Il Carnevale a Napoli ovvero come le allegre usanze dai salotti sconfinarono nelle piazze.

La festa di Carnevale ha radici molto antiche, che si diramano un po’ ovunque, sia in Italia che all’estero.

A Napoli il 17 gennaio segnava l’ingresso del Carnevale e, in occasione della festa di Sant’Antonio Abate, si dava fuoco- pratica molto diffusa- a cataste di roba vecchia ( i cippi).Al più comune Carnevale, immaginato come un personaggio grasso e dedito a grandi abbuffate , si affiancava la “ Vecchia ‘o Carnevale”, dalle giovani e prorompenti curve, che trasportava a cavalcioni o sulla gobba un piccolo Pulcinella.

 Giovan Battista del Tufo racconta le tradizioni carnevalesche di Napoli in “Ritratto o modello delle grandezze, delle letizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli”. All’epoca degli aragonesi il Carnevale era sontuosamente festeggiato dai nobili che ambivano gareggiare in tornei e giostre e partecipare a  grandiosi ricevimenti, indossando sfarzosi costumi e fulgide armature. Nel XVI secolo il gaudente popolo partenopeo si appropriò di questa festa, inscenando sguaiati canti e rappresentazioni in maschera lungo Via Toledo e nel Largo di Palazzo (l’attuale piazza Plebiscito). La festa, sovvenzionata dai nobili che vi si intrufolavano volentieri, era organizzata dalle Corporazioni delle Arti e mestieri. Ben presto l’allegra usanza di mascherarsi  scavalcò barriere sociali e sconfinò nelle strade e nelle piazze. Memorabile fu la mascherata promossa dal principe di Tarsia che per le vie della città fece sfilare accanto ai paggi, riccamente vestiti, la corporazione dei pescivendoli ornati di gioielli, prestati dagli orefici in cambio di pesce fresco.

Nel 1656 si allestirono carri allegorici, addobbati anche con prodotti mangerecci. Usanza molto gradita che si perpetrò negli anni successivi, grazie alla generosità del re e delle Corporazioni. I carri – cuccagna, che accompagnavano le cavalcate e le quadriglie dei baroni, dei cavalieri e delle Corporazioni delle Arti, venivano poi presi d’assalto dal sempre affamato popolo napoletano. Le maschere al seguito dei carri si esibivano in cartelli carnevaleschi propri, cioè canzoni dialettali scritte su pezzi di carta o di stoffa che scherzosamente decantavano le attività e i  prodotti delle corporazioni e infine venivano lanciati al pubblico e al re.

 

Poiché a volte il saccheggio dei carri provocò gravissimi incidenti, nel 1746  re Carlo di Borbone stabilì che i carri –cuccagna, invece di attraversare la città, fossero allestiti nel largo di Palazzo e fossero presidiati da truppe armate fino all’inizio dei  festeggiamenti.  I carri furono poi sostituiti da  più stanziali  cuccagne, allestite in sei giorni da una schiera di architetti e artigiani e, addobbate con caciocavalli, prosciutti, pollastri, capretti, quarti di bue, agnelli e vino, venivano poi offerte alla plebe durante le quattro domeniche di Carnevale. Dopo pochi minuti dallo sparo del cannone che dava il via all’arrembaggio, delle cuccagne ovviamente non rimaneva nulla. Nel 1764 ci fu una grave carestia , e la cuccagna fu una tentazione troppo forte per il deperito popolo che quindi assalì i soldati e portò via ogni cosa prima dell’inizio dei festeggiamenti. Si rese necessario l’intervento della cavalleria  per riportare l’ordine dopo un inevitabile spargimento di sangue. Così la cuccagna fu sospesa fino al 1773; l’ultima festa si ebbe nel 1778  con saccheggi e tumulti a volte qualche ora, a volte giorni prima dell’inizio. L’anno dopo la Gazzetta Universale annunciò che l’eletto del popolo D. Ferdinando Lignola aveva deciso di abolire questa forma di divertimento rivelatasi troppo pericolosa. Il re pensò bene di devolvere per il matrimonio di  venti povere ragazze la somma destinata al Carnevale.

  Al tempo dei Borboni la festa era annunciata al popolo con il prolungato suono di grosse conchiglie, dette tofe. E via per le strade si riversavano festosi e baldanzosi cortei che danzavano al ritmo di strani e rumorosi strumenti  detti  ‘o putipù,  ‘o triccaballacche e  ‘o scetavaiasse ( quest’ultimo- come dice il nome-poteva addirittura svegliare le volgari vaiasse, che pare sprofondassero in un sonno ristoratore dopo estenuanti fatiche).Una folla chiassosa di uomini,donne e scugnizzi invadeva ogni luogo, circondava le carrozze e ossequiava con coriandoli e uova piene di farina  i malcapitati nobili o abati. Gli aristocratici quindi si limitavano a lanciare coriandoli e fiori da balconi addobbati a festa. I signori preferivano festeggiare partecipando al ballo e al pranzo nel teatro San Carlo, che veniva trasformato per l’occasione . In verità alcune dame e cavalieri approfittavano del Carnevale per travestirsi e mescolarsi al popolo e poter  compiere, indisturbati, lascive trasgressioni.

