Il Rione Terra

 

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20170813_124025Quando si arriva a Pozzuoli è tutto uno sbrilluccichio sul mare, costellato dai profili evanescenti delle isole, abbracciate dallo sguardo fiero del castello di Baia che domina il golfo. Nel porto barche a vela, pescherecci, lance, yacht; ovunque ristoranti con  specialità a base di pesce e mitili ai piedi delle  antiche case del borgo marinaro, talvolta abbrutite all’interno da verande  e antenne paraboliche. Incamminandosi per le  stradine si giunge  in un’ampia  piazza assolata e alzando lo sguardo si scorge  il rione Terra, ora in fase di ristrutturazione, che con le sue case seicentesche  rosse e ocra sembra  un marinaio addormentato sulla prua di un gozzo arenato sulla riva. 

Qui, su un’alta  rocca di tufo, sorse l’antica Puteoli  (Pozzuoli)  ad opera di alcuni esuli di Samo che, in fuga dal tiranno Policrate, fondarono verso il 530.a.C la città detta Dicerchia. Più tardi, nel 194 a.C., divenne colonia romana e pian piano un grande centro di scambi commerciali fino alla fine dell’Impero Romano di Occidente del 476 d.C . grazie al suo porto, il primo di Roma fin quando fu costruito quello di Ostia.  Ancor oggi negli scavi archeologici di Pozzuoli  i templi, le ville, le tabernae, la necropoli, le cisterne, i cardini e i decumani, il teatro e l’anfiteatro della capienza di 40000 persone, testimoniano  lo splendore dei tempi antichi.

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Gli edifici romani rimasero fino al ‘500, quando il viceré di Napoli  Pedro Alvarez de Toledo, diede agevolazioni fiscali ai nobili e al clero se avessero costruito i propri palazzi sull’acropoli del Rione Terra. Così l’antica città romana, distrutta nelle parti alte, formò una sorta di piattaforma sulla quale sorsero i palazzi seicenteschi,  che sono stati abitati fino al marzo del 1970 quando la popolazione fu costretta a evacuare a causa di uno sciame bradisismico, oltre che per le pessime condizioni igieniche del rione.

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Il  terremoto del 1980 provocò ulteriori danni  trasformando  per anni il rione in  una città fantasma che dall’alto dominava Pozzuoli, disabitata in seguito ai trasferimenti della popolazione nel quartiere di Monteruscello e in altre località della provincia di Napoli e Caserta. Pozzuoli perse quindi un po’ le proprie radici. L’identità puteolana  ancorata al mare continuò a vivere grazie alle storiche famiglie di pescatori ,pur venendo sempre più soppiantata  dalla “cultura” degli stabilimenti industriali,  che poi sono stati smantellati.

20170813_124600 Da qualche anno è in corso un’intensa opera di riqualificazione del rione: gli edifici del Seicento sono stati per la maggior parte ristrutturati con la speranza  che questa città possa rivivere  come potenziale risorsa turistica  perché Pozzuoli e l’intera e suggestiva area flegrea  possono di fatto attrarre turisti interessati alle bellezze naturalistiche oltre che a quelle storico-archeologiche. Oggi è possibile visitare il rione Terra con le guide turistiche il sabato e la domenica,  perché nei giorni feriali è un cantiere ove fervono i lavori. C’è vita solo nel palazzo vescovile, abitato dal vescovo di Pozzuoli, nella cappella trecentesca di San Giacomo Apostolo e nella basilica.

 

20170813_124017Merita molto la cattedrale di san Procolo Martire, patrono di Pozzuoli, che ingloba un  tempio del II secolo d. C. dedicato a Ottaviano Augusto, costruito su uno precedente in tufo dedicato alla triade Capitolina (Giove, Giunone e Minerva). Questo fu utilizzato come chiesa cristiana senza stravolgimenti fino al 1630 quando il vescovo di Pozzuoli , monsignor Martin de Léon y Càrdenas, decise di costruire un’imponente cattedrale barocca demolendo parte del tempio, e abbellendolo con affreschi degli  artisti dell’epoca tra cui Artemisia Gentileschi e Massimo Stanzione. Dopo 50 anni di chiusura lal pubblico, ha riaperto nel 2014 grazie a  un restauro durato dieci  anni che ha fatto  coesistere il colonnato romano e l’arte rinascimentale-barocca.

