 1781 il re Ferdinando IV intervenne per frenarla, come racconta Florio in   “Memorie storiche”.  Infatti in occasione della visita dei sepolcri durante la Settimana Santa  sia “nobili che  moltissimi del ceto civile, erano soliti vestirsi pomposamente  di velluto nero col soprabito ricco di bottoni d’oro e d’argento. Le Dame poi adornate con somma gala, portate dentro ricche sedie indorate a mano (essendo vietate le carrozze) giravano quasi tutte le chiese della città con volanti, servi, paggi, e tutta la loro corte, vestiti con le più  ricche livree, con estremo lusso, e con le teste artificiosamente accomodate. Ed in tal maniera camminavano la città e visitavano i sepolcri in giorni cotanto sacrosanti, dando qualche scandalo piuttosto che edificazione. Fu dunque sovranamente ordinato che andassero semplicemente ornate di veli, e senza scandalo e fu così eseguito.”

Il rito dello struscio sopravvisse durante la Repubblica Napoletana del 1799 e  il regno di Ferdinando II (1830-1859), divenendo sempre meno sfarzoso , seppure solenne.  Dopo i Borbone si distinse tra lo struscio del giovedì santo,  aperto al gaudente popolo che si riversava in via Toledo, e quello del venerdì  riservato ai nobili e  ai notabili della città.  Aitanti ed impettiti gentiluomini  indossavano la paglietta, cappello estivo, prontamente  tolta per ossequiare una bella dama che avanzava strusciando le vesti e i piedi . Le instancabili e “nferrùte” (tremende) mammà partenopee, di ogni estrazione sociale, agghindavano le figliole in età da marito e le accompagnavano in un interminabile struscio nella speranza di accasarle.

 Oggi per struscio s’intende il  prolungato passeggio, soprattutto serale,  per la via principale di un paese o di una  città, non solo  in occasione di feste. Spesso  i ragazzi passano e spassano per fare bella mostra di sé o conquiste  e non  necessitano più né di onnipresenti mammà , né dei miserere della Settimana Santa.

 

La mitica pastiera

La pastiera è un dolce di antiche e leggendarie origini, tipico della cucina napoletana e del periodo pasquale.

Si narra che in primavera la sirena Partenope emergesse dalle acque del Golfo di Napoli  per salutare con canti di gioia le genti della costa. Un giorno sette belle fanciulle furono inviate per omaggiarla  con  preziosi e semplici prodotti della terra e del lavoro dell’uomo: farina, ricotta, uova ( simbolo della vita), grano, inebriante acqua di fiori d’arancio, seducenti spezie del lontano Oriente e  infine zucchero. Partenope  pose questi doni ai piedi degli dei che la ringraziarono amalgamandoli magicamente in una pastiera, più  dolce del suo canto che incantava uomini e dei.

“L’antica pastiera dall’apparenza casalinga, onesta, sincera, color del legno stagionato, decorata col suo modesto traliccio incrociato di pasta frolla. Intanto è un dolce a metà. Il suo sapore è delicatissimo, composto come è dai chicchi di grano primaticcio ammorbiditi e ammollati, da una buona ricotta, da pezzetti di cedro, umida e fragrante d’acqua di fior d’arancio. È un dolce che sa di primavera e di nozze, di innocenza e d’infanzia, di sole e di serenità, un dolce d’altri e forse più felici, almeno più tranquilli tempi (da “Breviario della cucina napoletana” di Mario Stefanile)

 

Un dolce talmente  squisito, da ridare  il sorriso a tutti…

A Napule regnava Ferdinando

Ca passava e’ jurnate zompettiando;

Mentr’ invece a’ mugliera, ‘Onna Teresa,

Steva sempe arraggiata. A’ faccia appesa

O’ musso luongo, nun redeva maje,

Comm’avess passate tanta guaje.

“A Napoli regnava Ferdinando (Ferdinando II di Borbone) che passava le giornate “zampettando”; mentre invece sua moglie, donna Teresa ( Maria Teresa d’Austria) stava sempre arrabbiata. La faccia triste, il muso lungo, non rideva mai, come se avesse passato tanti guai…”( e ci credo… dopo 12 figli e un consorte allegramente zampettante al fianco)

 Finchè un giorno la cameriera propose alla regina un dolce nuovo, che piaceva a uomini , donne e bambini. La pastiera addolcì la regina tanto da strapparle un sorriso. Il re esclamò:

“E che marina!

Pe fa ridere a tte, ce vò a Pastiera?

Moglie mia, vien’accà, damme n’abbraccio!

Chistu dolce te piace? E mò c’o saccio

Ordino al cuoco che, a partir d’adesso,

Stà Pastiera la faccia un pò più spesso.

Nun solo a Pasca, che altrimenti è un danno;

pe te fà ridere adda passà n’at’ anno!”

“E che marina! Per farti ridere ti ci vuole una pastiera? Moglie mia, vieni qua, abbracciami. Questo è il dolce che ti piace? E ora che lo so, ordino al cuoco che, a partir da oggi, faccia più spesso ‘sta pastiera. Non solo a Pasqua, chè altrimenti è un danno: per farti ridere deve passare un anno!”

 Probabilmente la pastiera, come la conosciamo oggi, nacque dall’estro culinario di un’ignota suora, una delle tante dedite alla preparazione di dolci che allietavano le tavole imbandite  di nobili e ricchi borghesi.

 I piatti tipici della tradizione napoletana hanno il pregio o il difetto di non rispecchiare mai un’unica ricetta: sono spesso “insubordinati” nelle dosi e negli ingredienti. Non solo, ma ogni famiglia custodisce gelosamente quella variante che rende il piatto speciale e diverso dalla ricetta base. Come ad esempio la pastiera di cui si trovano ricette con uova e ricotta, con crema pasticcera oppure  con i tagliolini.

 La pastiera mi è cara perché l’ associo a mia madre. Premetto che a tutt’oggi non si cimenta nei dolci se non negli struffoli e nella pastiera, che merita effettivamente un plauso anche per le irregolari strisce incrociate di pastafrolla che sono la sua inconfondibile firma.Mamma dedica un’uscita speciale solo per acquistarne gli ingredienti. Qualche giorno prima di prepararla, mette il grano a mollo nell’ acqua. Il giorno successivo lo cuoce nel latte. E al terzo giorno assisto alla vera resurrezione di mamma. Per soddisfare le richieste di amici e conoscenti, per un giorno intero inforna e sforna dolci di vario diametro, e non vuole essere assolutamente  disturbata in un rituale che le appartiene e al quale ha rinunciato solo due volte in vita sua, a causa del  terremoto e di un grave lutto familiare.

Alla pastiera sono legati aneddoti indimenticabili nella storia della mia  famiglia.Una volta mamma mi telefonò chiedendomi  di ritirare la spesa nel negozio di fronte casa sua e la cosa mi parve alquanto strana perché ha sempre, ma sempre fatto tutto da sola. Non appena mi vide, il salumiere esclamò: “Signora, ho preparato le uova per sua madre. Mi scusi , ma a che cosa servono 60 uova?” Ignara di tutto, capii che erano iniziate le grandi manovre pasquali da pastiera. Fu così che anche il salumiere si guadagnò il suo piccolo e dolce tributo pastieresco.

