Graffe

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La graffe è un dolce napoletano, a base di farina e patate, che  deriva il nome da “krapfen” , una frittella  gonfia ripiena di crema o marmellata inventata dalla pasticciera austriaca Veronica Krapf.

 

Ingredienti.

1 kg di farina

100 g di zucchero

6 uova

100 g di burro

30 g lievito di birra

200 g patate lesse

1 pizzico di sale

latte q.b.

olio di semi

  Esecuzione.

 Pelare, lessare e passare le patate nello schiacciapatate. Disporre  zucchero e farina a fontana. Versare dentro il burro sciolto, le uova, il sale, le patate passate e infine il lievito precedentemente sciolto  nel latte. Impastare raccogliendo un po’ alla volta la farina intorno  e aggiungere latte quanto ne assorbe l’impasto che deve risultare morbido. Lasciare lievitare per almeno un’ora. Tagliare l’impasto in pezzi e con ognuno formare serpentelli da chiudere a forma di ciambella, adagiarle sulla spianatoia cosparsa di farina per evitare che si attacchino. Lasciare  lievitare ancora per mezz’ ora. In una pentola larga con i bordi alti friggere le graffe in  abbondante olio di semi  bollente e, quando sono dorate, estrarle, asciugarle su carta assorbente da cucina e infine girarle bene bene  nello zucchero. 

Ieri, quel vento alto – Diego Valeri

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Ieri, quel vento alto

Ieri quel vento alto
scapigliava le nuvole rade;
e ci fu, verso sera, un grande
garofano rosa, rimasto solo,
in mezzo al cielo; mentre più in basso
si profilava uno spicchio di luna
appena nata.
Oggi, invece, il cielo è tutto pulito,
nudo, tutto bianco-oro di sole.
Bellissima luce, felicità sospesa
a mezz’aria su la terra in ombra.
Già cresciuta, con la sera, è la luna.

(da Calle del vento, Mondadori, 1975)

Buona fortuna, ragazzi!

In uno zaino immaginario tra le cose che avreste voluto portare con voi avete disegnato magliette, pantaloni, scarpe, cellulari,  palloni da calcio, computer, libri, raramente villaggi, costantemente scritte sulla pace, a volte una preghiera. Tutti avete scritto il vostro nome, cognome e provenienza a grandi lettere o con una bandiera. Un’identità che sentite con fierezza e nostalgia di affetti lontani. Ricordate i nomi dei genitori, di padri scomparsi, dei fratelli più piccoli rimasti là e che sperate di potere aiutare da qui, dei  nonni e anche dei bisnonni di entrambi i rami della famiglia. Avete radici giovani, ma forti e profonde.

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Siete proiettati in avanti, ambìte, avete spiccato il salto per osare e conquistare il domani. “Voglio riprendere gli studi”. Hai lasciato la Nigeria e l’università al secondo anno di economia, in quegli occhi così neri c’è una vivacità incredibile, sei  brillante, hai talento per la recitazione. Ricordo quando arrivasti imbronciato e mi dicesti “I’m not happy, I’m sad, I’m angry”.20160910_113503

” Parliamone”. Ne abbiamo parlato, prima con esitazione poi con sicurezza hai raccontato l’immobilità del presente e un più soddisfacente futuro immaginato che non so se mai qualcuno riuscirà a garantirti, eppure i tuoi 19 anni ne avrebbero diritto in qualsiasi parte del mondo. Oggi non eri a lezione. Mi hanno detto che sei andato via, con la noia che ti  rodeva dentro perché, presumo,  la tua intelligenza e giovinezza scalpitano. “Perché sei andato via dal tuo paese?” “Perché la mia famiglia ha avuto problemi, tanti problemi” e lo sguardo si è rattristato come quando pronunciasti il nome di tua madre: Peace. Ti auguro di realizzare quel sogno americano che hai negli occhi, non sta a me giudicarlo, riprenditi un po’ di benessere con ciò che le tante multinazionali hanno tolto alla tua terra, questo sì. Di te resta il tuo bel ritratto con la maglietta  verde e bianca come la bandiera del tuo paese, che ha i colori delle foreste, dell’agricoltura e della pace. Restano le frasi di un romanzo e un’invocazione a Dio con  i nomi delle tante squadre italiane di calcio,  il fumetto in cui pensi di diventare un footballer, ma in realtà ti saresti accontentato di un lavoro qualsiasi.

 Tu invece sei più semplice e scanzonato, simile a un rapper americano nei modi ma sogni di diventare un  musicista, e ti piace ridere e  ballare come nel giorno del tuo compleanno che per te è stato il giorno più bello della tua vita di cui hai subito parlato ai tuoi per telefono.  Invece tu ti  dichiari nigeriano ma hai il Biafra nel cuore, un’appartenenza che rivendichi con fierezza. Il tuo nome è “giorno del Sole”, quando parli del tuo paese sembri un  guerriero che con gli occhi stretti  fissa l’orizzonte  accompagnando il sole nel  tramonto con la  consapevolezza che domani riapparirà.Ben concentrato con le cuffie nelle orecchie, come me quando scrivo, hai disegnato  il simbolo  della pace e scritto in inglese “C’è bisogno di orgoglio e di un po’ di rabbia per la libertà del mio paese”. Sei arrivato in Italia  perché là non c’è futuro, vuoi che gli occidentali capiscano che l’Africa sta morendo nell’ indifferenza del mondo intero.