 

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Quando si varca  il portale del Palazzo Fraja- Frangipane, il tempo si ferma e inizia un percorso archeologico  suggestivo attraverso la  Puteoli sotterranea del 194 a. C. Con l’ausilio multimediale è possibile rivivere nella città romana, scoprire il fermento del porto in età augustea e gli usi e i costumi del tempo, entrare nelle tabernae e nel  forno, calpestare l’antico decumano per esplorare la città romana nel ventre del Rione Terra del Seicento.

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Un rione che la natura fece evacuare a forza ma rimasto sempre caro ai suoi abitanti come la veduta paradisiaca su Nisida e Capri da una parte e capo Miseno dall’altra, i quali hanno tramandato di padre in figlio le  semplici storie del  mare, le vite degli indimenticabili personaggi del paese, le saghe familiari, le tradizioni, la povertà, la fatica, la devozione, il fatalismo  e il senso di appartenenza. Tanti , tanti puteolani oggi visitano il rione Terra per ritrovare la casa dei nonni e i luoghi dell’infanzia , descritti e narrati a voce con  gli aneddoti  di famiglia e i ricordi di altri tempi.

“Puteolani, siamo tutti puteolani. Anche se oggi viviamo a Roma…Certo che lo ricordo l’odore del rione. Era salmastro, intenso che pungeva le narici. Era odore di mare. Non saprei dirle se quello potesse essere definito proprio del Rione Terra. L’odore salmastro era naturalmente nelle narici di chi abitava qui”…… “Lo sa che abitavo qui al Rione Terra? Inizia a raccontare, guardandomi “ casa mia era a via Arco S. Janni, nei pressi della chiesa di san Liborio, dove la terrazza si ferma incantata a guardare Capo Miseno e la Darsena non si vede ancora….L’odore dei vicoli del Rione? Ricordo che dove abitavo c’era un signore che vendeva il vino, lo chiamavano Angelo ‘o cantiniere. Sotto ai suoi cellai, ci andavamo a riparare durante i bombardamenti della guerra. Ero bambino. C’era un forte odore di vino. Eravamo ubriachi quando tornavamo a casa.”

Aveva ragione Schopenhauer a dire che “il ricordo agisce come la lente convergente nella camera oscura: concentra tutto, e l’immagine che ne risulta è assai più bella dell’originale”.

Di ciò che di bello e brutto è stato, non si deve perdere memoria. Deve divenire impulso al nuovo e radice. Identità” ( da Storie dal Rione Terra  di Gemma Russo)

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Villa Torlonia e la Casina delle Civette

Casino Nobile

Il noto quartiere Nomentano a Roma custodisce Villa Torlonia, che ha un fascino particolare sia per il giardino all’inglese che per i numerosi e splendidi edifici disseminati nel parco.

 parco villa torloniaLe prime notizie di Villa Torlonia risalgono al 1600 quando, come ampia  tenuta agricola abbellita da statue, fu venduta da Giuseppe Maturo all’abate Giovanni Bovier. Acquistata nel 1673 da Benedetto Pamphilj che ben presto diventò cardinale, il vigneto lasciò il posto ad un elegante palazzo grazie agli interventi degli architetti Giacomo Moraldo, Mattia de’ Rossi e infine di Carlo Fontana. Nel 1762 passò ai Colonna e più tardi nel 1797 a Giovanni Torlonia che, incrementando i beni di famiglia con prestiti di capitali  alle famiglie romane durante l’occupazione francese, ambì a un titolo nobiliare ed ottenne nel 1797 il titolo di marchese. Giovanni perciò acquistò la villa ed incaricò l’architetto Giuseppe Valadier di sistemare la tenuta perché fosse all’altezza del suo nuovo rango. Villa Colonna diventò quindi un elegante palazzo, furono costruite le Scuderie ma soprattutto si diede un nuovo assetto al parco con viali alberati e fontane.