Nell’800 l’allegra fantasia carnevalesca straripò in idee e costruzioni originali. Basti ricordare  l’insolita e divertente cavalcata di struzzi, che annunciavano il passaggio dei carri allegorici in Via Toledo, oppure i carri con  il cavallo impennato, simbolo della città, con l’immancabile e sorridente popolana al balcone, o la cornucopia dell’Abbondanza o  la seducente sirena Partenope.

Pian piano i festeggiamenti del Carnevale si ridussero a feste rionali. Su un carro troneggiava un  grasso Carnevale , ornato di provoloni, salsicce e prosciutti . Al seguito sfilavano donne in lacrime per il suo cattivo stato di salute, che recitavano le infelici diagnosi dei medici dei tre rioni più popolari di Napoli ( il Mercato, il Pendino e il Porto)  alle quali si  contrapponevano un generale e buon augurio di lunga vita.

E vui ca l’avite visto st’anno/

lu puzzate vede’a ca a cient’anne

(e voi che l’avete visto quest’anno, possiate vedere da qui  a cent’anni).

Interveniva quindi O’ mast’ e festa ( il maestro della festa) che girovagava per le botteghe per  fare la questua in nome del Carnevale e  racimolare qualcosa come rimborso delle spese sostenute.

 Ormai  del Carnevale è rimasto ben poco, se non le mascherate perlopiù dei bambini, e qualche piatto tipico, come la lasagna e la pizza di Carnevale. Il sanguinaccio, gustosa crema di cioccolata fatta – ahimè- col sangue di maiale,  è stato vietato da recenti norme sanitarie e sostituito dal più comune cacao.

 

 

Le tre C

Una leggenda yemenita  narra che un monaco, desideroso di  restare sveglio per poter pregare più a lungo, era solito preparare una bevanda con bacche sconosciute che eccitavano  capre e cammelli. Bevanda alla quale poi ricorsero in Arabia  altri monaci, pur di  sconfiggere sonno e stanchezza.

Si racconta  invece  che l’arcangelo Gabriele ricevette  direttamente da Allah una miracolosa pozione, scura come la Sacra Pietra Nera della Mecca, in grado  di rianimare  l’ammalato  Maometto o che un immenso incendio si propagò in un vastissimo territorio dell’Abissinia facendo diffondere e apprezzare  l’aroma delle tante  piante che vi crescevano spontaneamente.

Di cosa parlo? Del caffè!

Il caffè è uno dei piaceri più genuini e semplici della vita: talvolta servito a letto dalla dolce metà ( quale delle due?) o dalla padrona di casa in un cerimoniale basato sull’accogliente ospitalità, quasi sempre è espressione di  un rituale irrinunciabile da  eseguire diligentemente appena alzati o eseguito automaticamente da una moka con timer. È sorbito davanti al tg del mattino o  mentre si guarda il cielo della giornata e si inizia il rodaggio verso la quotidianità, gustato al bar per iniziare le relazioni sociali col mondo o proposto a qualsiasi ora del giorno per rompere il ghiaccio,  per fare una pausa  o per fermarsi e riflettere con calma.

 Il piacere vero sta nel sedersi, anche per pochi minuti, e gustare  il caffè tenendo fede alle famose  “ 3C”. Il  caffè, anzi un buon caffè, dovrebbe essere  “ comodo , carico e caldo” con la variante  “in compagnia”. Le tre C sintetizzano  metaforicamente anche i requisiti dell’uomo da sposare… e  più prosaicamente sono tradotte in “ comm’  ca**’ coce”.

La nota canzone   napoletana “ ’A tazza  ‘e cafè” paragona il caffè ad una donna riottosa che sotto una parvenza  amara cela un’indole   dolce che lo spasimante è deciso a far emergere a tutti i costi. Ben diverso e affascinante è  il  proverbio turco che lo definisce nero come l’inferno, forte come la morte, dolce come l’amore.

Quanti  modi di preparare un caffè, c’è  l’imbarazzo della scelta! Macchiato schiumato, corretto, ristretto, lungo, corto, doppio e ancora messicano, marocchino, turco, giamaicano, greco, Irish coffee, all’americana, al ginseng … Pare che ne consumiamo circa 600 tazzine all’anno pro capite.

 Voi come  lo preferite?

 

Canta, canta la cicala…

 

La cicala depone uova negli steli d’erba dalle quali a settembre si schiudono le ninfe che sprofondano nella terra; le larve di cicala vivono circa quattro anni sottoterra e, dopo i sette stadi larvali, raggiungono la maturità e iniziano una nuova vita all’ aperto. La cicala si nutre della dolce linfa delle piante, perforandone lo xilema ( tessuto vascolare); invece le formiche, insetti iperattivi di una comunità sociale super organizzata ove ogni componente ha un ruolo specifico ben definito, spesso sono attratte dalla linfa scoperta dalla cicala e accorrono per sfamarsi, costringendola a spostarsi e a trivellare la pianta in altri punti .