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Oggi non eravate a lezione. Mi hanno detto che ve ne siete andati, forse in Germania. Buona fortuna, ragazzi! Forse oggi avrei saputo di più della vostra vita, ma la rivedo in quella dei vostri amici e di quelli che sono arrivati e hanno disegnato imbarcazioni piene d’acqua, navi della guardia costiera che soccorrono naufraghi, campi lager libici, gestiti dai trafficanti, dove mangia e beve solo chi può pagare pane e acqua e non si fanno sconti nemmeno a donne e bambini, e si sopravvive senza servizi igienici e docce e chi muore viene abbracciato dal mare. Vi immagino sui pick up Toyota, anche voi ammassati con una ventina, più spesso trentina di altre persone, in viaggio da una o due settimane nel deserto, con fermate solo  notturne per dormire al freddo, senza cibo, i più fortunati mangiano  qualche biscotto quattro – cinque volte durante tutto il viaggio e bevono da taniche, da sacche appese ai bordi del veicolo, da una bottiglietta, Destiny non ha avuto nemmeno quella, e   i più deboli sono gettati nella sabbia del deserto, unica destinataria delle loro speranze.

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In quei furgoni ci sono anche donne e bambini, si consumano violenze a discapito delle ragazze costrette a pagare con ulteriore sofferenza il diritto a vivere.

Buona fortuna, ragazzo ! Avrei voluto salutarti e lo faccio adesso. Non avere paura di non essere “adeguato”, non importa la mala sorte passata “ perché comandano i desideri, perché non siamo (solo) nel mondo materiale dove le cause sono tutto, qui nel mondo umano le finalità decidono i comportamenti, cioè è quello che vedi davanti che spiega i tuoi movimenti e allora buttati nel vuoto, guarda che nessuno ha imparato a volare prima di buttarsi. Allora confonditi, commuoviti un po’, prendi tutte le tue energie e vai, è proprio nel momento che ti sei lanciato che sperimenti la comprensione, proprio quando ti dimentichi di te stesso, incredibile ! “ (cit. prof. Camillo Bortolato). In fondo la vita è come l’apprendimento, è essa stessa continuo apprendimento che richiede capacità di mettersi in gioco, è  un’ opportunità da cogliere al volo,da tenere stretta e difendere, da conquistare a volte con gradualità, a volte con lo slancio di una sfida . È naturale per i bambini di 12 – 14  anni, in viaggio da soli, i  più abili nella fuga  grazie all’ esaltante incoscienza e irrequietezza di chi è ancora libero dai condizionamenti e, nonostante tutto, riesce a ridere.  Afferrate la vostra vita con quel sorriso contagioso, che nasconde con pudore ciò che vi ha reso uomini troppo presto, stringetela forte con quel coraggio e voglia di guardare  avanti e farcela che in fondo in fondo vi invidiamo e spaventa tanto chi non sa più sognare come voi.

Pere ‘mbuttunate ( pere e’ Mast’ Antuono ripiene)

pere-e-MastAntuono-300x200Le pere ‘mbuttunate sono un dolce sorrentino, per la precisione metese, del mese di agosto perché in questo periodo maturano le pere e’ Mast’ Antuono che sono piccole, tondeggianti, profumate, croccanti e quindi anche adatte per essere cucinate in zuppe, dolci e marmellate.

Questo dolce non si trova in vendita nelle pasticcerie, ma è perlopiù preparato in casa grazie a ricette tramandate di generazione in generazione per fare sopravvivere la tradizione gastronomica locale.

Ingredienti:

1,5 Kg di pere e’ Mast’ Antuono, non troppo mature ( sono un prodotto tipico della costiera sorrentina)

250 g di ricotta

200 g di zucchero

100 g di amaretti

200g di cioccolato fondente grattugiato

due bicchierini di marsala

acqua (due tazzine da caffè)

Volendo si possono aggiungere una manciata di pinoli e di cedro candito, oppure un po’ di crema.

Esecuzione.

Lavare e asciugare le pere, tagliare con un coltello la parte attaccata al picciolo che servirà da cappuccetto poi, lasciando la buccia, svuotarle pian piano del torsolo e della polpa.

Amalgamare la ricotta con lo zucchero, gli amaretti sbriciolati e 100 g di cioccolato fondente e con questo composto riempire le pere che infine saranno coperte con la parte superiore precedentemente tagliata. 

In un pentolino lasciar cuocere la polpa della frutta in un po’ d’acqua. Quando è ben fluida, filtrarla con un passaverdure e raccoglierne il succo. In una teglia o pirofila versare il succo di pera, aggiungervi due bicchierini di marsala, adagiarvi le pere e cospargerle con i rimanenti 100g di cioccolato fondente .