Poiché le specialità gastronomiche di famiglia si trasmettono ancora di generazione in generazione  (ebbene sì), per anni le ho chiesto la ricetta  della pastiera. In effetti non l’ho mai ricevuta perché lei, come mia suocera, dosa tutto ad occhio e  io non potevo permettermi, in tempo e disponibilità, di cimentarmi in un dosaggio da 60 uova.

Finalmente un giorno ho scoperto la ricetta della bisnonna Sofia e ho imparato a cucinarla, finchè un  bel giorno mio padre in buona fede osò dire che la mia pastiera era buona quasi come quella di mamma. Non l’avesse mai detto! Si sfiorò un incidente coniugale dopo circa 40 anni di matrimonio perché  lei si adombrò; da allora le lasciai volentieri il primato e ancor più volentieri la fatica.Di recente ho ripreso a prepararla con  quel piccolo segreto di mamma che la rende speciale.

Per noi tutti,  la pastiera rappresenta un po’ l’energia, la sostanza e la dolcezza di mia madre. 

Pastiera della bisnonna Sofia.

  Ingredienti:

 

500 g di grano

½  l. di latte

100 g. burro

3 cucchiai di zucchero

1 bastoncino di cannella

100 g di cedro candito tagliato a pezzetti

1 kg di zucchero

1 kg di ricotta

12 uova

buccia  di limone grattugiata

un bastoncino di cannella

essenza di fior d’arancio (una fialetta)

 

Mettere il grano in acqua tiepida e sale per almeno mezza giornata, dopo averlo pulito e sciacquato a lungo.Calarlo in un litro e mezzo d’acqua fredda e lasciarlo bollire (altrimenti comprare il grano già ammorbidito).Cuocere a fuoco lento il grano, già ammorbidito, nel latte, burro, cannella, zucchero e un po’ di sale finchè non si scuoce .

In due terrine battere separatamente i tuorli e gli albumi d’uovo, poi unirli.In un’altra terrina lavorare la ricotta con lo zucchero e versarvi poi il grano cotto nel latte.Aggiungere le uova sbattute, il cedro a pezzetti, il bastoncino di cannella e la fiala di fior d’arancio. Lasciare riposare un po’.

 

Ingredienti per la crema pasticcera

 

300g zucchero

2 uova intere + 4 rossi d’uovo

1 l di latte

120 gdi farina o amido

 un bastoncino di vaniglia ( in alternativa uso una bustina di vanillina)

 buccia grattugiata di limoni verdi .

 

In una pentola lavorare le uova con lo zucchero.Aggiungere un po’ alla volta la farina continuando a mescolare, poi il latte, la buccia di limone e la vaniglia e amalgamare.Cuocere a  fuoco basso mescolando di continuo con un cucchiaio di legno per evitare che la crema si attacchi e si formino grumi. Fare addensare la  crema .

Versare  la crema nell’impasto precedente, lasciar raffreddare  e infine unirvi anche mezzo bicchierino di whisky e qualche goccia di angostura ( variante mia e di mamma che dà un po’ di colore). Mescolare delicatamente. Togliere i bastoncini di cannella.

 Pastafrolla ( ma di solito uso quella surgelata).
 250-300 g di farina

125-150 g di 

zucchero a velo

150 g di burro o strutto

3 tuorli d’uovo

un bicchierino di rum

Mescolare  e lavorare la  farina,lo zucchero e il burro. Aggiungere i tuorli e il rum, comprimendo delicatamente.Foderare una teglia con la pasta frolla, versare l’impasto della pastiera.Preparare strisce di pasta frolla, larghe1-2 cm, da incrociare sull’impasto.

Cuocere a 180° C per un’ora e un quarto circa. Lasciare raffreddare la pastiera e infine cospargere di zucchero a velo.

Le palme di confetti

Durante una domenica delle Palme  del XVI sec., mentre i sorrentini si avviavano a benedire i rami d’ulivo, le campane risuonarono e diedero l’allarme per la presenza di  navi saracene all’orizzonte, pronte ad assalire la costa per l’ennesima volta. Il prete quindi invitò i presenti a benedire l’ulivo in chiesa, prima di correre a difendersi.

Un pescatore, fatto il segno della croce,  non partecipò al rito della benedizione, ma  andò sulla spiaggia di Marina Grande. All’ improvviso scoppiò una provvidenziale tempesta che affondò le navi nemiche. Al naufragio sopravvisse soltanto una schiava che, trascinata a riva dalle onde, prima fu tratta in salvo dal pescatore, poi fu accolta dai sorrentini. In segno di gratitudine la giovane  regalò una manciata di  confetti portati dalla sua terra e custoditi in un sacchetto legato al collo.   

Da questo gesto di pace e  riconoscenza  sarebbe nata la tradizione delle palme di confetti, bianchi e colorati. Queste sono prodotti dell’artigianato locale e richiedono una complessa lavorazione e una precisa manifattura. Di solito intere famiglie si dedicano a quest’attività, che si svolge perlopiù in casa, e rischia di estinguersi perché è poco redditizia. Da qualche tempo si organizzano corsi per  imparare a creare le palme e mantenere viva la tradizione locale.

 

 

Dopo un’attenta selezione, i confetti sono infilati , uno alla volta , in fili di ferro riscaldati che  si lasciano ad asciugare sotto barattoli di vetro per almeno un giorno. Quindi i fili sono poi avvolti in apposite cartine e  infine sono adornati e assemblati  con merletti e foglie di carta in ramoscelli fioriti. Da bambina  ricevevo in regalo un alberello, una sorta di cono di confetti bianchi di varie dimensioni, costellato di confettini argentati…un piccolo e laborioso capolavoro artistico , soppiantato dai più diffusi e variopinti rametti.

Alcune composizioni decorative sono invece  create con un’altra tecnica che impiega e flette il midollo bianco della pianta di fico.

Di recente si sono organizzati concorsi su “Le palme di confetti” per valorizzare l’arte e l’artigianato femminile, tutelare un’espressione della cultura tradizionale locale, divulgare la memoria di un rito sacro e civile, promuovere economicamente la palma come prodotto tipico locale e trasferire la tecnica produttiva tipica della palma per la realizzazione di altri prodotti con diversa destinazione alla conquista di  mercati più ampi, oltre quello locale e il tempo pasquale.

 Ecco alcune creazioni!

 

 

Le anime pezzentelle del Cimitero delle Fontanelle di Napoli

Il Miglio Sacro è un itinerario restituito alla città di Napoli che parte dalle antiche catacombe di San Gennaro e arriva alla Cappella del Tesoro di San Gennaro  attraversando tutto  il Rione Sanità, un quartiere che può riscattarsi con  la storia millenaria di  un patrimonio artistico ed archeologico  poco reclamizzato.  Questa zona si può considerare la culla del culto dei morti, celebrato e consacrato attraverso funzioni, devozioni e rituali  che fondono religione e magia. Qui sorsero la necropoli greca,  in origine fuori dalle mura della città,  le catacombe paleocristiane ed infine, in una cava di tufo, l’immenso ossario del cimitero delle Fontanelle che di recente è stato riaperto.  