La famosa favola di La Fontaine   narra invece di una formica laboriosa e provvida che faticava sotto il sole per accumulare provviste per l’inverno, mentre la cicala si dedicava all’ozio estivo e al canto. Quando arrivò il freddo, la cicala affamata chiese aiuto alla formica ma

“La Formica che ha il difetto
di prestar malvolentieri,
le dimanda chiaro e netto:
– Che hai tu fatto fino a ieri?
– Cara amica, a dire il giusto
non ho fatto che c
antare 
tutto il tempo.– Brava, ho gusto;
balla adesso, se ti pare.”

Trilussa ribalta il finale in

La Cecala d’oggi”

 Una Cecala, che  pijava er fresco

all’ombra der grispigno (insalata) e de l’ortica,

pe’ da’ la cojonella (per canzonare) a ‘na Formica

cantò ’sto ritornello romanesco:

“ Fiore de pane,

io me la godo, canto e sto benone,

e invece tu fatichi come un cane.

“ Eh! da  qui ar bel vedé ce corre poco:

– rispose la Formica –

nun t’hai da crede mica

ch’er sole scotti sempre come er foco!

A momenti verrà la tramontana:

commare, stacce attenta…”  

Quanno venne l’inverno

la Formica se chiuse ne la tana.

ma , ner sentì che la Cecala amica

seguitava a cantà tutta contenta,

uscì fòra e je disse:  “Ancora canti?

ancora nu’ l a pianti?”

“ Io? – fece la Cecala – manco a dillo:

quer che facevo prima faccio adesso;

mó ciò l’amante: me mantiè quer Grillo

che ’sto giugno me stava sempre appresso.

Che dichi? l’onestà? Quanto sei cicia!( di poco spirito)

M’aricordo mi’ nonna che diceva:

Chi lavora cià  appena una camicia,

e sai chi ce n’ha due? Chi se la leva.”

 Se la morale della favola di La Fontaine è “chi nulla mai fa, nulla mai ottiene”, nei versi di Trilussa i marpioni ottengono comunque, senza troppi sforzi e lunghe attese.

In verità in entrambi i casi la cicala vive spensieratamente  il presente senza troppi timori per il futuro… 

E voi, vi sentite più cicala o più formica? 

 

Elogio della gallina

 

È finito il tormentone che per secoli ha alimentato dissertazioni  filosofiche e biologiche, cioè il famoso quesito “È nato prima l’uovo o la gallina?”  .Infatti dal 2006, in base  a studi di  genetica e a ragionamenti logici, due professori universitari e un avicoltore britannico hanno concluso: Poiché il materiale genetico non muta durante la vita di un essere, il primo uccello che si è evoluto in quella che oggi noi chiamiamo gallina deve essere prima esistito come embrione all’ interno di un uovo, avente lo stesso DNA dell’animale che sarebbe diventato. Pertanto, è nato prima l’uovo della gallina.

In parole semplici, un uovo di gallina genera necessariamente una gallina, ma può essere stato deposto da una “non gallina”.(Times)

 Spesso la gallina è ricordata per qualità di scarso pregio quando si dice “ha un cervello da gallina”, riferendosi il più delle volte al gentil sesso, o si allude  ad una scrittura irregolare ed incomprensibile detta appunto a zampa di gallina,tipica di chi scrive in  fretta e in particolar modo dei medici.

 Jannacci cantava che ” La gallina non è un animale intelligente lo si capisce  da come guarda la gente”. Forse anche perché “le anatre depongono le loro uova in silenzio. Le galline invece starnazzano come impazzite. Qual è la conseguenza? Tutto il mondo mangia uova di gallina” (HenryFord) però è vero che  “Se la gallina non cantasse, nessuno saprebbe che ha fatto l’ uovo.” 

  In fondo “il gallo  canta sempre,  persino la mattina in cui finisce in pentola.” (Stanislaw J. Lec)  e quindi non so chi dei due polli brilli di più per acume.

Merito della gallina che va a nanna presto e che, a differenza del  gallo che fa  chicchirichì e due colpi d’ala e via, invece fa l’uovo senza neanche fare il nido e, da chioccia, sta buona e cova i suoi pulcini.

 Nelle guerre fratricide del pollaio “molti fan la guerra per un uovo e lasciano intanto scappar la gallina” (mica scema!) ignorando che se  “Il passato è un uovo rotto, il futuro è un uovo da covare.” (Paul Eluard), quindi bisogna difendere la gallinella per avere altre uova e garantire la sopravvivenza del pollaio. Inoltre è risaputo che gallina vecchia fa buon brodo, a dispetto dell’età.

  Nonostante i battibecchi , galli e galline convivono in un rapporto simbiotico.

Mi sovviene  “Galline in fuga” , film d’animazione di qualche anno fa, trasposizione della “Grande Fuga” ,tratto da una storia vera sull’ evasione di prigionieri alleati da un campo di concentramento tedesco durante la seconda guerra mondiale.

Per sottrarsi all’ infame destino di essere trasformate in pasticcio di pollo, le gallinelle, capitanate dall’ intraprendente Gaia, decidono di evadere dal pollaio lager. Nei preparativi e addestramenti per la fuga, le coccodè  sono aiutate da Rocky, un gallo americano precipitato dal cielo perchè sparato, a loro insaputa,  da un  cannone da circo. All’inizio Rocky le illude che possano volare, poi quando  la verità viene scoperta,  insegna loro a svolazzare quel tanto che basta per superare l’alto recinto e si cimenta nella  costruzione di  una rudimentale macchina volante che consentirà di mettersi in salvo.