Infornare a 200° per circa 40 minuti. Sono un ottimo dessert freddo.

Skip vero

 

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Nel 2002 decisi di adottare un cucciolo dopo avere vagliato l’aggravio di tempo ed energie che avrebbe richiesto e avere ripetuto a me stessa che il cane è cane, non  è un figlio anche se entra comunque a far parte della famiglia. Skip era un bastardino di media taglia, un incrocio tra uno  spinone e un barbone, oggi si dice un meticcio, io preferisco dire  “self – made dog”, come tempo fa mi spiegò un commentatore del blog,  perché il bastardino si fa da solo nella genìa e nella vita canina.

Insieme a una decina di compagni di sventura, fu sequestrato ad un tizio che li teneva chiusi al buio e in condizioni igienico- sanitarie non adatte. Durante una visita al canile avevo notato uno spinone marrone e dei cagnetti molto vispi che scorrazzavano in un recinto. Mi piacquero subito ma la signora del canile mi spiegò che si stavano abituando gradualmente sia alla luce che a rapportarsi con l’uomo, in quanto cresciuti in totale abbandono. Esclusi la possibilità di adottarne uno perché avevo due figli piccoli e non sarebbe stato prudente prendere un cane adulto, poco avvezzo all’uomo e per di più in casa. Già a volte era difficile dirimere i bisticci e addomesticare i figli, non osavo complicarmi la vita  con un cane un po’ selvatico. La signora aggiunse che tra tutti quei cani sequestrati c’era anche un cucciolo di dieci giorni che andai subito a vedere. La mamma era di taglia  piccola, col pelo biondo  un po’ mosso come le altre cagnette. In cuor mio decisi all’istante, ma mi riservai di dare una risposta insieme al consorte e ai figli perché potevamo scegliere anche tra altri cuccioli del  canile. Tutti fummo conquistati da quel batuffolo rosso.

 Una volta svezzato, dopo circa un mese, ci avrebbero avvisati per andare a prenderlo. La telefonata arrivò dopo solo due settimane. Ci scervellammo a lungo sul nome da dare al nuovo membro della tribù. Impresa non facile :  Idefix, Napoleone, Cesare, Zazù, Rox …finchè mi venne in mente il titolo del film Il mio cane Skip. Skip, suonava bene. Skip è un nome breve, squillante, facilmente recepibile, dà proprio l’idea del salto. Fu aggiudicato il nome Skip. Il giorno dopo a me e mio figlio si accodò  pure il nonno e un po’ emozionati andammo in processione al canile.  Il cucciolo non era più come lo ricordavamo. La signora mi porse  una palla di pelo rosso che a stento riuscivo a trattenere in braccio e subito iniziò  a scodinzolare, a leccare la mano, ad alzare la zampotta, che faceva presagire una taglia sicuramente non piccola. “Mater semper certa est, pater  numquam” dicevano gli antichi. Intuii che il padre doveva essere lo spinone, l’unico cagnone del gruppo.

 Giunti a casa, ci fu lo storico incontro con le due tigri che con Skip avevano in comune solo la provenienza: dal canile lui e dal gattile loro. I miei gatti non avevano mai visto un cane. Il cane non conosceva i gatti e fiducioso zompettò  verso le belve spodestate. La loro immediata reazione fu una solenne soffiata, inarcata di coda e balzo su un mobile sul quale rimasero appollaiati per circa una settimana, scendendo solo di notte o quando la cosa rossa movente non era nei paraggi. Skip era più piccolo dei gatti, ma di corporatura più  robusta e baldanzoso nei movimenti. Il famelico Tigro, pur di non rinunciare alla pappa, imparò presto a mantenerlo a distanza, soffiando e artigliando. Gri Gri invece ne era incuriosita, lo seguiva da lontano oppure l’ osservava dall’ alto, finché un giorno inavvertitamente si scontrò con il nuovo arrivato, che usciva  trotterellando dalla cucina. Il canetto, sorpreso, si fermò intimorito e si accucciò, come aveva ben presto imparato quando incrociava il signor  Gatto, Gri Gri invece, con mio sommo stupore, non scappò via ma si sedette guardinga di fronte a lui. Stettero fermi a guardarsi per qualche minuto, lui con le orecchie basse e lei con le orecchie ben alzate, finchè  la gatta con nonchalance se ne andò. Quella notte Gri Gri lo annusò mentre dormiva come sempre in una cesta, salì sulla cassapanca e lì si addormentò. Così fece in seguito: la gatta lo vegliava, forse aveva capito che era piccolo e innocuo e il suo istinto materno vinse la diffidenza .