 Alessandro Torlonia, figlio di Giovanni, volendo emergere  nell’aristocratica società romana, valorizzò  la villa che divenne famosa per feste e cerimonie. Si avvalse di Giovan Battista Caretti che ampliò il palazzo ed aggiunse il pronao alla facciata ,edificò nel parco le finte rovine, l’Anfiteatro, il Tempio di Saturno e la Tribuna con fontana. Più tardi Quintiliano Raimondi costruì il Teatro, oggi in fase di restauro, e la Limonaia. L’architetto Giuseppe Jappelli, noto per i giardini all’inglese, fu l’artefice di  innovativi interventi . Nella tenuta infatti furono realizzati il Campo dei  Tornei, la Capanna Svizzera, la Serra e la Torre moresca e il parco fu abbellito di piante  esotiche e laghetti.

 casina delle civette-villa torlonia roma

Nel 1842 Alessandro Torlonia fece erigere anche due obelischi, dedicati ai genitori, e in tale occasione organizzò una grandiosa festa cui parteciparono pure il papa Gregorio XVI e Ludwig di Baviera.. In seguito all’infermità della moglie Teresa Colonna , alla morte di casina delle civette1una delle due figlie e del fratello Carlo, Alessandro si ritirò dalla vita mondana ed interruppe i lavori nella villa.L’altra sua figlia , Anna Maria, sposò Giulio Borghese ed ereditò la villa ma, di carattere riservato, non amò i fasti e le ambizioni del padre. Solo con Giovanni, figlio di Anna Maria, si ebbero nuovi interventi nella proprietà e in particolar modo fu proprio lui a trasformare la Capanna svizzera in Casina delle Civette, dove si ritirò. Dal 1925 al 1943 la villa fu residenza stabile di Mussolini tant’è che nel piano interrato si realizzò un rifugio antigas ed un bunker antiaereo, e dal 1944 al 1947 fu occupata dal comando anglo-americano. La proprietà subì gravi danni e per molti anni versò in uno stato di trascuratezza, fino a quando nel 1977 il Comune di Roma l’acquistò e venti anni più tardi l’aprì al pubblico come spazio museale .

 

Villa Torlonia è infatti sede di due musei: il Casino Nobile e la Casina delle Civette, che mi Casino dei Principiha incuriosito non poco per il nome e ancor di più per l’aspetto. Casino Nobile è il palazzo principale, riccamente decorato da rinomati pittori, quali Podesti e Coghetti, e da scultori e stuccatori della scuola di Thorvaldsen e Canova, ed è anche  sede del  Museo della Villa e delle opere della scuola Romana. Il neocinquecentesco Casino dei Principi ospita l’Achivio della scuola Romana e mostre temporanee. A Villa Torlonia  si trovano anche le Catacombe ebraiche (III- IV secolo) della comunità giudaica romana.

Molto particolare ed originale è la Casina delle Civette, ideata nel 1839 da Giuseppe Jappelli come capanna svizzera, poi trasformata nei primi anni del Novecento in un bizzarro ed originalissimo villino, residenza del principe di Torlonia. Si chiama Casina delle Civette per decorazioni  su vetro che richiamano la civetta.