Tra il Seicento e il Settecento la cava fu utilizzata come cimitero per i poveri e soprattutto per le vittime della peste del 1656 che  a Napoli aveva causato circa 300000  morti e non pochi problemi di igiene  e di reperimento di spazi sufficientemente capienti per seppellirli, anche perché le catacombe avevano già accolto le vittime dell’epidemia del 1479.  Come riferisce il canonico Andrea De Jorio, verso la fine del Settecento persone abbienti chiedevano di essere sepolte nelle chiese ma, a funerali avvenuti, di notte i becchini trasportavano le salme nelle cave inutilizzate per evitare sovraffollamento nelle chiese.

Dopo un allagamento della cava, che  portò in superficie le capuzzelle ( piccole teste, cioè i teschi) in uno scenario apocalittico, le ossa vi  furono ricomposte e  furono  costruiti un muro e un altare nell’antro, riconosciuto ormai come ossario della città. In seguito all’editto napoleonico di Saint Cloud del 1804, che vietò le sepolture nelle città e nei luoghi pubblici, nell’ossario furono raccolti anche i resti umani  rinvenuti nelle terre sante delle tante chiese napoletane o durante gli scavi archeologici , come in Via Acton nei pressi del Maschio Angioino,oltre  le vittime del colera del 1836. Sono visibili decine di migliaia di  teschi e ossa lunghe ad eccezione delle due salme intatte e  vestite di Filippo Carafa, conte di Cerreto e di Maddaloni, e di sua moglie Margherita.

Alla fine dell’Ottocento padre Gaetano Barbati coordinò alcuni devoti per  riordinare le ossa in cataste e fece costruire la sobria chiesa di Maria Santissima del Carmine  nel sito delle Fontanelle.  Da allora sorse uno spontaneo e particolare culto popolare per gli ignoti defunti, che consisteva nell’adozione delle anime pezzentelle del Purgatorio, bisognose di cure e preghiere, in cambio di grazie e favori. Questo culto, ancor oggi limitatamente praticato, è una porta rituale tra il mondo dei vivi e dei morti: i morti chiedono ai vivi una preghiera  e i vivi, perlopiù donne, si rivolgono alle anime abbandonate che fanno da tramite tra la vita terrena e quella ultraterrena. Il limite tra la fede – tradizioni popolari e la superstizione è sottile, ma i devoti sentono più vicini a loro le anime pezzentelle di umili origini nelle quali ritrovano comuni miserie, sofferenze e solitudini.     L’adottante sceglieva  una capuzzella, la puliva e la lucidava, la poneva  su un fazzoletto ricamato ed infine, durante visite periodiche, le offriva lumini, fiori e preghiere “A refrische ‘e ll’anime d’o priatorio”.  Poi la circondava con un rosario e la adagiava su un cuscino, ornato di pizzi e ricami . Solo dopo questo rituale  pare che l’anima purgante apparisse in sogno , richiedendo “refrisco” ( cioè preghiere e cure per essere sollevata dalla sofferenza) e svelando la sua storia personale. Se la capuzzella iniziava a sudare, significava che si stava adoprando per intercessioni a favore del devoto o per concedergli la grazia . In realtà l’alto tasso di umidità della cava ancor oggi  provoca  la formazione di gocce di condensa sui teschi, facendoli sembrare sudati. A questo punto l’animella entrava a fare parte della famiglia e  veniva custodita in un tempietto di marmo o di legno, in una teca di vetro, a volte pure in una semplice scatola metallica di biscotti , sui quali si incidevano  il nome dell’adottante  e l’anno di ricevimento della  grazia. Se però non venivano esaudite le richieste, quali guarigioni, matrimoni,vincite al lotto, il devoto poteva rimpiazzare  la capuzzella con un’altra,  nella speranza che si rivelasse più benevola. Se il teschio non sudava, significava che l’anima pezzentella era in uno stato di sofferenza ed  impossibilitata ad elargire grazie, quindi bisognava confidare in entità celesti più potenti. Nel 1969 il cardinale di Napoli Ursi  vietò come pagana e superstiziosa questa forma di devozione, frutto della religiosità popolare.

 

Gli oltre 40000 resti, sistemati nei lunghi corridoi del cimitero delle Fontanelle, a volte formano macabre strutture come quella del Tribunale e della Biblioteca. Quest’ultima ricorda gli scaffali di una libreria,  formati da teschi e ossa lunghe, ben allineate e calcificate, che incorniciano l’edicola del  Sacro Cuore di Gesù. Inquietante è il Tribunale  con le sue tre croci su un Golgota di teschi, dinanzi al quale- così pare-  i camorristi  convenivano per lugubri rituali di affiliazione. Un’aria decisamente sinistra ha invece  il Monacone, la statua decapitata di San Vincenzo Ferrer.

L’anima purgante più famosa delle Fontanelle è il Capitano, probabilmente spagnolo, che ha aiutato molti devoti . Esistono varie leggende sul Capitano ma la più nota riguarda due sposi. Si narra di una giovane promessa sposa che venerava molto quest’anima pezzentella. Il suo fidanzato, ritenendo che le cure prestate ad ignote ossa fossero inutili, un  giorno accompagnò la futura consorte nell’ossario per veder da vicino il teschio. Infilò un bastone nella sua cavità orbitale e con modi provocatoriamente scherzosi lo invitò al matrimonio. Il giorno delle nozze  tra gli invitati comparve un carabiniere che nessuno conosceva . Quando lo sposo gli chiese da chi fosse stato invitato, questi rispose che proprio lui l’aveva fatto e, aprendo la divisa, si mostrò in tutta la sua nudità scheletrica  provocando la morte di crepacuore dei due sposi. La leggenda vuole che i resti degli sposi siano conservati presso la statua di Gaetano Barbati, mentre si pensa che essi siano stati dipinti sulle pareti delle catacombe di san Gaudioso. Non oso immaginare cosa sia potuto succedere nell’aldilà all’arrivo della promessa e mancata sposa che deve avere fatto una bella sfuriata sia al fantasma del Capitano che allo sprezzante fidanzato.  

Altra anima pezzentella , per la quale si nutre particolare devozione, è  la sposa Lucia, morta in naufragio col suo sposo o travolta da un’onda mentre lo attendeva su una scogliera. La sua capuzzella è ornata di velo nuziale ed omaggiata di  fiori, lumini e suppliche scritte. Si trova però in via dei Tribunali, precisamente nella  chiesa delle Anime del Purgatorio ad Arco, dall’ inconfondibile facciata barocca, realizzata da Cosimo Fanzago, adorna di  teschi e femori di bronzo. La Chiesa, comunemente detta d’e cape ‘e morte o d’e capuzzelle fu costruita nel 1638 ad opera di una  congregazione di nobili che dal 1604 raccoglieva  fondi per la celebrazione di messe in suffragio alle anime del Purgatorio. Qui è esposta la tela  la “Madonna delle Anime Purganti” di Massimo Stanzione (nel 1635) . Quando la chiesa fu chiusa in seguito al terremoto del 1980, molti devoti chiesero di potere accedere all’ipogeo in quanto spesso chiamati in sogno dalle anime purganti  ma  poterono riprendere le visite soltanto nel 1992.