Divennero ben presto compagni di gioco e di malefatte. Un’allegra associazione a delinquere. Lei si acquattava sulla sedia per allungare una  zampa sull’ignaro amico che passava e si guardava intorno senza capire. Ci fu un periodo in cui i miei figli subirono sgridate ingiuste per le carte di caramelle o cioccolatini che trovavo sul divano o sotto il tappeto. Un pomeriggio, mentre guardavo la tv, sentii un rumore sulla credenza. Gri Gri spingeva una caramella con la zampa giù verso il cucciolo che, scodinzolando, stava in trepida attesa, poi  prontamente la ingoiò e la gatta continuò. La volta successiva lui riuscì a scartarla e lei, come un pattinatore di hockey su ghiaccio, con l’involucro improvvisò uno slalom sul pavimento del salotto, finché lo portò trionfalmente in bocca sul divano. Quando osò tornare alla carica del porta bon bon fu paralizzata dal mio inatteso, urlato e  solenne “scendi giù” e si defilò di corsa. Occhio che non vede, cuore che non desidera: da quel giorno chiusi a chiave i dolci.

Skip

Skip è stato con noi per circa 15 anni,  come Tigro e Gri Gri, e tutta la tribù di bipedi e quadrupedi al completo ha condiviso in un rapporto quasi simbiotico viaggi, traslochi, gite, cure, operazioni, le varie fasi della vita, nostre e loro, con punti di partenza e traguardi, crescita e svolte.

In effetti ho continuato un po’ la tradizione di famiglia: mio nonno allevava cani da caccia ma,  quando gli anni e lo stato di salute lo costrinsero a stare in casa, preferì adottare cani meticci e abbandonati insegnando a me e ai miei cugini a familiarizzare con loro, a capirne l’indole e il linguaggio, che è universale a prescindere dalla provenienza e dal pedigree.

Ogni cane ha una sua storia che si tesse con la nostra: se Dusky è stato il cane della mia infanzia e adolescenza, ricevuto in regalo al mio decimo compleanno dopo anni di suppliche e solo dopo un mio deciso sciopero della fame, Skip è stato quello dell’infanzia, dell’adolescenza e parte della giovinezza dei miei figli. Con quel bastardino c’è stato  feeling dall’ inizio, un cane che doveva rimanere tale ed è diventato l’ombra silenziosa e presente che si accucciava ai miei piedi e compariva porgendo il muso per una carezza nei momenti in cui mi fermavo, ritrovandomi  un po’ nei suoi occhi, capaci di parlare come sanno fare gli occhi dei cani. Cane scemetto e furbo per golosità, forte  ma non dominante, coraggioso ma  mai feroce, fedele ma non succube, testardo a volte dispettoso, cane ridens come un cane dei fumetti, elegante e fiero come sanno esserlo i cani.

skipGrazie amico mio, animella da alter ego, resti tatuato dentro molto più di questo nickname, adottato come  segno  di riconoscenza per te perché  “I cani sono i maghi dell’universo. Basta la loro presenza per trasformare in persone sorridenti quelle arcigne, in persone meno tristi quelle che lo erano: sono generatori di rapporto. Il cane ama con tutto il cuore e perdona facilmente, può correre a lungo e lottare. Ode e vede in modo diverso dall’essere umano, con un forte udito può captare la selvaggia e misteriosa natura femminile, divenendone un tramite tra lei e il rimanente genere umano.” ( da “Donne che corrono con i lupi”-  Clarissa Pinkola Estés).

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Virgilio Mago e poeta

Storia  e leggenda avvolge la vita di Publio Virgilio Marone a Napoli, il poeta latino che tra sacro e profano fu  amato come Virgilio Mago  dal popolo e dai notabili, da Posillipo fino al centro della città partenopea. Al Medioevo  si fa risalire la credenza popolare di  Virgilio stregone buono, più comunemente ritenuto uomo saggio, in grado di proteggere e aiutare la città con talismani, sortilegi e incantesimi avendo  ereditato poteri dagli dei, per cui si pensa  che nel XII secolo a  Napoli fossero ancora vive credenze pagane.

SAM_2404Egli frequentò a Napoli la scuola di Sirone, aderì poi al neopitagorismo, studiò quindi la  natura  e  si avvicinò al culto di Cerere e Proserpina. Pare che poi  fosse riuscito ad appropriarsi di un libro di negromanzia  dalla tomba del filosofo Chironte , in una città sotterranea all’interno del monte Barbaro situata tra Baia e il lago d’Averno,  addentrandosi nei  misteri di vita e morte, riuscendo ad apprendere le scienze occulte, i rituali magici per effettuare guarigioni ed  esorcizzare gli spiriti malvagi, difendere la città e provvedere ai suoi bisogni . Addirittura fece i primi esperimenti di magia a Roma  per cui fu imprigionato per ordine dell’imperatore Augusto, ma con i compagni di ventura  magicamente  volò via su una barca che aveva disegnato sul muro esterno della prigione, giungendo in Puglia e proseguendo poi per Napoli. Da allora divenne un personaggio leggendario, caro all’ immaginario popolare che lo rese quasi  immortale perché  di fatto  il ritrovamento o la traslazione dei suoi resti sono ancora incerti.