 L’immagine più delicata della donna gallina è nei versi che Umberto Saba dedicò alla moglie. Quest’ultima giustamente si risentì, anche perché viene paragonata in modo inconsueto pure alla giovenca, alla cagna, alla coniglia, alla rondine, alla  formica e all’ape.

Con tono ingenuo, semplice,quasi  infantile e sicuramente innovativo perché lontano dal tradizionale linguaggio amoroso, il poeta  ne canta la naturale bellezza,l’energia vitale ,la  prorompente fisicità. Le  migliori qualità che avvicinano a Dio sono in tutte le femmine di tutti i sereni animali e in sua moglie…ma in nessun’ altra donna.

 

A mia moglie.

Tu sei come una giovane

una bianca pollastra.

Le si arruffano al vento

le piume, il collo china

per bere, e in terra raspa;

ma, nell’andare, ha il lento

tuo passo di regina,

ed incede sull’erba

pettoruta e superba.

È migliore del maschio.

È come sono tutte

le femmine di tutti

i sereni animali

che avvicinano a Dio.

Così, se l’occhio, se il giudizio mio

non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,

e in nessun’altra donna.

Quando la sera assonna

le gallinelle,

mettono voci che ricordan quelle,

dolcissime, onde a volte dei tuoi mali

ti quereli, e non sai

che la tua voce ha la soave e triste

musica dei pollai.

 

Pertanto essere additate come gallinelle,  talvolta potrebbe pure essere  

un bel complimento! O  no?

                         

P.S: perdonate la polemica finale. Nel luglio 2008 commentavo così un post della mitica Placida Signora a riguardo della gallina, alla quale nel vecchio blog affondato avevo dedicato questo mio post . Ho trovato in rete  il mio scritto interamente copiato nel 2009 da un tale, che non menziono perché non merita pubblicità in quanto non ha nemmeno citato come fonte o linkato skipblog.it . Preciso che  “l’elogio della gallina” è mio e lo ripubblico io. Ecco!  😉

L’incubatrice di sogni …

Al tempo dei sumeri (4000 a.C.) era diffuso il rituale dell’incubazione. Questa pratica richiedeva che un sognatore scendesse in un luogo sacro sotterraneo, dormisse una notte sognando e andasse da un interprete a raccontare il sogno, che di solito rivelava una profezia. Nella Grecia arcaica il rituale fu ripreso anche dai sacerdoti di Esculapio che, svolgendo un’attività simile nei loro templi e santuari, assumevano un ruolo di cura e guida spirituale. Un noto interprete fu  Artemidoro di Daldi, autore di Onirocritica (Ὀνειροκριτικά) , opera in cinque libri sull’ interpretazione dei sogni in cui si discostò dalle pratiche magiche in voga al suo tempo, evitando di consigliare comportamenti futuri . Artemidoro fece una prima classificazione scientifica dei sogni distinguendo quelli legati a episodi storici, al passato e al presente e quelli, profetici e simbolici, relativi al futuro.

In epoca moderna  Freud riprese l’argomento e, proclamando “che  il sogno è la via maestra per esplorare l’inconscio”, diede quindi origine alla psicoanalisi, disciplina di profonda indagine psicologica che si sviluppò di pari passo con l’analisi e l’interpretazione  dei sogni.

I  napoletani, sognatori più pragmatici che tentano la fortuna, interpretano non solo i sogni,  ma anche i vari fatti quotidiani, traducendoli in numeri da giocare al lotto dopo averli ricavati dalla smorfia napoletana. Quando mi capitano fatti eccezionalmente strani o curiosi, mi ripropongo anch’io di giocare i  numeri corrispondenti con la speranza di azzeccare un terno secco…peccato però che immancabilmente me ne dimentichi e chissà cosa significhi in termini psicanalitici quest’inconscia rimozione di tentare la sorte.

In sintonia col mio bradipismo di fine settimana ( da non confondere col bradisismo, please  😉 ),  per me uno dei tanti piaceri della vita è dormire sognando. Nulla di più libero e liberatorio, imprevedibilmente sorprendente, allettante dove lasciare decantare se stessi. Non sempre sogno, o meglio, riesco a ricordare i sogni. In un fantascientifico futuro non disdegnerei di trasformarmi professionalmente in un’incubatrice di sogni, possibilmente piacevoli… una tantum vivrei qualche incubo a mo’ di horror sponsorizzato dall’ inconscio. Sicuramente il canale onirico sarebbe più vario, divertente e interattivo di  quelli televisivi e la ricostruzione dei sogni mi appassionerebbe più di un sudoku.

Talvolta i sogni sono ricorrenti, a volte premonitori: lasciano emergere tracce nascoste della vita psichica. Credevo che rivelassero  solo le proprie emozioni, paure, desideri, traumi inconsci. Anni fa però, quando nulla faceva presagire il viaggio improvviso di una persona a me molto cara, nello stesso istante in cui avanzava nell’Altro Infinito, lei mi apparve in sogno. Mi salutava con la mano mentre indietreggiava. Per la prima volta mi svegliai di soprassalto con un senso d’angoscia. Appena si fece mattina, telefonai ed ebbi conferma. Dopo aver vagliato una mia eventuale autosuggestione alla luce di un  precedente scetticismo, ho concluso che ci sono cose che sfuggono ad ogni logica umana e ragione e che si appellano o ad un sesto senso, sempre operante che fa presagire, oppure all’inspiegabile empatia che a volte nasce tra anime e che può  rivelarsi tra le misteriose pieghe dei sogni.