Questo culto così particolare non solo è una sorta di misericordiosa alleanza e complice intesa tra i poveri vivi e i poveri morti per un aiuto reciproco, ma anche  un’occasione per riflettere sull’aldilà attraverso  i teschi, simboli di contemplazione dei santi nelle  opere dei grandi autori, quali Caravaggio, Jusepe de Ribera, El Greco, Van Dick, Georges deLa Tour, Rembrandt.

Il culto delle anime pezzentelle approda alla consapevolezza che in fondo  “all’ àutro munno simm tutte eguale” e “Simm tutt cape ‘e  morte”, cioè che  “la morte è la completa uguaglianza degli ineguali”, è “una livella”  a detta di  Totò: ciò che era visibile e rilevante in vita diviene invisibile ed irrilevante nella  dimensione sospesa (“queste pagliacciate le fanno solo i vivi: noi siamo seri…apparteniamo alla morte”,  proclama l’ombra del netturbino a quella del marchese che disdegnava di essere sepolto accanto a lui) .

Napoli si legge anche  tra i vicoli , negli usi e costumi e in ciò che a prima vista non appare, come una metafora tra le righe. Visitare questi luoghi di culto popolare  consente di esplorare il mistero, ove si confondono riti sacri e profani, religione e magia. L’iniziale incredulità o scetticismo  svaniscono man mano che nel rituale delle anime pezzentelle si riconoscono un generale  bisogno di essere ascoltati per ricevere conforto e sollievo, di ascoltarsi nel raccoglimento di una preghiera, per gli altri e per se stessi, di trovare conferme di protezione nei meandri della fede o della suggestione superstiziosa. Alla sensazione di profanare l’intimità della morte subentra la pietosa accoglienza  del silenzio delle anime purganti e proprio nelle tenebre, percependo il destino dell’umanità  di sempre, si intravede una speranza di redenzione dei vivi e dei morti per scattare in avanti nella vita terrena e ultraterrena.

“Questo guazzabuglio di fede e di errore, di misticismo e di sensualità, questo culto esterno così pagano, questa idolatria, vi spaventano? Vi dolete di queste cose, degne dei selvaggi? E chi ha fatto nulla per la coscienza del popolo napoletano? Quali ammaestramenti, quali parole, quali esempi, si è pensato di dare a questa gente così espansiva, così facile a conquidere, così naturalmente entusiasta? In verità, dalla miseria profonda della sua vita reale, essa non ha avuto altro conforto che nelle illusioni della propria fantasia: e altro rifugio che in Dio.”

(Da “Il ventre di Napoli” di Matilde Serao)

 Articoli correlati:

Chiesa di San Giovanni a Carbonara, Napoli

L’incostante bellezza del rione Sanità: palazzo Sanfelice e palazzo dello Spagnolo

Rione Sanità- le catacombe di Napoli

 

Rione Sanità- le catacombe di Napoli

 

Ai piedi della collina di Capodimonte si  estende il rione Sanità, un noto quartiere popolare di Napoli che nel 1898 diede i natali a  Totò in Via Santa Maria  Antesaecula e in seguito ha ispirato trame e personaggi di  numerosi film e opere teatrali. Qui hanno abitato popoli provenienti dal Sud e dall’Est del mondo, africani e cinesi, e sono passati  nobili, papi, re e cardinali. Qui è molto forte il senso di appartenenza ai vicoli, ai palazzi, agli usi e costumi, ai riti sacri e profani dettati dalla religione e dalla magia.

Napoli ha un cuore e un ventre, in cui è  dislocato un patrimonio nascosto, archeologico e artistico, da scoprire attraverso una stratigrafia che s’addentra  nelle viscere della terra.

L’invisibile Napoli sotterranea si articola  in un labirinto di cunicoli, pozzi e cisterne, ipogei e cave greche, catacombe,  gallerie di epoca romana, ossari e tombe scavati nel tufo. È una città oscura, luogo di passaggio e tramite tra il mondo conosciuto e quello sconosciuto e silenzioso  dell’Oltretomba,  dove si confondono storia e leggende, fede e superstizione. Un  mondo sommerso col quale i napoletani  si conciliano per esorcizzare la paura della morte e, seppur limitatamente ancor oggi, si alleano offrendo preghiere e cure ad ignoti defunti, anime pezzentelle del Purgatorio, in cambio di grazie e favori,  quali una guarigione, un matrimonio o numeri vincenti al lotto nella speranza di ingraziarsi la buona sorte per sopravvivere ad un’esistenza complicata, ad un atavico  destino reso avverso dalle epidemie di peste e colera, dalle alluvioni e terremoti, dalle dominazioni del dio o del potente di turno accettati con fatalistica rassegnazione.

Un universo buio, lugubre, sospeso in un sonno eterno, che porta al nulla o a qualcosa, ove si smarriscono le coordinate di spazio e tempo.

 Napoli è simbiosi di vita e di morte, entrambe celebrate e consacrate attraverso funzioni, devozioni e rituali  che confluiscono nel radicato culto dei morti.

I sepolcri più antichi sono gli ipogei greci della Sanità e dei Vergini, situati a  10-11 metri di profondità dal livello della strada.  Le necropoli risalgono al IV e II secolo a. C. e sono ricche di sarcofagi dipinti e scolpiti che ricordano le tombe anatoliche, macedoni ed alessandrine. Per lungo tempo rimasero sepolte  dalla “lava”, cioè dal fiume alluvionale di detriti e fango che fino agli anni ’60 ha  afflitto questa zona.  In effetti sin dal tempo dei greci si estraeva il tufo , impiegato per le costruzioni,  dando così  luogo a  immense grotte e cavità. Prima ancora che le cave di tufo fossero adibite ad ossari , le famiglie dell’aristocrazia greco-napoletana, che fuse elementi greci e sanniti, vi costruirono  eleganti sepolcri. Da qui il nome di “Valle delle tombe”. Nelle stesse aree sotterranee  dagli ipogei si è poi passati nel II secolo alle catacombe paleocristiane di San Gennaro, San Gaudioso e San Severo, che prendono nome dalle spoglie dei martiri.

Nelle vicinanze del santuario della Madonna del Buon Consiglio (zona di Capodimonte) si estende il vasto complesso cimiteriale delle catacombe di San Gennaro, nate tra il II e IV secolo  e articolate  su due piani e in più corridoi, a differenza di quelle romane. Divennero luogo religioso e di sepoltura quando accolsero i resti del vescovo Agrippino e nel V secolo furono dedicate a San Gennaro , il cui corpo pare sia stato collocato qui per lunghissimo tempo. Oltre a reperti e affreschi di interesse artistico sono un luogo suggestivo, cosparso di nicchie e loculi, grandi e piccoli. Pare che vicino al santo potessero riposare solo i puri di cuore, quali i bambini, e questo spiega la presenza di piccoli loculi sulle pareti. 

Fino all’XI secolo vi furono sepolti i vescovi napoletani, subirono saccheggi tra il XIII e XVIII secolo e infine furono  restaurate dopo il trasferimento dell’ossario nel Cimitero delle Fontanelle.