La storia di Virgilio Mago per certi aspetti s’ incrocia con il mito della sirena Parthenope, entrambi protagonisti delle “Leggende napoletane” di Matilde Serao. Napoli, o meglio, l’antica Neapolis  fu voluta da Parthenope e nacque proprio dal suo amore  per Cimone. Il corpo esanime della sirena  si arenò a Megaride, una piccola isola a sé fino al IX sec. a. C.  che poi  fu collegata alla terraferma e divenne sede del  Castel dell’ Ovo durante la dominazione normanna del XII secolo.  Nei sotterranei del castello ci sono i ruderi della sfarzosa villa del patrizio romano  Lucullo (Castrum Lucullarum) , ove soggiornò Virgilio dal 45 al 29 a.C. che in quella quieta bellezza trovò l’ispirazione per scrivere le Bucoliche e quattro libri delle Georgiche e sperimentare le sue arti magiche. “Dopo la poesia di Parthenope, semidia, creatrice, sorge la poesia di Virgilio, creatore, semidio. Noi conosciamo Virgilio, il grande maestro di Dante, ma conosciamo poco di Virgilio Mago….Noi siamo ingrati verso colui che esclama:  Illo Virgilium me tempore dulcis alebat Parthenope…Egli era  giovane, bello, alto della persona, eretto nel busto, ma camminava con la testa curva e mormorando certe sue frasi, in un linguaggio strano che niuno poteva comprendere. Egli abitava sulla sponda del mare dove s’incurva il colle di Posillipo, ma errava ogni giorno nelle campagne che menano a Baia ed a Cuma ; egli errava per le colline che circondano Parthenope, fissando, nella notte, le lucide stelle e parlando loro il suo singolare linguaggio; egli errava sulle sponde del  mare, per la via Platamonia, tendendo l’orecchio all’armonia delle onde, quasi  che elle dicessero a lui solo parole misteriose. Onde fu detto Mago e molti furono i miracoli della sua magia”.

Probabilmente egli entrò in contatto con gli eremiti e i monaci alchimisti, che vivevano a Megaride,  e tra scienza e leggenda a lui  si riconduce la storia medioevale  dell’uovo che,  deposto in una caraffa di vetro racchiusa a sua volta in una gabbietta,  fu murato nelle fondamenta del castello che  appunto  prese il nome di “  castello  dell’ Ovo” e dal quale dipendevano le sorti dell’isola e dell’intera città, che  sarebbero andate in rovina se si fosse rotto. L’uovo era un simbolo noto agli alchimisti, ai filosofi, e soprattutto agli studiosi di esoterismo in quanto comprensivo di due forme perfette cioè del triangolo che rappresenta il divino e la vita, e del cerchio che la protegge.  L’uovo cosmico crea, dà origine alla vita e non a caso ricorre anche  nel mito di Parthenope e nella nascita di Pulcinella. Quando nel  1370 una violenta  tormenta  inondò le prigioni del castello ove era rinchiuso il condottiero  Ambrogio Visconti che in quell’ occasione pensò di evadere rompendo  la caraffa  dell’uovo durante la sua precipitosa fuga nei sotterranei,  franò  proprio l’ala  del castello ove era nascosto l’uovo e i generali timori dei napoletani si placarono solo quando  la regina Giovanna ne fece ricollocare un altro onde evitare nuove sciagure alla città. 

SAM_2418Tanti altri furono i prodigi e le magie di Virgilio: la mosca d’oro , cui insufflò la vita  per distruggere quelle che invasero la città, la guarigione dei cavalli di Augusto da un morbo sconosciuto, la scoperta  di un’acqua miracolosa, la pietra magica che rese pescoso il mare di Napoli, la  sanguisuga  d’oro per bonificare i pozzi  malsani, il  cambio di direzione di un vento troppo caldo, l’invenzione di  un alfabeto magico, la coltivazione di  un giardino di piante medicinali ai piedi di Montevergine e sulla collina di Posillipo, l’uccisione del serpente che aveva divorato tanti bambini del Pendino, la costruzione dei bagni termali a Baia e della lunga  galleria  della Crypta Neapolitana, opera di leggendari demoni notturni che collegava Neapolis con i porti flegrei e divenne sede di rituali orgiastici.

 

Virgilio  morì a Brindisi il 19 a. C e da sempre si crede che le sue spoglie siano nel colombario di età romana del parco Vergiliano, vicino alla Crypta neapolitana. Forse più probabilmente l’imperatore Augusto, protettore del poeta, gli fece erigere un monumento presso la villa di Vedio Pollione che poi fu  distrutto dal mare. Per altre fonti  i resti del poeta andarono persi  nel Medioevo, secondo altre il re Roberto d’Angiò nel 1326 li fece traslare o murare  nel castel dell’Ovo. Per il  grammatico Elio  Donato la tomba si trovava lungo la via Puteolana, che portava a Pozzuoli, a due miglia dalla città, per  lo storico Julius Beloch invece sarebbe nel tempio dedicato al poeta nel boschetto della villa nella  Riviera di Chiaia, per  altri ancora le due miglia porterebbero verso il Vesuvio, esattamente a san Giovanni a Teduccio.