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Peculiarità di questa casina sono le vetrate policrome, realizzate in gran parte da Cesare Picchiarini tra il 1910 e il 1925, su disegni di Duilio Ciambellotti ,Umberto Bottazzi, Vittorio Grassi e Paolo Paschetto.

vetrata villa torloniaOggi la casina ospita il Museo delle vetrate artistiche in stile liberty , arricchita da opere degli stessi autori e da disegni, bozzetti e cartoni preparatori. Trasparenze, colori brillanti, pavimenti maiolicati o decorati con motivi floreali ( stanza del trifoglio, dei ciclamini) arredano le stanze con gusto squisito. Qui si respira un’atmosfera quasi fiabesca, come si può intuire dalle foto.

vetrata 2vetrata 3vetratavetrata1rose,farfalle e nastri di Paolo Paschettocasina delle civette -villa torlonia

Hic sumus felices – Le magiche Lune di Pompei

Da maggio a ottobre  del 2010 e 2011  il Parco Archeologico degli Scavi di  Pompei ospitò l’edizione di “ Le  Lune di Pompei”, consistente in  visite notturne del sito archeologico. Per la terza edizione del Carnevale della Letteratura  ricordo quelle notti del 2010 e 2011 che per me sono state tra le  più magiche e suggestive finora vissute.

domus pompei

 

Nel chiarore magico e  misterioso delle Lune Eterne ( la Luna di Morte, la Luna della Speranza, la Luna Virtuale, la Luna della Vita, la Luna che non c’è, la Luna che si Diverte) l’antica città sepolta  racconta i misteri non svelati, che mai hanno abbandonato Pompei .

necropoli lune di pompei

Il percorso parte dalla necropoli di Porta Nocera,  prosegue nell’Orto dei Fuggiaschi, continua verso la Casa del Giardino d’Ercole, in via dell’Abbondanza, soffermandosi nella casa del profumiere, di Octavius Quartius,erroneamente  chiamata in un primo tempo domus di Loreius Tiburtinus, di Venere in Conchiglia e infine si conclude con suggestivi ed onirici giochi di luce nell’Anfiteatro. La voce dell’attore Luca Ward e alcune proiezioni guidano il pubblico in una suggestiva ed eterna realtà parallela per fare vivere e rivivere  Pompei.

L’eruzione del Vesuvio, per l’esattezza  del monte Somma,  nel 79 d. C. fermò la vita di orti dei fuggitivi pompeiPompei sotto una coltre di cenere e lapilli spessa 6-7 metri. La maggior parte degli  abitanti, fuggiti dalle case, trovarono la morte  sul litorale. I pochi rimasti, sperando di salvarsi nei sotterranei  delle abitazioni, morirono asfissiati. Toccanti testimonianze della tragedia sono  i calchi dei Fuggiaschi, ricostruiti  dall’archeologo Giuseppe Fiorelli nel 1863  versando gesso liquido nelle cavità lasciate dai corpi nello strato di cenere.

Camminare per le vie di uno dei siti archeologici più suggestivi  e famosi del mondo, è sempre emozionante. È come viaggiare a ritroso nel tempo. Passeggiare di notte  in una Pompei  illuminata da splendenti Lune piene, seguendo un itinerario tracciato da fiammelle, è un’esperienza unica ed affascinante.

via dell'abbondanza pompeiPassare in punta di piedi sulla strada , esterna alla cinta  della città e conducente  a Nocera, fiancheggiata da numerosi sepolcri monumentali dà l’impressione di violare e consacrare allo stesso tempo la profonda  intimità della morte in una città apparentemente muta e  deserta. Qui si coglie la ciclicità di vita e morte, ove la morte non è frattura o interruzione ma è una delle incombenze dell’uomo, un continuum  della vita e la vita è commistione di otia e negotia , di sacro e profano confluenti nel mito. “Si tenevano in casa le ceneri o le immagini dei propri avi; li si salutava entrando, i vivi restavano in contatto con loro; all’entrata della città, le loro tombe allineate ai due lati della strada,  somigliavano a una prima città, quella dei fondatori”(H.Taine – “Viaggio in Italia”)

Qui però stranamente si continua a respirare la vita quotidiana dell’antichità nelle abitazioni e nelle botteghe, il fermento dei luoghi pubblici, la devozione per gli dei e la pietas per i defunti, il gusto raffinato per l’arte e i piaceri della vita, il valore del talento, dell’ingegno e dell’operosità.