Dopo circa 40 anni di chiusura ora sono state riaperte al pubblico e vi si accede o dalla collina di Capodimonte, a fianco della  chiesa della Madre del Buon Consiglio, o  dalla Basilica di San Gennaro fuori le mura, situata all’interno dall’ospedale di San Gennaro dei Poveri nel rione Sanità.

 

L’intero quartiere Sanità è dominato dalla cupola della Basilica di Santa Maria della Sanità, rivestita di  maioliche smaltate gialle e verdi . Fu costruita dai  Domenicani  tra il 1602 e il 1613 , su progetto di Giuseppe Donzelli detto Fra Nuvolo. E’ nota come la chiesa di San Vincenzo,detto o’ Munacone in onore del domenicano Vincenzo Ferreri,  uno dei tanti santi protettori della città. Una sontuosa scala a tenaglia, che porta all’altare maggiore, incornicia la cripta dalla quale  si accede alle nascoste catacombe paleocristiane di San Gaudioso, risalenti al V sec. d. C. dove fu sepolto Settimio Celio Gaudioso, vescovo di Abitine, una località non identificata dell’Africa proconsolare.

 La catacomba di San Gaudioso è il secondo cimitero paleocristiano di Napoli per ampiezza e importanza, dopo quello di San Gennaro. Ha subito trasformazioni, per cui è difficile definirne l’estensione o  l’esistenza di locali più antichi di quelli attuali. Fu abbandonato  all’ incirca nell’anno mille e in seguito le “ lave” lo invasero nascondendone l’ingresso.

 

In un’edicola nell’angolo nord della cripta, nel 1579 si scoprì un’immagine della Madonna alla quale iniziarono ben  presto a rivolgersi  alcuni devoti. È la più antica raffigurazione mariana dell’arte paleocristiana di Napoli, forse del V o VI secolo. La pittura è quasi svanita e la si nota osservandola da lontano: la Madonna, seduta e velata,  ha in braccio il Bambino che stende il braccio destro spiegando le prime tre dita della mano quasi per benedire o indicarela Trinità, mentre la mano sinistra è sul globo sormontato dalla croce e appoggiato sul ginocchio della madre. A questa Madonna si attribuirono una serie di miracoli e divenne oggetto di culto popolare e meta di pellegrinaggi. Un frate domenicano, Antonino da Camerota, in poco tempo raccolse elemosine per  costruire una chiesa in onore della Vergine. Fu accusato di superstizione, idolatria, raggiro ed estorsione di denaro  ma il processo fu insabbiato e nel 1581 il frate fu scarcerato e riabilitato. Ripresero i lavori di costruzione della chiesa che fu ultimata in pochi anni.

Caratteristica  delle catacombe di San Gaudioso sono le nicchie a forma di sedile, dette “cantarelle” che  servivano per una particolare tecnica di inumazione : il morto veniva sistemato nella nicchia dotata di  un vaso a due manici sottoposto e ricavato nel tufo ( da kantharos , coppa greca a calice con due anse,  da cui cantaro che nelle basiliche cristiane era la vasca per le abluzioni e da cui è derivato più prosaicamente il vocabolo napoletano o’ cantaro, cioè il vaso da notte). Il defunto veniva messo a “scolare”  fino alla decomposizione, così poi i suoi resti venivano deposti in un ossario comune o in una tomba privata .Si pensa che gli “schiatta muort”  in origine fossero coloro incaricati di incastrare i defunti in questi sedili  e dalle cantarelle sia derivato l’imprecazione napoletana “Puozze sculà!”,  che di fatto è un pessimo augurio. 

Sulle pareti dei cunicoli ci sono dipinti del VI secolo  e particolari effigi funerarie  del XVII  secolo: sotto i teschi veri, incorporati nel muro nel Seicento, i corpi venivano dipinti  con le vesti e i simboli del rango del defunto. Ai lati del cranio si segnavano le iniziali del nome e cognome del defunto, accompagnati da una citazione biblica. Qui trovarono sepoltura frati domenicani e aristocratici come il magistrato Diego Longobardo, morto nel 1632, le nobildonne Maria De Ponte e la principessa di Montesarchio Sveva Gesualda. Uomini e donne erano separati anche nella sepoltura eccetto due personaggi  le cui mani si intrecciano sui rispettivi cuori. Una credenza popolare vuole siano gli sposi  che morirono di crepacuore alla vista del fantasma del Capitano spagnolo, ossequiato da lei e offeso da lui nel Cimitero delle Fontanelle, che si presentò alle nozze.

Unico “ borghese” dipinto  è il pittore Giovanni Balducci, al quale si attribuiscono gli affreschi delle catacombe, il cui nome compare per esteso e viene raffigurato con una riga nella mano destra e una tavolozza nella sinistra. 

La morte domina sul tempo, che scorre inesorabile come la sabbia nella clessidra, e sull’ effimero potere dei mortali rappresentato dalla corona e dallo scettro. 

A Napoli si dice “ Basta a’ salute, tira a’ campà” perché  in fondo “a tutto c’è rimedio, tranne alla morte”. Saggezza popolare che spiega l’inconfondibile  vitalità e ilarità partenopea maturata  tenendo gli occhi aperti anche nelle tenebre, dove lo sguardo guarisce dagli affanni del mondo.

 

“Sono nato in Rione Sanità, il più famoso di Napoli.

La domenica pomeriggio le famiglie napoletane usavano riunirsi nelle case dell’una o dell’altra, e là chi suonava la chitarra, chi diceva la poesia, e chi cantava. I giovanotti guardavano le ragazze, gli tenevano la mano, si innamoravano”

 

 Il Principe Antonio De Curtis, in arte Totò

 

La lunga e incerta storia della pizza

E chi l’avrebbe mai detto che la pizza si ricollega alla guerra tra il bene e il male nell’antica mitologia greca? Quando  il dio delle tenebre Ade rapì la bella Persefone, figlia di Cerere, la dea afflitta  iniziò a cercarla e giunse in  incognito ad Eleusi. Qui il re Celeo e sua moglie Metanira piangevano per la triste sorte del loro  figlioletto Trittolemo che stava per morire perché privo del latte materno. Cerere donò  forza, vigore e immortalità  al piccolo per ricambiare dell’ospitalità ricevuta e, quando Metanira  le offrì una coppa di dolcissimo vino, chiese una bevanda fatta di farina e acqua aromatizzata con basilico.

 Pare che nel corso dei secoli questi ingredienti siano stati usati in dosi diverse e, con l’aggiunta di olio, abbiano poi dato origine alla plax , una sorta di focaccia.

Nell’antico Egitto si usava festeggiare il compleanno del faraone consumando una schiacciata condita con erbe aromatiche; nell’antica Grecia schiacciate e una sorta di focaccia di farina d’orzo, la cosiddetta maza, erano alimenti molto diffusi, come  nell’antica Roma focacce lievitate e non, tra le quali la placenta e l’offa impastata con acqua e farro. Proprio nelle botteghe di via dell’Abbondanza a Pompei furono scoperte scodelle per il cacio e la cuccuma per l’olio e addirittura una statuina del « placentario » conservata nel museo archeologico di Napoli. 