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 Il culto di Virgilio nel mausoleo del Parco Vergiliano nell’area archeologica di Piedigrotta risale al Trecento. Visitata da personaggi illustri, letterati e potenti signori di ogni epoca storica,  citata da  Alessandro Dumas , che nel 1835 era a Napoli e  dal suo albergo SAM_2425vedeva il sepolcro, e dal marchese De Sade che la visitò nel 1776, di fronte all’entrata  pare ci fosse una lapide, posta dai padri lateranensi della vicina badia di Santa Maria di Piedi grotta nel 1554, con l’iscrizione che fuga ogni perplessità : “QUAE CINERIS TUMULO HOC VESTIGIA CONDITUR. OLIM ILLE HOC QUI.CECINIT PASCUA RURA DUCES… (Quali ceneri? Queste sono le vestigia del tumulo. Fu sepolto qui colui che cantò i pascoli, i campi, i condottieri”) e ne seguì un’altra “Che importa che il tumulo è crollato, che l’urna è rotta? Il nome stesso del poeta basterà a fare celebrare il luogo”. All’ interno del tempietto una stele di marmo posta da Eischoff, il bibliotecario della regina di Francia,  recita l’epitaffio che Virgilio scrisse prima di morire perché fosse inciso sulla sua tomba:

“MANTUA ME GENUIT, CALABRI  RAPUERE,TENET NUNC  PARTHENOPE: CECINI PASCUA RURA DUCES  (Mantova mi generò, la Calabria mi rapì, ora mi tiene Napoli: cantai i pascoli, le campagne gli eroi).

In effetti questo antico colombario romano è per tutti la tomba del poeta Virgilio, anche se si dubita della presenza delle sue ceneri; dubbio mai realmente accertato né fugato. Il mausoleo fu visitato dai grandi della letteratura quali  Dante, Petrarca, Boccaccio e infine da  Leopardi, ignaro che avrebbe riposato vicino a Virgilio.  

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SAM_2405Dapprima affascinato dalla bellezza mozzafiato dei luoghi e del mare, Leopardi  divenne insofferente di quella città che suscitava contrastanti emozioni con le sue innumerevoli contraddizioni, da amare nella sua vitalità, da odiare nelle sue insidie e nell’ invadente e fastidiosa confusione. Nel 1934 fu eretto un imponente monumento al poeta di Recanati proprio nel parco di Piedigrotta, vicino alla galleria di Fuorigrotta e alla stazione di Mergellina, in un angolo  nascosto e immerso  nel verde che rivedo ancora in un’atmosfera quasi surreale  di una calda e silenziosa mattina di agosto  provando  nuovamente  una sorta di muto timore, rispetto reverenziale per quei due grandi della poesia, commossa soggezione   di fronte ai loro mausolei e nel ricordo di alcuni versi, patrimonio universale e immortale. Che importa che il tumulo è crollato, che l’urna è rotta?

“Non vi è che un solo Virgilio: quello che la favolosa cronaca delinea nelle ombre della magia, è proprio il poeta. Invero egli non ha avuto che una magia sola: la grandiosa poesia del suo spirito. Nella cronaca è il poeta….È il poeta  che cerca ed interroga ogni angolo oscuro della natura, è lui che parla alle stelle tremolanti di raggi nelle notti estive, è lui che ascolta il ritmo del mare, quasi fosse il metro per cui il suo verso scandisce… Virgilio mago è Virgilio poeta. E nulla si sa della sua morte. Come Parthenope, la donna, egli scompare. Il poeta non muore.” Del resto anche “ Parthenope non ha tomba, Parthenope non è morta. Ella vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni. Ella corre ancora sui poggi, ella erra sulla spiaggia, ella si affaccia al vulcano, ella si smarrisce nelle vallate. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori: è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene; è lei che rende irresistibile il profumo dell’arancio; è lei che fa fosforeggiare il mare… È lei che fa impazzire la città: è lei che la fa languire ed impallidire di amore: è lei la fa contorcere di passione nelle giornate violente dell’agosto. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non ha tomba, è immortale, è l’amore. Napoli è la città dell’amore.” (da “Leggende napoletane” di Matilde Serao)

Una città dall’ apparenza ora oziosa e  solenne, ora sfacciata e volgare, da scoprire  con diverse e contrastanti letture delle  sue storie appassionate, vere e mitiche, dolci e  tormentate, ironiche e drammatiche, vissute e interpretate, custodite nella memoria di altre generazioni, dimenticate da quelle più recenti. Storie sull’ origine e sulla fine, esorcizzate dalle credenze popolari, da una  devozione superstiziosa, da rituali tramandati pigramente, come alibi poco convincenti ai quali poi si finisce col credere quasi per inerzia. Storie troppo straordinarie per essere credibili, unicamente napoletane.

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“Avrei scritto un libro e quella sera avevo avuto il coraggio di confessarlo, almeno ai gerani” (Anna Marchesini)

geranio-zonale_NG4 Abbassasti lo sguardo sul geranio bianco che era il tuo preferito, era anche il più delicato e il più raro… Ciao, Anna!