Le Lune di Pompei splendono in alto riversando un’aura di bianca quiete su luoghi che raccontano a tutti per essere ascoltati da alcuni.

 

Gli orti, arricchiti di filari  e di ulivi dalla chiome argentate, nel 1961 restituirono alla storiacalchi vittime pompei 2  tredici vittime dell’eruzione, asfissiate dal gas e dalle ceneri durante la fuga. Nei cosiddetti Orti dei Fuggiaschi il destino di Pompei parla a chiunque. La pietas erompe alla vista di  sagome contorte e sofferenti. L’immaginazione assume una dimensione tristemente più concreta, ma proprio quei calchi fanno rivivere la città. I vuoti dei corpi si riempiono di  tutta la vita narrata sui muri e sui basoli sconnessi, nelle domus, tabernae, terme, teatri e foro dando una dimensione umana ad una civiltà grandiosa.

 

tabernaeOgni  muro, colonna, cubiculum, peristilio, cespuglio di rosmarino, giardino interno  respira ancora e l’immaginazione restituisce gli affreschi, i mosaici, le suppellettili e le statue che arricchivano gli spazi, ora deserti, dove ti senti un intruso in uno scenario fuori dal tempo e percepisci  un invadente senso di solitudine che ti riempie di riverente stupore ed ammirazione  per un  qualcosa di irraggiungibile e grande.

 Come il bello che traspare dalla domus più raffinate. E ti pare di sentire le fragranze della casa del profumiere, di vedere scorrere l’acqua nella lunga vasca di marmo ombreggiata da una pergola nella casa di Octavius Quartius. Ti pare di vedere brillare al sole i personaggi mitici e leggendari  di altri tempi e civiltà.

venere in conchiglia pompei

E ti chiedi chi possa avere calpestato quella strada, chi si sia fermato sull’uscio di quella locanda, chi sia l’autore di questi graffiti che,in questi casi, non informavano nè provocavano ma comunicavano per davvero un modus vivendi.

hic sumus felices graffiti pompei

“ HIC SUMUS FELICES” cioè “QUI  SIAMO FELICI”.

Una solenne proclamazione  di gioia e vitalità collettiva che associo a tutte le genti che vivevano Pompei. Uno squillo per i secoli a venire , una speranza di buon augurio per noi,  provenienti dal futuro, incapaci soltanto di definire la felicità se non per difetto e tanto meno di scrivere una cosa del genere sui muri di una qualsiasi città. “Qui siamo felici.” E sarà una delle magiche  lune di Pompei  o il fascino acuito dalle ombre di una dolce notte d’estate, sarà il mistero di queste strade percorse da chissà chi  e di questi muri  che raccontano più di mille parole, ma in questa scritta graffiata c’è tutta la vita, la forza  prorompente e la grandezza di una civiltà. Qui siamo felici. E non provo invidia ma commozione e un senso di compiaciuta appartenenza a un patrimonio universale, a una sorta di  Eden nascosto, carpito attraverso le fonti storiche. 

Pompei, maledetta dalla natura e benedetta dagli dei, suggestiona chiunque nei suoi chiaroscuri, nell’eco remota che risuona dentro, nella sua  immensità costellata da vibranti fiammelle che segnano il percorso, quasi a ricordo del percorso esistenziale dell’umanità.“Qui siamo felici” è l’epitaffio più bello in memoria di una città che ha ancora tanto da dire indistintamente a tutti.

 Scontenti e perennemente incontentabili, riusciremo mai ad annunciare ai posteri “Qui siamo felici” non per effetto di una momentanea scarica di adrenalina o senza cedere ad una qualsiasi forma di finzione?

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Cimitero Acattolico di Roma: quando la bellezza nobilita la morte

Il Testaccio è un colle che probabilmente deriva il suo nome dal latino “testa”, cioè anfora, perché si formò con l’accumulo dei cocci di anfore contenenti vino e olio e provenienti dal porto di Roma. Nel quartiere del Testaccio, vicino a Porta San Paolo, si trova un’oasi di pace eterna e serenità, cioè  il Cimitero acattolico ove riposano inglesi, tedeschi, americani, scandinavi, russi, greci, orientali, africani  ma anche italiani.  