Vi è mai capitato? 

Chapeau, Rottejomfruen!

 

Strana questa statua, vero? La vecchina dei topi, opera dell’ artista Marit Norheim Benthe, si trova nel parco Ibsen di Sorrento e  richiama un personaggio de“Il Piccolo Eyolf”, dramma moderno di Ibsen. E’ stata donata dalla città natale del drammaturgo , Skien in Norvegia,  in onore dell’apertura del parco e riproduce la statua originale, molto più grande  e alta 7 metri,  inaugurata il 20 marzo 2006  nel giorno della nascita dello scrittore norvegese . 

Il dramma narra del piccolo Eyolf, un bambino che diviene storpio in seguito ad una caduta causata dalla negligenza dei suoi genitori, Alfred e Rita Allmers, e che  sparisce misteriosamente nelle acque di un fiordo, forse attratto dalla vecchina dei topi. Suo padre sposa Rita, ricca di oro e foreste ma anche di sensualità e bellezza, che nutre un amore esclusivo e morbosamente possessivo per lui, “ così discreto in tutto” ed incapace di produrre, di portare a termine un trattato sull’umana responsabilità e di compiere scelte sentimentali  sentite. Asta, sorellastra di Alfred, serba in cuor suo un amore inconfessato per il fratellastro,  dal quale scopre di non essere legata da vincoli parentali, e tentenna con  Borgheim, l’ingegnere innamorato che costruisce strade.

 

Eyolf è il povero, piccolo, pallido, dagli occhi belli ed intelligenti Porta un nome appartenuto all’infanzia di Asta, chiamata così da Alfred,  immaginandola un maschio, che inconsapevolmente ne è attratto e la  protegge sin da quando rimasero orfani in giovane età .Il bambino è respinto da genitori che rincorrono piacere e ambizioni smarrendosi in conflittualità interiori,  respinto dai coetanei coi quali non riesce a giocare e a condividere il suo sogno di divenire soldato, respinto da un padre che per anni lo limita a vivere solo per lo studio e da una madre che ammette di desiderare l’infanticidio, uno dei tabù più indigesti alla società di ogni tempo, pur di avere il marito tutto per sé. Ma ciò che scrive suo padre, cioè  il trattato sull’umana responsabilità,  conta per Eyolf. “ Credimi, verrà qualcuno che lo farà meglio”- risponde Alfred. “ Chi dovrebbe essere?” replica  il bambino. “Verrà senz’altro e si farà conoscere” conclude lui.

E compare Rottejomfruen, la vergine, leggendariamente  più nota come vecchina dei topi, che  vaga per mare e terra per scacciare- accogliere tutti i topi. Cerca qualcosa che rosicchia in casa e con piacere aiuterebbe i signori a liberarsene. Promette pace a tutti quelli che gli esseri umani odiano e perseguitano, conducendoli dolcemente nell’ acqua alta. “Lugubre femmina” vede ciò che gli altri non vedono e indirettamente  fa aprire gli occhi a tutti su profondità inesplorate. Da un sacco estrae un carlino, un cagnetto- guida che la aiuta a scovare i topi, creaturine infestate e infestanti, che rodono, come dentro rodono i sensi di colpa, l’amore di Rita respinto da un coniuge che confessa di averla sposata per interesse, la gelosia di Alfred per la sorellastra Asta,l’amore inconfessato di lei per il fratello maggiore che scopre non essere tale, l’amore tenace dell’ingegnere Borgheim per la giovane  Asta . Rosicchiano dentro le  passioni morbose, il tormento di una perdita, di un fallimento, di una frustrazione, dell’inettitudine. 

Eyolf in questo drammone pare una comparsa in un girotondo di amori diversi ,non destinati a lui, in cui  tutti gli ruotano intorno più per dovuta compassione che per amore. È escluso dall’odio della  madre e dall’estraneità del padre, da adulti ciechi ed ostinati che se ne servono per recitare ruoli non sentiti. Lo stesso padre cela la sua inanità dietro l’intento più recente di adoprarsi per  portare coerenza fra i desideri del bambino e ciò che gli è accessibile, negandogli però la possibilità di sognare, convinto di creare così nel suo animo il sentimento della felicità. Un inetto con l’ambizione di  stratega e manipolatore della vita altrui, incapace di accettare il figlio. Eyolf scompare nelle acque del fiordo, forse incantato dalla vecchia, e non viene soccorso dai figli “selvaggi” dei pescatori. Solo, nel suo destino e nella sua scelta, lascia  traccia di sé in una gruccia sull’acqua e nella sua  sagoma galleggiante con occhi aperti che tormenta sua madre in sogno. La sua uscita di scena induce i personaggi a riflettere e finalmente ad operare scelte, interrompendo un circolo chiuso ed intricato di segreti, di egoismi, di ambiguità e di  interessi personali.