 

“Se il terrazzino si fosse affacciato sulla strada anziché sul giardino incolto di una vecchia casa disabitata, con molte probabilità avrei visto un minor numero di cose e la mia vita sarebbe andata diversamente.

 Le finestre della sala e del corridoio, quelle si affacciavano sulla strada; lo sguardo prima di giungere a terra subiva l’interferenza dei gerani alle finestre del primo piano, allegri e ciarlieri; gerani abituati tutto il giorno a vedere un po’ di mondo.

I gerani esposti sulle facciate delle case erano tenuti in assai più ampia considerazione, non solo perché gerani di più larghe vedute ma soprattutto perché soggetti principali di confronti e di critiche dei vicini, dei dirimpettai e dei passanti. Erano anche soggetti privilegiati degli scatti di turisti in cerca di angolini caratteristici, che sapienti tendine di lindo merletto sapevano tenere al riparo da sguardi indiscreti di viaggiatori indifferenti.

Perciò sui davanzali affacciati sulla via, era tutto un mettere di vasi, rimetterli ma cambiando posizione in considerazione degli spostamenti del sole; era annaffiare e aggiungere terra e uno svasare le piante al momento opportuno e innestare sapientemente e sfogliare, staccare foglioline secche e ruotare le piante per esibirne il ciuffo, la parte più folta, verso l’esterno e sbriciolare i fondi del caffè sul terriccio; era un alternare i colori dei fiori, un contare i boccioli, pulire i vasi e togliere i vasi meno riusciti per relegarli all’interno, esporre al pubblico giudizio l’orgoglio e il trionfo dei più preziosi vasi di famiglia e poi fingere, fingere un’indifferente modestia davanti agli acidi e superstiziosi complimenti delle vicine di casa.”

Da ” Il terrazzino dei gerani timidi” di Anna Marchesini. 

Cianfotta alla sorrentina

Durante le vacanze estive, che trascorrevo da sola a casa della nonna, mi piaceva molto andare con il cane nel giardino di buon mattino, soprattutto per aprire da sola il cancello dell’orto e raccogliere pomodori, peperoni, melanzane, zucchine e basilico a volontà che servivano per il menu del giorno. Una piccola- grande incombenza per una bambina di 7- 8 anni. Ricordo che la nonna trascorreva tutta la mattina in cucina: innanzitutto cucinava ai suoi gattoni il pappone di riso con le  alici diliscate, poi puliva le verdure e preparava  il pranzo che noi nipoti trovavamo   nella credenza quando tornavamo stanchi ed  accaldati dal mare. Piatti tipici erano le frittelle di fiori di zucca, che in quattro e quattr’otto sparivano dalla tavola, e la cianfotta che mi limitavo ad assaggiare perché non amavo le verdure, che ho imparato ad apprezzare e a gustare anni dopo.

La cianfotta era ed è preparata esclusivamente d’estate per consumare le tante zucchine e zucchette dell’orto in un miscuglio colorato e profumato (pare che cianfotta derivi da chabrot, antico termine dialettale francese, che significa appunto miscuglio)

 

Ingredienti per 6 persone.

 400 g pomodori da salsa, preferibilmente San Marzano

300 g patate

200 g carote

1 kg tra zucchine, zucca lunga e zucchetta

una melanzana

4-5 prugne secche snocciolate

6 pere e’ Mast’Antuono  acerbe o  spadone

basilico

uno spicchio d’aglio

una cipolla

un peperoncino piccante

sale q.b.

olio d’oliva

 

Preparazione:

Pulire e lavare  gli ortaggi, tagliarli a pezzetti. In un tegame largo e dai bordi alti versare circa quattro cucchiai di olio d’oliva e rosolare la cipolla, finemente affettata, con lo spicchio d’aglio e il peperoncino. Aggiungere poi i pomodori e, dopo circa dieci minuti, le carote, le patate e un bicchiere d’acqua. In seguito le zucchine, le zucchette e la melanzana a pezzetti e coprire con acqua, salare e lasciare cuocere a fuoco basso per circa 50 minuti senza mescolare troppo; aggiungere le prugne snocciolate e le pere, sbucciate e a pezzi, e lasciare cuocere ancora per quindici minuti. Quando è ben cotta , aromatizzare la cianfotta con basilico fresco e lasciare intiepidire.

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La campana di Punta Campanella

La Penisola sorrentina comprende la fascia montuosa di terra e di costa nella parte sud orientale del Golfo di Napoli, ma nella  toponomastica locale si considerano  esclusivamente il versante costiero che va da Castellamare di Stabia a Punta Campanella, limitato a est dal Monte Faito e a sud dai Monti Lattari. Le tante  baie ed insenature, i borghi marinari a ridosso degli scogli, i pendii ricoperti da uliveti argentati e  agrumeti contribuiscono a rendere spettacolare il paesaggio costiero, soprattutto se visto dal mare.