Tanti sono i nomi che lo designarono: cimitero inglese, protestante, poi  dal 1921 in senso lato degli acattolici, ma anche degli artisti e dei poeti.
È “una mescolanza di lacrime e sorrisi, di pietre e di fiori, di cipressi in lutto e di cielo luminoso, che ci dà l’impressione di volgere uno sguardo alla morte dal lato più felice della tomba…”

(Henry James,1873)

 

Lunga è la storia di questo cimitero. Secondo le leggi ecclesiastiche  dello Stato pontificio nessun acattolico poteva essere sepolto in una chiesa cattolica  o in terra benedetta; inoltre le inumazioni erano consentite solo di notte per garantire l’incolumità dei partecipanti al rito funebre  ed evitare  il furore dell’ intollerante e fanatico popolino.

L’area dell’odierno cimitero faceva parte dell’Agro romano ed era detta “ i Prati del popolo romano” che  era una zona di bagordi da osterie e di feste campestri.

 Si sa con certezza che nel 1738 vi fu sepolto uno studente venticinquenne di Oxford, di nome Langton, la cui tomba fu scoperta nei pressi della Piramide Cestia.  Circa trent’anni più tardi  anche uno studente di Hannover vi trovò sepoltura perché, come riferito al papa, amava Roma e aveva espresso il desiderio di riposare presso la suggestiva Piramide di Caio Cestio. Così il papa fondò il cimitero.

Agli inizi dell’800 il ministro di Prussia presso la Santa Sede, Guglielmo Von Humboldt, ottenne la proprietà di un pezzo di terra ove seppellire due figli morti prematuramente. A inizio ‘800 però le tombe sorgevano in piena campagna tra greggi, agrifogli, fiori di campo, ed erano esposte al rischio di profanazione da parte di ubriachi e fanatici che così vendicavano l’espropriazione dei Prati romani. Ciò indusse  nel 1817 i diplomatici della Prussia, dell’Hannover e della Russia  a rivolgersi al cardinale Consalvi, segretario dello Stato pontificio, per poter recingere a proprie spese il cimitero. Soltanto quattro anni più tardi, dopo ulteriori sollecitazioni anche da parte di un principe danese e del Parlamento inglese, il cardinale provvide e concesse quella parte, detta zona antica, vicina alla piramide Cestia, ma vietò di piantare nuovi alberi. 

Nel 1894 l’Ambasciata di Germania acquistò 4300 mq in aggiunta all’area cimiteriale esistente, e la suddivise  in tre zone che si snodano in salita fino alle mura Aureliane tra cespugli, cipressi e tanti ciuffi di violette bianche e lilla che crescono spontaneamente. In  alto, lungo le mura, si scorgono iscrizioni di marmo con i nomi dei defunti perché fino al 1870 furono vietate epigrafi e croci con riferimenti alla beatitudine eterna in quanto per le autorità ecclesiastiche non poteva esserci salvezza per i non cattolici.

Dal 1822 il cimitero fu curato dal guardiano della Piramide, più tardi dai suoi discendenti e si iniziò ad inumare i defunti nella zona nuova. Il cimitero resistette ai combattimenti del 1849, alle cannonate del 1857 e ai bombardamenti della II Guerra Mondiale. 

Circa quattromila persone di tutte il mondo riposano in questo giardino; di alcuni non si conosce l’identità in quanto è andato perso l’Archivio in tempo di guerra. Vi sono  intellettuali, artisti, letterati, diplomatici, principi e nobili di varia provenienza e di fede diversa dalla cattolica o atei. Basti ricordare Keats e Shilley  le cui tombe sono meta di tantissimi turisti inglesi. 