 In verità la pizza ha una lunga, complessa e incerta storia. La parola “pizza” risale al latino volgare di Gaeta nel 997 e di Penne nel 1200; nel ‘500 a Napoli si chiamava “ pizza” un pane schiacciato, dalla storpiatura della parola “pitta”. Tra il Cinquecento e il Seicento a Napoli si faceva una pizza soffice “alla mastunicola”, preparata con strutto, formaggio, basilico e pepe,  più tardi quella con i “cecenielli”, cioè bianchetti; mentre fu condita con il pomodoro forse a metà Settecento.

Più controverso ancora è l’arrivo dei bufali in Italia:per alcuni essi furono  importati  dall’Africa dai Romani e si ambientarono facilmente nella piana del Volturno e del Sele, per altri furono portati dai saraceni ma solo i longobardi li sfruttarono al meglio. Il pomodoro sbarcò a Napoli solo dopo la scoperta dell’America e presumibilmente nel 1550, in cucina anni dopo.

Sulle origini della pizza esistono diverse versioni, a volte un po’ fantasiose. In verità la pizza non ha un’unica paternità: si sa che è nata a Napoli dalle esperienze trasmesse di porta in porta, di vicolo in vicolo. Nel ‘700 la pizza veniva cotta in forni a legna per essere quindi venduta nelle strade e nei vicoli della città: un garzone di bottega, che portava in equilibrio sul capo una piccola stufa, consegnava a domicilio le pizze variamente condite, preannunciando il proprio arrivo con versi e richiami tipici. Tra il ‘700 e l’800 la pizza diventò un alimento largamente diffuso e apprezzato e quindi si affermò sempre più l’abitudine di gustarla presso i forni oltre che per strada o in casa. Nacquero quindi le pizzerie ove si cimentarono dinastie di pizzaioli. 

Prime notizie documentate sulle pizzerie risalgono alla fine del 1700: nel 1762 esisteva a Napoli, nella salita di santa Teresa degli Scalzi,  la pizzeria di “Ntuono Testa” frequentata anche dai  re Ferdinando I e Ferdinando II di Borbone.

Nel 1780 sorse nella salita S.Anna di Palazzo  la pizzeria “Pietro e Basta Così”, divenuta poi pizzeria Brandi , che ancora oggi è  una delle più famose pizzerie della città. Si trovava di fronte al palazzo Reale e da qui il cuoco Raffaele Esposito guardava spesso il tricolore con lo stemma sabaudo che sul balcone del palazzo informava della presenza dei reali. Il pizzaiolo, come l’intera città, si sentiva onorato della nascita del  piccolo Vittorio Emanuele III a Napoli ,voluta dal re Vittorio Emanuele II, e così decise di fare un dono alla regina Margherita  mettendo a frutto  la sua creatività gastronomica. Ispirato dai colori  del tricolore pensò di usare  il verde basilico, la bianca mozzarella e il rosso pomodoro  per condire  una pizza patriottica  alla quale diede il nome di  Margherita in onore della prima regina d’Italia.

Nel giugno del 1889 il pizzaiolo fu invitato alla reggia di Capodimonte perché preparasse le sue famose pizze alla regina che desiderava qualcosa di  nuovo. Una splendida occasione per fare conoscere la sua pizza margherita. Don Raffaele con la moglie Maria Giovanna Brandi si recò alla reggia su un carretto trainato da un asinello portando tutto il necessario per la sua nuova specialità. Preparò tre pizze: una bianca, con olio, formaggio e basilico, una con i cecenielle (pesciolini) e infine  una con mozzarella, pomodoro e basilico.

Tra lo stupore dei cuochi, inebriati dal profumo dei semplici e comuni ingredienti, la regina gradì molto la pizza tricolore, che in suo onore fu battezzata pizza margherita. Questa ottenne un certificato d’onore e ancor oggi la pizzeria Brandi in via Chiaia espone un documento firmato da Camillo Galli, capo dei servizi di tavola della reale casa dei Savoia, ove si attesta il merito della famosa pizza margherita.

 La più semplice e gustosa delle pizze, destinata a entrare nella tradizione culinaria di Napoli, nata per sopperire alla cronica fame del popolo napoletano conquistò ben presto una fama mondiale.

Articoli correlati:

Sulla storia della pasta

Reginella

Nei film degli  anni ‘50 la donnina era  di solito una ragazza un po’ sempliciotta e sprovveduta , sedotta e abbandonata dal mascalzone di turno, disonorata al punto tale da essere costretta a fuggire  dal paesello per  lavare l’onta subita dalla famiglia d’origine. Trovandosi  in difficoltà , in città veniva adescata da una marpiona esperta che la instradava con l’illusione di una vita agiata tra cuménda e palazzinari, viziosi ma benestanti, e finiva in una  casa di tolleranza  demonizzata dai politici e religiosi di ogni tempo,  ma in effetti tollerata nella consapevolezza dell’importante ruolo  svolto nel contesto sociale.

Lì  intere generazioni di uomini perseguivano  il piacere fine a se stesso , immerso e sommerso in arredi  e broccati barocchi,  tra statue neoclassiche e tendaggi pesanti. Le ragazze in  déshabiller apparivano come dee in cima a scalinate, audaci protagoniste dell’immaginario collettivo maschile molto represso e apparentemente castigato. Regine di  passerelle, maestose, formose, generose, stelle lucenti nella noiosa ed ipocrita monotonia borghese dove  la vita era scandita da rituali formali   e i sentimenti erano raramente sinceri .

I bordelli erano oasi felici in cui  la libido poteva scorrazzare indomita e l’istinto puro  si liberava dei freni  inibitori di mogli sconsolate e apatiche, sterili  di vive  emozioni, addestrate a ruoli sociali prestabiliti, necessariamente condivisi per poter appartenere all’élite. Un mondo basato su una sorta di  riscatto sociale, sull’etichetta anche se ipocritamente poco sentita, sulle maniere apparenti, sui cerimoniali castranti della spontaneità. Dall’altra parte c’erano le case del piacere popolate da seduttrici dagli spiccati accenti e inflessioni regionali, Veneri intriganti che facevano sognare. Tra  concessioni di favori , di  frizzi e lazzi, di sorrisi e di risate schiette, di sguardi sfrontati  e forme generosamente in mostra ruotava  un mondo  trasgressivo, un paradiso per iniziare ai piaceri della vita il giovincello e  soddisfare i robusti appetiti sessuali  di scapoli e ammogliati. Lì ogni tabù spariva dietro la porta chiusa e  nella  penombra di persiane accostate. Era  un mondo alternativo a quello reale dove talvolta nascevano amori veri dal lieto fine,  talvolta  tormentate passioni impossibili.

La legge Merlin ha fatto chiudere quelle case, segnando la fine di  un’epoca storica. Il mestiere più antico del mondo  ha però  continuato ad essere svolto per necessità,  per vocazione, a volte  per noia, spesso   per vero e proprio sfruttamento del sesso  di donne private di ogni dignità, rapite, ingannate, vendute, violate, sbattute sulla  strada, maltrattate da aguzzini e clienti.