  In questo ambito territoriale convenzionalmente è inclusa anche Capri, un tempo estremità della penisola che in seguito a movimenti tellurici si è separata dalla terraferma. Nel corso dei secoli la penisola, grazie alla sua natura calcarea, è stata interessata da un intenso fenomeno di carsismo delle acque che ha creato un paesaggio costiero e sottomarino ricco di grotte e  insenature  di particolare valenza ambientale e naturalistica.Dal 1997 in quest’area ci sono due zone protette: la riserva marina di Punta Campanella e la baia di Ieranto, luoghi incantevoli compresi in alcuni itinerari di pesca turismo e tutelati da un Consorzio di gestione comprendente i Comuni di Massa Lubrense, Positano, Piano di Sorrento, Sant’Agnello, Sorrento e Vico Equense.

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 Sulla Punta Campanella  sorgeva un tempio, la cui fondazione mitica è attribuita ad Ulisse, e in età classica prese il nome Athenaion in onore della dea Atena. In seguito i romani  vi costruirono la strada che qui giungeva da Sorrento, e in alcuni tratti è ancora visibile il lastricato in pietra. La torre – faro eretta nel 1335 e rifatta nel 1556, segnalava l’arrivo dei pirati col suono di una campana, da cui è derivato il nome della punta. Oggi sono visibili resti di una villa romana del I- II sec d. C e la Torre Minerva di epoca vicereale (1567).

 

 Una nota leggenda popolare riguarda la campana di Punta Campanella tant’è che il  14 febbraio, in cui si festeggia Sant’Antonino patrono di Sorrento, i devoti  di Massa Lubrense e dintorni  erano  solita recarsi lì in processione  perché pare  che in quel giorno si udissero i rintocchi di una campana provenienti dalle profondità del mare, e quanto più erano forti, tanto più il mare era agitato. Credenza legata all’ invasione dei turchi nel 1558, memorabile nella storia sorrentina per atti di pirateria, devastazioni e uccisioni. SAM_2325Non a caso lungo la  costa di Napoli si ergono tante  torri di avvistamento. Sta di fatto che nel 1558 il viceré di Napoli, per Filippo II re di Spagna e delle Indie Don Giovanni Marquinez de Lara della Cueva , informato dell’arrivo di   una flotta turca di centoventi galere, mandò a Sorrento duecento soldati spagnoli. I cavalieri sorrentini però rifiutarono la truppa, temendo oltre alle molestie e ai saccheggi  anche danni ai frutti maturi, per cui fu detto  al viceré che  la vigilanza e la forza dei cittadini sarebbero state sufficienti a difendere la città. Questo fu un grave errore di valutazione del pericolo che costò molto caro ai sorrentini. Nella notte del 12 giugno la flotta ottomana approdò sulla spiaggia di Crapolla e alla marina del Cantone a Massa Lubrense, priva di difesa, mentre venti galere si schierarono di fronte a Marina Grande di Sorrento. I turchi videro la città fortificata,  protetta da solide mura e dall’ alta costa che  impedivano un facile sbarco per cui esitarono ad approdare. Intanto a Sorrento il cavaliere Onofrio Correale e sua moglie Ippolita de Rossi avevano accolto in casa per atto di pietà un servo turco che, istruito alla fede cattolica, prese il nome Ferdinando e ben presto si conquistò la  piena fiducia di tutta la famiglia. I Correale custodivano le chiavi delle quattro porte che consentivano l’accesso alla città di Sorrento, due di terra (Parsano e Marano), e due di mare (capo Cervo e Marina Grande). Proprio quella notte il Correale mandò Ferdinando a Marina Grande ad attendere un parente che arrivava via mare ma quello, vedendo i turchi, li chiamò e  li guidò in città.  Fu una notte di sangue e barbarie. “  Non furono ostacoli pel  truce ottomano né l’età, né il sesso, né la condizione, né la dimora privata, né i sacri templi, imperocchè furono uccisi vegliardi gravi di anni e bambini lattanti nelle fidate braccia delle proprie madri, spesso un sol colpo spegnendo due vite…” (da Leggende popolari sorrentine di Gaetano Canzano Avarna). La strage durò un giorno intero, e al tramonto fu dato il segnale di condurre  alle navi non solo i superstiti sorrentini, destinati al mercato degli schiavi, ma anche la campana della chiesa di sant’Antonino. Le galere turche sparirono per alcuni giorni, poi approdarono a Procida per contrattare il prezzo dei prigionieri che i sorrentini, avendo perso tutto, non poterono riscattare. I turchi quindi presero il largo per tornare alle terre natie. All’altezza di punta Campanella la barca che trasportava la campana non riuscì ad avanzare, come se ci fosse un ostacolo sotto il mare o una forza soprannaturale. Dopo tante e inutili manovre, vedendo  ormai lontana il resto della flotta, la ciurma pensò bene di alleggerire la barca gettando in mare la campana. Solo così la galera riprese la navigazione. Da allora la campana di punta Campanella suona  a distesa dal fondo del mare il 14 febbraio, giorno del patrono di Sorrento.

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