Keats morì a Roma all’età di 26 anni e riposa accanto all’amico pittore Joseph Severn. Sulla lapide si legge:

“ Questa tomba contiene i resti mortali di un GIOVANE POETA INGLESE che, sul letto di morte, nell’amarezza del suo cuore, di fronte al potere maligno dei suoi nemici, volle che fossero incise queste parole sulla sua lapide: “Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua” Poco distante, una lastra marmorea, in risposta a questa frase mostra l’acronimo: Keats! Se il tuo caro nome fu scritto sull’acqua, ogni goccia è caduta dal volto di chi ti piange.”

 

 Shelley, morto a 29 anni  in un naufragio al largo della costa toscana, è in alto, sotto un torrione delle mura Aureliane. Una lastra custodisce le ceneri con la scritta “Cor cordium”(cuore di tutti i cuori”) e i versi della Tempesta di Shakespeare. 

Un angelo accoglie  dalle acque del Tevere Rosa Bathurst, una ragazza di sedici anni, ammirata per la sua bellezza, intelligenza e fascino. Nel 1824 il fiume la trascinò via mentre cavalcava con amici. La sua tragica fine scioccò Roma, anche perché  suo padre, giovane diplomatico inglese, era già scomparso durante una missione a Vienna.

 

Tra i tanti , quali il figlio di Goethe, il poeta della Beat generation Gregory Corso, la stilista Irene Galitzine, l’attrice Belinda Lee, il commodoro ed esploratore americano Thomas Jefferson Page la cui tomba è opera di Ximenes,ecc… si ricordi anche Naghdi Mohammed Hossein diplomatico iraniano e leader della Resistenza, ucciso a Roma nel 1993.

 

Nel cimitero acattolico ci sono anche italiani: Antonio Labriola, Carlo Emilio Gadda, Dario Bellezza, Luce Eramo, Bruno Pontecorvo,  Amelia Rosselli, i figli di Marconi, l’eroe risorgimentale Gavazzi e Antonio Gramsci.

 

Di Gramsci, esiliato in vita e  in morte, Pasolini scrisse :

“Uno straccetto rosso, come quello

arrotolato al collo ai partigiani

e, presso l’urna, sul terreno cereo,

diversamente rossi, due gerani.

Lì tu stai, bandito e con dura eleganza

non cattolica, elencato tra estranei

morti: le ceneri di Gramsci…”

Qui la morte non opprime né spaventa, semmai  induce a riflettere  serenamente  mentre si passeggia tra cipressi, pini e mirti  con lo sfondo di una svettante, suggestiva e bianca Piramide. Tra ciuffi di violette bianche e lilla, che spontaneamente crescono per terra, capita di scorgere uno dei tanti gatti della Piramide che dorme sornione o che si stiracchia godendosi il sole primaverile. 

 

Quanti  sono cullati dalla Città eterna, per caso o per scelta, a volte troppo presto! Tanti sono vegliati da mute presenze che  custodiscono destini ineluttabili, segreti indicibili, innocenze cristallizzate e restano lì ad espiare il dolore o in attesa.

Uomini, donne, ragazzi e bambini di paesi e lingue diverse sono accomunati dallo stesso silenzio, lontani da ogni affanno, da ogni fama, da ogni strada. Tra gli illustri c’è anche l’ossario per i Romeni Ortodossi Apolidi e tombe comuni della chiesa Ortodossa russa destinate ai non abbienti o a coloro che ebbero una sepoltura provvisoria. Qui scompaiono i confini di età, di cultura e di origine ma si coglie una  sola, pietosa accoglienza per una comune cittadinanza .

Qui si può piangere di commozione dinanzi all’ armoniosa e struggente bellezza dell’Angelo del Dolore, scolpito dallo scultore statunitense William Wetmore Story che ha ispirato decine di copie nel mondo. Qui si può respirare un po’ di eternità alzando gli occhi verso l’Angelo  della Resurrezione che s’erge tra i cipressi  nella sua elegante solennità. Immortali emblemi della purezza del dolore  e del riscatto dalla vita terrena.