 Donne senza  lacrime né poesia, senza  sorrisi sinceri. Lucciole che brillano a  intermittenza sui cigli delle strade provinciali, solitarie, squallide, buie. Falene  notturne infreddolite  vicino a piccoli falò, variopinti animali esotici, trampolieri in bella mostra  che danzano , che imitano, che interpretano un ruolo sempre uguale . Vite succubi  di avidi imprenditori.

 Esistono  però anche le professioniste  del sesso, quelle che  lavorano in proprio: vere  imprenditrici di loro  stesse e  arrampicatrici sociali. Investono  in titoli e  nel mattone per poter vivere di rendita quando la natura reclamerà il suo dazio e cesserà la stagione del bell’ apparire. Le signorine programmano il  loro futuro, non potendo vantare un passato; corrono  nel presente e non si voltano mai  indietro, guardano sempre avanti .Si  riscattano col  benessere materiale.

“Si dice che ad ogni rinuncia corrisponda una contropartita considerevole,

ma l’eccezione alla regola insidia la norma…

se è vero che ad ogni rinuncia corrisponde una contropartita considerevole,

privarsi dell’anima comporterebbe una lauta ricompensa”

(Carmen Consoli) 

Alla rinuncia del cuore per lo meno corrisponde  un buon tornaconto economico.

 Tempo fa  la Corte di  Cassazione ha ritenuto  che i  proventi dal meretricio sono da intendersi come  una «forma di risarcimento del danno» che la donna subisce alla sua dignità , vendendo se stessa. Ma  tutto cambia e diviene. Circa cinque anni fa  la  Commissione tributaria della Lombardia ha condannato una prostituta, proprietaria di sei appartamenti e di due auto, a pagare quasi settantamila euro tra tasse e sanzioni perché non ha dimostrato  la provenienza del suo reddito. Insomma  la signorina in questione  non è stata in grado di dimostrare come aveva accumulato tutti quei beni, esibendo magari un atto di donazione o regolare fattura, quindi risultava che  non aveva pagato le tasse su un gettito extra, non dichiarato.

Di qui il dilemma se le lucciole debbano pagare le tasse e debbano esser riconosciute come in tanti altri paesi. Hanno  un loro sindacato e  rivendicano  accoglienti strutture aziendali dove erogare ed espletare servizi ad un’utenza varia  per età e richieste, dove tutto sia scandito con precisione  secondo una tabella di marcia di appuntamenti quantificati e definiti per durata  e impegno. Come saranno qualificate? Consulenti sessuali, lavoratrici dello spettacolo o professioniste della grande distribuzione?  Madame del volontariato sociale, espletatrici di un  lavoro socialmente utile ? Non ci sarà  più  sfruttamento della prostituzione ma si passerà alla legalizzazione  del  commercio sessuale.Saranno garantiti minimi salariali e tariffari uniformi comprensivi di IVA in ogni  regione, a prescindere dalla qualità dell’ erogatrice del piacere o dell’ abilità mostrata , versamenti di contributi previdenziali e di quote assicurative in caso di infortunio o incidente sul lavoro . Sarà effettuato una sorta di censimento periodico che escluderà  le minori e assicurerà effettivi controlli  sanitari. Il  meretricio sarà un’occupazione provvisoria o definitiva come ogni altra, risponderà alla flessibilità organizzativa, sarà periodicamente monitorato  nel suo rendimento di mercato.

 Poco  importa se verrà meno la sensazione di trasgredire furtivamente per evadere dalla  quotidianità e  ricercare ebbrezze diverse, di  sottrarsi allo sguardo severo e vigile della propria coscienza .Basterà essere in regola col fisco!

Il Carnevale a Napoli ovvero come le allegre usanze dai salotti sconfinarono nelle piazze.

La festa di Carnevale ha radici molto antiche, che si diramano un po’ ovunque, sia in Italia che all’estero.

A Napoli il 17 gennaio segnava l’ingresso del Carnevale e, in occasione della festa di Sant’Antonio Abate, si dava fuoco- pratica molto diffusa- a cataste di roba vecchia ( i cippi).Al più comune Carnevale, immaginato come un personaggio grasso e dedito a grandi abbuffate , si affiancava la “ Vecchia ‘o Carnevale”, dalle giovani e prorompenti curve, che trasportava a cavalcioni o sulla gobba un piccolo Pulcinella.

 Giovan Battista del Tufo racconta le tradizioni carnevalesche di Napoli in “Ritratto o modello delle grandezze, delle letizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli”. All’epoca degli aragonesi il Carnevale era sontuosamente festeggiato dai nobili che ambivano gareggiare in tornei e giostre e partecipare a  grandiosi ricevimenti, indossando sfarzosi costumi e fulgide armature. Nel XVI secolo il gaudente popolo partenopeo si appropriò di questa festa, inscenando sguaiati canti e rappresentazioni in maschera lungo Via Toledo e nel Largo di Palazzo (l’attuale piazza Plebiscito). La festa, sovvenzionata dai nobili che vi si intrufolavano volentieri, era organizzata dalle Corporazioni delle Arti e mestieri. Ben presto l’allegra usanza di mascherarsi  scavalcò barriere sociali e sconfinò nelle strade e nelle piazze. Memorabile fu la mascherata promossa dal principe di Tarsia che per le vie della città fece sfilare accanto ai paggi, riccamente vestiti, la corporazione dei pescivendoli ornati di gioielli, prestati dagli orefici in cambio di pesce fresco.

Nel 1656 si allestirono carri allegorici, addobbati anche con prodotti mangerecci. Usanza molto gradita che si perpetrò negli anni successivi, grazie alla generosità del re e delle Corporazioni. I carri – cuccagna, che accompagnavano le cavalcate e le quadriglie dei baroni, dei cavalieri e delle Corporazioni delle Arti, venivano poi presi d’assalto dal sempre affamato popolo napoletano. Le maschere al seguito dei carri si esibivano in cartelli carnevaleschi propri, cioè canzoni dialettali scritte su pezzi di carta o di stoffa che scherzosamente decantavano le attività e i  prodotti delle corporazioni e infine venivano lanciati al pubblico e al re.

 

Poiché a volte il saccheggio dei carri provocò gravissimi incidenti, nel 1746  re Carlo di Borbone stabilì che i carri –cuccagna, invece di attraversare la città, fossero allestiti nel largo di Palazzo e fossero presidiati da truppe armate fino all’inizio dei  festeggiamenti.  I carri furono poi sostituiti da  più stanziali  cuccagne, allestite in sei giorni da una schiera di architetti e artigiani e, addobbate con caciocavalli, prosciutti, pollastri, capretti, quarti di bue, agnelli e vino, venivano poi offerte alla plebe durante le quattro domeniche di Carnevale. Dopo pochi minuti dallo sparo del cannone che dava il via all’arrembaggio, delle cuccagne ovviamente non rimaneva nulla. Nel 1764 ci fu una grave carestia , e la cuccagna fu una tentazione troppo forte per il deperito popolo che quindi assalì i soldati e portò via ogni cosa prima dell’inizio dei festeggiamenti. Si rese necessario l’intervento della cavalleria  per riportare l’ordine dopo un inevitabile spargimento di sangue. Così la cuccagna fu sospesa fino al 1773; l’ultima festa si ebbe nel 1778  con saccheggi e tumulti a volte qualche ora, a volte giorni prima dell’inizio. L’anno dopo la Gazzetta Universale annunciò che l’eletto del popolo D. Ferdinando Lignola aveva deciso di abolire questa forma di divertimento rivelatasi troppo pericolosa. Il re pensò bene di devolvere per il matrimonio di  venti povere ragazze la somma destinata al Carnevale.