 

Alla fine del dramma Rita cerca di riscattarsi adoprandosi per istruire i figli dei pescatori, e suo marito, che prima pensava di defilarsi, come aveva sempre fatto da ogni responsabilità di cui non poteva scrivere, condivide questo progetto di volontariato assistenziale per bambini emarginati che “abiteranno nelle stanze di Eyolf, leggeranno i suoi libri e giocheranno con i suoi giochi, faranno a turno per sedersi sulla sua sedia al tavolo.” Solo così Rita spera di blandire quegli occhi spalancati che le rinnovano il rimorso. Asta segue il tenace costruttore di strade, colui che spiana il terreno per renderlo percorribile a tutti, creando collegamenti, comunicazione e continuità. Alfred e Rita che si erano spaventati del figlio quando era in vita, lo ritrovano solo nel dolore della sua perdita e dopo una vorticosa e confusa  dimensione reale, immaginata e  desiderata,  sospesi tra ciò che è  necessario e  possibile e ciò che non lo è , sembrano dare senso alla loro vita e conciliarsi con il mondo, forse infine anche con loro stessi.

 “Vedrai  il silenzio della domenica scenderà di tanto in tanto su di noi….Forse allora ci accorgeremo della visita degli spiriti….allora forse saranno intorno a noi, – quelli che abbiamo perduto. Il nostro piccolo Eyolf. E anche il nostro grande Eyolf…Dobbiamo guardare in alto, verso le cime, verso le stelle. E verso il grande silenzio.”  Rita, incapace di vivere nel dormiveglia  del rimorso e del risentimento riconosce che “ Siamo creature terrene” “Sì ma anche imparentate con il mare e con il cielo, più di quanto non si creda.” aggiunge Alfred.    

                                      

Un dramma esasperato, costruito da Ibsen che non svela mai del tutto . Come questa statua così particolare che suscita curiosità. In fondo questa vecchia dei topi, predatrice e  liberatrice di angosce, fecondatrice di coscienze, scruta  l’imperscrutabile con migliaia di occhi  che  sono quelli indagatori e puliti dei bambini, che osservano e intuiscono ciò che spesso gli  adulti, nelle varie dinamiche personali e relazionali, non riescono più a vedere né a distinguere.

Non a caso gli occhi variopinti, che ornano la veste di questo insolito personaggio, sono stati realizzati proprio da centinaia e centinaia di bambini che all’inaugurazione della statua di Skien  si erano travestiti da topolini.

 

A spasso tra Befane e Befani

 

Gaspare , Melchiorre e Baldassarre, noti come i tre  Re Magi,  amanti dei segreti del cielo e desiderosi della verità, non disponendo di  un  navigatore satellitare ma solo di una cometa da seguire, lungo il loro cammino verso Betlemme chiesero informazioni a una vecchia. Costei non volle accompagnarli, ( già all’ epoca c’era il detto mai fidarsi degli sconosciuti anche se dal portamento regale) e rimase a  casa. Poi ci pensò  e si pentì; preparò quindi un cesto pieno  di dolci e uscì a cercarli. Man mano lungo la strada distribuì dolci ai bambini che incontrava nella speranza  che uno di essi fosse Gesù.

La leggenda narra che da allora vagherebbe per il mondo  facendo regali ai bambini per farsi perdonare.La Befana è vecchia e brutta come l’anno trascorso, ormai vetusto,buono per esser bruciato e cedere  il passo a quello nuovo che sta nascendo. Infatti in molti paesi all’ inizio dell’anno c’è l’usanza di bruciare un fantoccio, coperto di  vestiti logori. Invece la consuetudine dei doni è un  buon auspicio per l’anno nuovo.

Di recente in occasione dell’Epifania  c’è un pullulare mediatico di frasi augurali per tutte le donne,associate indistintamente alla Befana  a prescindere dall’età e dall’aspetto. Forse è un po’ un augurio scaramantico perché la parte  più brutta, consueta e vecchia  della personalità femminile lasci spazio  a quella più innovativa , generosa e bella?

La fantasia del popolo romano ha attribuito alla Befana anche un marito, con cui viveva “molto, ma molto lontano”, descritto come uno spauracchio terribile, ricordato all’ occorrenza dalle mamme .Il Befano, bruttissimo , gobbo e arcigno era una specie di orco che divorava i bambini  monelli.

Stasera a Super Quark trasmetteranno  un documentario  speciale sulla Befana, sul suo  modo di volare, di riprodursi, di nutrirsi ecc… Ma  io mi chiedo: cosa  avete raccontato a Piero Angela della vostra vita?

Buona Befana! :)

 

I folarielli

La tradizione napoletana vuole che a conclusione delle cene di Vigilia e dei pranzi di Natale e Capodanno il palato stramazzi sazio, ma  estasiato da un vario  assortimento di dolci  e sciosciole (frutta   secca ).Le più comuni noci di Sorrento, nucelle (nocciole), arachidi infornate, castagne r’u prevete (del prete) volteggiano sulle tavole con  altre prelibatezze, particolarmente gustose e ipercaloriche,cioè  datteri, fichi secchi e prugne ricoperti di  cioccolato o ripieni di noci, nocciole  o mandorle.

 Un cenno particolare meritano i cosiddetti “folarielli” o follovielli, involtini di uva passa o fichi secchi e frutta candita, che sono un prodotto tipico di Sorrento consumato soprattutto durante le feste di Natale.

 Pare che fossero noti già agli antichi romani che utilizzavano perlopiù foglie di fico, vite e platano, attualmente sostituite da quelle di limone, cedro e arancio, legate poi con fili di rafia.

 Il nome può derivare  da “folium volvere” (avvolgere la foglia) oppure da follare (pigiare ) o ancora, secondo un etimo popolare meno dotto e più incerto, da folliculus (sacchetto o guscio).

La lavorazione dell’uva è più lunga e complessa  dell’essiccazione dei fichi perchè l’uva viene  prima lavata nel vino bianco, poi essiccata, bollita  nel mosto, infine  infornata e aromatizzata con pezzetti di frutta candita, di solito arancia.

 Eccoli qui…attenzione che si ingrassa solo a guardarli   :)

L’Enigma svelato sulla facciata del Gesù Nuovo di Napoli

Una scoperta musicale, risalente ormai a circa due anni fa,  mi è venuta in mente passeggiando nel centro storico di Napoli. Sul bugnato della facciata del Gesù Nuovo sono incisi strani segni, di circa dieci centimetri, che fino a qualche tempo fa si credeva  fossero i simboli delle diverse cave, da cui provenivano le pietre  utilizzate per le bugne a forma di diamante, oppure, secondo un’altra interpretazione, si pensava che rivelassero segreti alchemici, capaci di caricare la pietra di energie positive dall’esterno verso l’interno dell’edificio. 

 

In verità questo attirò energie negative, forse perché gli operai non posero correttamente le pietre. Ultimato nel 1470 da Novello da San Lucano come civile abitazione per i potenti Sanseverino, l’edificio subì una serie di sciagure: fu confiscato da Pedro di Toledo nel 1547, perché i Sanseverino appoggiarono la rivolta popolare contro l’Inquisizione, fu poi donato ai gesuiti che lo trasformarono da palazzo in chiesa. Anche la chiesa, però,  non ebbe buona sorte: prima fu incendiata, poi più volte crollò la cupola e infine ne furono cacciati i gesuiti. Solo durante la seconda guerra mondiale, fortuna volle che una bomba, caduta sul soffitto di una navata, non esplodesse.

Sta di fatto che più di recente  lo storico dell’arte rinascimentale napoletana, Vincenzo De Pasquale, e  i  musicologi ungheresi Csar Dors e Lorànt Réz hanno capito che quei segni erano lettere dell’alfabeto aramaico, corrispondenti a note musicali. In pratica il bugnato è un pentagramma sul quale è scritta una melodia musicale per strumenti a plettro, che si legge da destra a sinistra e dal basso verso l’alto, dura circa tre quarti d’ora (qui per ascoltarla). Gli studiosi hanno deciso di intitolarla “Enigma”.

Lo storico De Pasquale ha spiegato che  i Sanseverino già fecero incidere note musicali nel loro palazzo a Lauro di Nola e che queste note in aramaico furono dimenticate forse per effetto della Controriforma che dettò rigide norme per l’arte, cancellando tutto ciò che di terreno potesse contrastare con le verità trascendenti del cattolicesimo. I gesuiti s’adoprarono  in tal senso ma, ironia della sorte, il padre gesuita Csar Dors, esperto di aramaico, ha contribuito a scoprire il segreto musicale della facciata del Gesù Nuovo.

 Un altro mistero svelato in una città d’arte dalla storia infinita. 

La storia infinita del presepe napoletano: i tetri personaggi del presepe, ormai scomparsi.

 Nel  Complesso Monumentale di San Lorenzo Maggiore in Piazza San Gaetano a Napoli ( nei pressi di San Gregorio Armeno, sede delle botteghe degli artigiani del presepe), nel dicembre del 2009 ebbi l’occasione di visitare l’interessantissima mostra “Tradizione in azione- un percorso d’arte tra tradizione e contemporaneità”,  realizzata dai fratelli Scuotto, dalla quale ho molto appreso sulla storia e sull’arte del presepe.

Da anni i fratelli Scuotto trasformano l’artigianato in arte pura.  Ideatori e creatori della bottega “La Scarabattola” e dell’Associazione culturale EsseArte, dal 1996 svolgono un lavoro curato, ironico, fedele alla tradizione ma altamente innovativo dell’arte presepiale che, sin dal ‘700, da semplice espressione folkloristica di successo del popolo si elevò a raffinata espressione culturale di Napoli. Documentandosi sui testi “Il Presepe popolare napoletano” e “Le storie e i racconti dei dodici giorni di Natale” del Maestro Roberto De Simone, hanno  scoperto che il presepe nasconde dei simboli straordinari, esoterici e interessanti. 