  Al tempo dei Borboni la festa era annunciata al popolo con il prolungato suono di grosse conchiglie, dette tofe. E via per le strade si riversavano festosi e baldanzosi cortei che danzavano al ritmo di strani e rumorosi strumenti  detti  ‘o putipù,  ‘o triccaballacche e  ‘o scetavaiasse ( quest’ultimo- come dice il nome-poteva addirittura svegliare le volgari vaiasse, che pare sprofondassero in un sonno ristoratore dopo estenuanti fatiche).Una folla chiassosa di uomini,donne e scugnizzi invadeva ogni luogo, circondava le carrozze e ossequiava con coriandoli e uova piene di farina  i malcapitati nobili o abati. Gli aristocratici quindi si limitavano a lanciare coriandoli e fiori da balconi addobbati a festa. I signori preferivano festeggiare partecipando al ballo e al pranzo nel teatro San Carlo, che veniva trasformato per l’occasione . In verità alcune dame e cavalieri approfittavano del Carnevale per travestirsi e mescolarsi al popolo e poter  compiere, indisturbati, lascive trasgressioni.

Nell’800 l’allegra fantasia carnevalesca straripò in idee e costruzioni originali. Basti ricordare  l’insolita e divertente cavalcata di struzzi, che annunciavano il passaggio dei carri allegorici in Via Toledo, oppure i carri con  il cavallo impennato, simbolo della città, con l’immancabile e sorridente popolana al balcone, o la cornucopia dell’Abbondanza o  la seducente sirena Partenope.

Pian piano i festeggiamenti del Carnevale si ridussero a feste rionali. Su un carro troneggiava un  grasso Carnevale , ornato di provoloni, salsicce e prosciutti . Al seguito sfilavano donne in lacrime per il suo cattivo stato di salute, che recitavano le infelici diagnosi dei medici dei tre rioni più popolari di Napoli ( il Mercato, il Pendino e il Porto)  alle quali si  contrapponevano un generale e buon augurio di lunga vita.

E vui ca l’avite visto st’anno/

lu puzzate vede’a ca a cient’anne

(e voi che l’avete visto quest’anno, possiate vedere da qui  a cent’anni).

Interveniva quindi O’ mast’ e festa ( il maestro della festa) che girovagava per le botteghe per  fare la questua in nome del Carnevale e  racimolare qualcosa come rimborso delle spese sostenute.

 Ormai  del Carnevale è rimasto ben poco, se non le mascherate perlopiù dei bambini, e qualche piatto tipico, come la lasagna e la pizza di Carnevale. Il sanguinaccio, gustosa crema di cioccolata fatta – ahimè- col sangue di maiale,  è stato vietato da recenti norme sanitarie e sostituito dal più comune cacao.

 

 

Pizza di Carnevale

La pizza di Carnevale appartiene alla tradizione gastronomica sorrentina e  si prepara nel periodo di Carnevale. È un piatto molto sostanzioso che prevede anche  l’uso di ricotta, ma preferisco non usarla e aggiungere più uova e uvetta per ottenere un sapore agrodolce.

 Ingredienti

 400 g di salsiccia

metà caciocavallo fresco, oppure 600 g di mozzarella o provola

5 uova

50 g di parmigiano grattugiato

uvetta passa

pasta sfoglia surgelata

  

Preparazione

 Ammorbidire una manciata di uvetta in una tazza d’acqua tiepida.Dopo aver tolto il budello, spezzettare e cuocere la salsiccia in padella ed infine lasciarla raffreddare. Tagliare a dadini il caciocavallo fresco, in alternativa la mozzarella ben sgocciolata o la provola. Sbattere a parte e a lungo le uova. In una terrina versare la salsiccia, aggiungere il formaggio, l’uvetta ben strizzata, le uova sbattute e il parmigiano. Mescolare  lentamente e lasciare riposare il composto ottenuto perché si amalgamino i sapori. Foderare con la pasta sfoglia una teglia leggermente  imburrata (uso quella di circa 30 cm di diametro), versarvi il ripieno livellando bene, coprire con altra pasta sfoglia. Punzecchiarne la superficie. Cuocere in forno a  180° C per circa un’ora. Lasciare intiepidire.

Si può servire come piatto unico o con  un contorno di  verdure cotte o grigliate.

 Conoscete altri piatti tipici? 

Le tre C

Una leggenda yemenita  narra che un monaco, desideroso di  restare sveglio per poter pregare più a lungo, era solito preparare una bevanda con bacche sconosciute che eccitavano  capre e cammelli. Bevanda alla quale poi ricorsero in Arabia  altri monaci, pur di  sconfiggere sonno e stanchezza.

Si racconta  invece  che l’arcangelo Gabriele ricevette  direttamente da Allah una miracolosa pozione, scura come la Sacra Pietra Nera della Mecca, in grado  di rianimare  l’ammalato  Maometto o che un immenso incendio si propagò in un vastissimo territorio dell’Abissinia facendo diffondere e apprezzare  l’aroma delle tante  piante che vi crescevano spontaneamente.

Di cosa parlo? Del caffè!

Il caffè è uno dei piaceri più genuini e semplici della vita: talvolta servito a letto dalla dolce metà ( quale delle due?) o dalla padrona di casa in un cerimoniale basato sull’accogliente ospitalità, quasi sempre è espressione di  un rituale irrinunciabile da  eseguire diligentemente appena alzati o eseguito automaticamente da una moka con timer. È sorbito davanti al tg del mattino o  mentre si guarda il cielo della giornata e si inizia il rodaggio verso la quotidianità, gustato al bar per iniziare le relazioni sociali col mondo o proposto a qualsiasi ora del giorno per rompere il ghiaccio,  per fare una pausa  o per fermarsi e riflettere con calma.

 Il piacere vero sta nel sedersi, anche per pochi minuti, e gustare  il caffè tenendo fede alle famose  “ 3C”. Il  caffè, anzi un buon caffè, dovrebbe essere  “ comodo , carico e caldo” con la variante  “in compagnia”. Le tre C sintetizzano  metaforicamente anche i requisiti dell’uomo da sposare… e  più prosaicamente sono tradotte in “ comm’  ca**’ coce”.

La nota canzone   napoletana “ ’A tazza  ‘e cafè” paragona il caffè ad una donna riottosa che sotto una parvenza  amara cela un’indole   dolce che lo spasimante è deciso a far emergere a tutti i costi. Ben diverso e affascinante è  il  proverbio turco che lo definisce nero come l’inferno, forte come la morte, dolce come l’amore.

Quanti  modi di preparare un caffè, c’è  l’imbarazzo della scelta! Macchiato schiumato, corretto, ristretto, lungo, corto, doppio e ancora messicano, marocchino, turco, giamaicano, greco, Irish coffee, all’americana, al ginseng … Pare che ne consumiamo circa 600 tazzine all’anno pro capite.

 Voi come  lo preferite?