De Simone  ha recuperato e riproposto  il patrimonio culturale, teatrale e musicale della tradizione popolare campana, riscoprendo e diffondendo anche la tradizione napoletana del Natale. “…La tradizione come scrigno della memoria, ma anche specchio che riflette in modo oggettivo le mutevolezze della nostra identità nel sovrapporsi delle epoche…. il Natale ha  origini arcaiche risalente a  epoche antecedenti e pagane. Timorosi per il futuro, buio e spoglio paventato dall’inverno, i popoli primitivi esorcizzavano le loro paure con rituali propiziatori al ritorno della luce e del calore oppure, più tardi, alla rottura simbolica del tempo con la speranza di arrestare gli eventi nefasti e rigenerare un tempo nuovo, più equo e giusto. Di questo si può intravedere qualche traccia,ormai sbiadita, nell’usanza di tagliare a pezzi il capitone o l’anguilla e nel consumo dei tipici struffoli o del susamiello , dalla caratteristica forma serpentina. (Roberto De Simone:  da “Personaggi di terrore, demoniaci e magico religiosi della tradizione natalizia meridionale-2008)

 Il presepe è quindi la rappresentazione tangibile e visibile della tradizione, non solo come devozione per il Salvatore , ma anche come espressione di tutti i simboli del codice onirico della tradizione (quali il ponte, il pozzo, la fontana, il mulino, il fiume, l’osteria)  vissuti da personaggi tipici di leggende, credenze,superstizioni popolari in una commistione di sacro e profano, magia e religione.                                

Tra i personaggi del presepe napoletano c’erano figure un po’ tetre, alcune demoniache, ritenute depositarie di messaggi terrificanti e perciò, probabilmente, pian piano sono scomparse ma sopravvivono nella costante presenza del pozzo, del ponte e dell’acqua. 

Tra questi personaggi, grazie ai fratelli Scuotto, rivive la mostruosa Maria ‘a Manilonga: nell’Avellinese i bambini devono stare lontani dai pozzi nelle sere delle festività natalizie perchè Maria, essere demoniaco, li cattura (Roberto De Simone) trascinandoli nelle profondità delle acque sotterranee, negli Inferi. Il pozzo rappresenta gli abissi e quindi la comunicazione col mondo dei morti.

Forse non a caso, già nell’intuizione popolare, alla Madonna si contrapponeva  Maria ‘a Manilonga che potrebbero essere  aspetti dell’ambivalente  sentimento materno di madre-matrigna, amore e odio originato dalla doppia e conflittuale soggettività delle madri, il cui figlio vive e si nutre del loro sacrificio. Un sentimento naturale- come sostiene  Umberto Galimberti in “ I miti del nostro tempo” ed. Feltrinelli- sempre esistito, testimoniato dalla mitica Medea, e sempre ripudiato con terrore collettivo  perché intacca la sacralità della vita. L’abisso della solitudine può  trasformare la madre in matrigna con potere di vita ma anche di morte quando quel figlio è troppo distante dai suoi desideri e sogni.

 

 

Mamma Sirena: è il personaggio di una favola che narra di un giovane  pastore che,  lungo la riva del mare, intonava  un canto per favorire il ritorno della sorella dagli abissi marini in cui era tenuta prigioniera. Le pecorelle, mangiando le perle che cadevano dai capelli della fanciulla, acquistavano poteri vaticinanti, svelavano arcani misteri e davano infallibili oracoli.

 

 

Il ponte dei carmelitani: in riferimento al segno del  ponte a Grottaglie e a Napoli, nel giorno dell’Epifania il presepe si arricchiva di una scena singolare. Vale a dire che lì, dove è situato un ponte tra due dirupi, si collocavano dodici figurine di monaci scalzi ed incappucciati, che si rifanno alla Madonna del Carmelo, che è appunto la Madonna delle anime del Purgatorio. Mostravano il pollice della mano sinistra fiammeggiante: essi rappresentavano i mesi morti o i dodici giorni del periodo natalizio che, al seguito dei Magi, ritornavano nell’aldilà .

 

 Il ponte consente il  transito tra il mondo dei vivi e quello dei morti . È un  luogo di manifestazioni magico-fantastiche, rappresentate per esempio dal lupo Mannaro e da Mafalda.

A mezzanotte meno dieci Zi Michele procedeva col suo carretto  in direzione di un crocevia e , da lontano,scorse una strana figura. Giunto al crocevia non lo vide più. Esclamò “Mamma mia, l’ho visto un momento fa. Ma sto sognando, o che mi sta succedendo? ” Non appena attraversò il crocevia, gli si presentò il mostro, il famigerato lupo Mannaro.

Sotto il ponte invece compariva,  in veste di  monaca, il fantasma di Mafalda o, per alcuni  della Principessa Cicinelli, che appartiene alla tradizione campana e pugliese. Suo  padre le  aveva vietato di vedere il paggio di cui si era innamorata  e voleva che si ritirasse in convento. “Quando giunse la sventurata giovane, raccolse piangendo il capo mozzo del suo amato , lo depose nella bisaccia e si trafisse con lo stesso pugnale che il padre aveva lasciato per terra.” (Roberto De Simone).

 Ecco sul ponte il tempo che passa, sotto il mondo dei morti con Mafalda in basso a sinistra.

La tradizione riproposta  con un linguaggio artistico libero, come deve essere sempre l’arte, (Salvatore Scuotto) rivive nella passione artistica  e nella creatività dei fratelli Scuotto.

 

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